Gli ori di Oplontis e gli arredi di lusso al tempo di Poppea: a Torre Annunziata (Napoli) una mostra rivela i tesori scoperti nel sito dell’Unesco e mai esposti. Un museo archeologico permanente per il rilancio della città vesuviana

Il manifesto della mostra “A picco sul mare” allestita a Palazzo Criscuolo a Torre Annunziata sui tesori di Oplontis
L’esposizione è limitata nel tempo: solo fino al 31 marzo 2016. Ma il progetto della mostra di reperti archeologici allestita a Torre Annunziata (Napoli) “A picco sul mare. Arredi di lusso al tempo di Poppea. Oplontis, il fascino e la bellezza. Esposizione di sculture e reperti delle ville romane” è molto ambizioso. Innanzitutto far conoscere la valenza di Oplontis e dei suoi tesori al grande pubblico, in particolare alla cittadinanza di Torre Annunziata e alle scuole del territorio, e poi agli studiosi e agli studenti di archeologia. Perché se è vero che dal 1997 il sito di Oplontis, cittadina romana tra Ercolano e Pompei, da cui dipendeva amministrativamente, posta vicino al mare, più o meno dove oggi sorge Torre Annunziata, fa parte della lista del patrimonio mondiale dell’Unesco come “Aree Archeologiche di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata” (così motivata: “fornisce una completa e vivida immagine della società e della vita quotidiana in un determinato momento del passato che è senza confronti nel mondo intero”). È anche vero che l’area archeologica di Oplontis è semi-sconosciuta e i suoi tesori quasi mai esposti. Autentici capolavori da decenni chiusi nei magazzini, come le statue che decoravano la villa di Poppea o i preziosi ori, collane e anelli appartenuti alle ricche matrone che vivevano nel suburbio di Pompei. Oggetti di lusso, ma anche vasellame da tavola, come le coppe in terra sigillata e i calici a pareti sottili per bere vino o la grande pentola in bronzo. E poi, le lucerne per illuminare gli ambienti, da quelle giganti a quelle a “testa di uccello” che si potevavno appendere alla parete. Ma sono le sculture il pezzo forte della mostra, dedicata alla memoria di Khaled al Assad, il direttore degli scavi di Palmira trucidato ad agosto dall’Isis, mostra fortemente voluta dal sindaco Giosué Starita e dall’assessore alla cultura Antonio Irlando, insieme al soprintendente di Pompei, Massimo Osanna. Oltre 70 pezzi di enorme valore esposti simbolicamente nelle sale di Palazzo Criscuolo, sede del Comune. Una scelta non casuale perché il sindaco è convinto che questo sia il passaggio necessario per riportare all’attenzione su Oplontis e raggiungere il vero obiettivo: l’apertura di un museo archeologico che possa permettere un’esposizione permanente dei tesori riemersi in decenni di scavi. Ma anche regalare alla terra di Giancarlo Siani un’occasione di rilancio per un territorio troppo a lungo devastato da criminalità e degrado. E per il museo Irlando avrebbe già un’idea precisa: utilizzare l’ex Real fabbrica d’armi, un edificio borbonico che sorge a un passo dalla villa di Poppea: “Prendere un bene dismesso per metterci dentro beni nascosti per troppo tempo agli occhi del mondo mi sembra naturale”, dice Irlando. Per Torre Annunziata un sogno che si avvicina. “La svolta”, Irlando ne è convinto, “può arrivare solo dalla cultura”.
“Il sito di Oplontis”, ricorda Antonella Bonini, archeologa della soprintendenza di Pompei e curatrice della mostra, “è posto da itinerari antichi quali l’Anonimo Ravennate e la Tabula Peutingeriana tra Ercolano e Pompei, e come questa venne distrutto dall’eruzione del 79 d.C. Dell’insediamento antico si conoscono solo poche tracce relative a impianti termali ville ed edifici commerciali; i resti più imponenti appartengono alla Villa A (villa di Poppea), una lussuosa residenza affacciata sulla scogliera prospiciente il mare e alla cosiddetta Villa B (villa di Crasso), in realtà un complesso con magazzini al piano terreno ed abitazioni al piano superiore”. La mostra raccoglie infatti le statue che ornavano la grandiosa villa attribuita a Poppea Sabina, seconda moglie di Nerone. Un’abitazione maestosa e sconfinata che duemila anni fa con i suoi terrazzamenti si affacciava sul mare, principesca per la magnificenza dei mosaici e degli affreschi che ne arricchivano gli ambienti, anche se al momento dell’eruzione del Vesuvio, nel 79 d.C., era vuota di arredi e disabitata per lavori in corso. Da quelle stanze raffinate e lussuose, così come dai portici e dai giardini lussureggianti dove brillavano le acque della grande Natatio, arrivano opere – ora in mostra – come l’Efebo, il Puttino con l’oca, la Venere e le due Centaure, straordinariamente preziose perché uniche, secondo gli studiosi, in tutto il mondo romano. I gioielli e i vetri, invece, di solito custoditi dal museo Archeologico nazionale di Napoli ma non esposti al pubblico, provengono dall’altra importante villa romana della zona di Torre Annunziata, quella appartenuta a Lucio Crasso Tertio. Di fatto un grande complesso, con imponenti colonnati riportato alla luce a partire da 1974 e da allora ancora mai aperto al pubblico. Qui, in grandi ambienti che forse fungevano da magazzini (questa seconda villa doveva essere in realtà una vera e propria azienda agricola) vennero sorprese dall’eruzione oltre 50 persone in fuga. Molti avevano indosso gioielli, alcuni stringevano tra le mani sacchetti con i loro preziosi. Qualcuno, forse i ricchi proprietari della villa, aveva anzi stipato le sue cose più preziose in una cassa, riportata alla luce dagli archeologi nel 1984 in un altro locale della casa. Al suo interno ben 170 monete d’oro e tanti gioielli in oro e in argento. E poi unguentari, stecche in osso, piastrine di vetro per il trucco. Un vero e proprio tesoro che ora si racconta alla città.
La visita della mostra “A picco sul mare” inizia dalla sala consiliare dove sono esposte la Nike e l’Efebo, due preziose statue romane ritrovate attorno alla piscina della Villa A. Il percorso prosegue poi al primo piano di Palazzo Criscuolo attraverso sette sale per altrettante sezioni suddivise in due gruppi: le prime cinque approfondiscono la vita quotidiana nelle ville romane attraverso i reperti provenienti quasi totalmente dalla Villa A, mentre le ultime due si soffermano sugli ori di Oplontis, recuperati nella Villa B. Con Antonella Bonini seguiamo il percorso della mostra. “Le prime sale”, spiega Bonini, “illustrano la vita quotidiana attraverso elementi architettonici in terracotta che fungevano da decorazione dei tetti, come gocciolatoi e antefisse, e una preziosa lastra di rivestimento in ardesia; strumenti per l’illuminazione interna come la lucerna di grandi dimensioni probabilmente in uso negli ambienti di soggiorno e le piccole lucerne, ritrovate a centinaia in un ambiente della villa, destinate a rischiarare gli ambienti di servizio o di minore importanza; una selezione di vasellame in ceramiche raffinate, piatti, bicchieri e coppe in terra sigillata e pareti sottili destinate alla tavola, e in ceramica comune, ciotole, brocche e boccali destinati alla cucina, uniti ad una pentola in bronzo esemplificano le tipologie di oggetti presenti nelle case romane”.
La sala 3 è dedicata al Puttino con l’oca, una statua in marmo bianco rinvenuta sotto il porticato affacciato sul giardino nord della Villa A, insieme al gruppo dei quattro centauri. La statua, databile al I secolo d.C., è una delle numerose repliche dell’originale greco in bronzo del II secolo a.C., il fanciullo che strangola un’oca, opera dello scultore Boethos di Calcedonia, che Plinio il Vecchio ricorda esistente ai suoi tempi nel portico di Ottavia a Roma. Un foro corre dalla base della statua al becco dell’anatra a testimonianza che la scultura era parte di una fontana, probabilmente sulla sommità della fontana a cascatella del peristilio del quartiere servile, all’ombra del grande albero di cui si conserva ancora il tronco, su un pluteo decorato con pitture di pesci e animali marini, immersa nella vegetazione reale e dipinta dell’ambiente.
Col Puttino fu trovato anche il gruppo dei Centauri presentati nella sala 4: quattro statuette in marmo di Paro (due maschi e due femmine tutti rampanti) alte poco meno di un metro, copie di età imperiale di originali greci di II secolo a.C. prodotti a Pergamo. I due maschi indossano pelli di pantera annodate al petto, tengono una clava con un braccio e con l’altro rispettivamente, un cinghiale ed un cratere a calice; le due femmine indossano una pelle di cerbiatto e recano l’una una clava ed un cerbiatto, l’altra un plettro e una lira. Un lungo foro che attraversa in verticale tutte le statue e fuoriesce dalle bocche degli animali o dei centauri, indica che le statue fungevano da fontane. “Il gruppo segue una composizione nella quale le attività dei centauri”, fa notare Bonini, “sono chiaramente contrapposte ad indicare la natura selvaggia, i due cacciatori, e quella civilizzata i due con attributi legati alla musica e al banchetto. Più difficile è comprendere come essi fossero disposti. Le statue erano probabilmente collocate al centro di un giardino”.
La piscina e il suo arredo sono descritti nella sala 5. Il settore occidentale della Villa A, organizzato attorno alla piscina, aveva una ricca decorazione scultorea cui faceva da sfondo la rigogliosa vegetazione naturale. Il settore sud era occupato dalla statua di Satiro con Ermafrodito e dal grande cratere in marmo pentelico con guerrieri danzanti, utilizzato come fontana. Sul lato est si distribuivano, in successione da sud a nord: una statua di Herakle, l’Efebo, una Nike e poi di nuovo una Nike, una Amazzone ed una seconda statua di Herakle. Le sculture, poste davanti a piante di platano e circondate da limoni e oleandri che fungevano da sfondo scenografico, costituivano un naturale contrasto con il colonnato del portico sul lato ovest della piscina, nonché una galleria d’arte all’aria aperta. Tutte copie di originali greci di V e III secolo a. C., in marmo greco o di Luni, a formarecun complesso armonioso e ricco di significato. “La disposizione delle sculture non è infatti casuale. L’area va intesa come un ginnasio di stile greco, con la piscina e lo spazio per le attività ginniche, sotto la benevola protezione degli dei e degli eroi. Questo è in armonia con la componente greca della cultura romana e con gli indirizzi politici di Augusto che nell’allenamento del corpo e dello spirito fondava la formazione del perfetto cittadino romano”.
Gli ori di Oplontis sono i protagonisti della sala 6. Durante gli scavi nella Villa B, negli anni tra il 1984 ed il 1991, vennero alla luce due nuclei di oggetti di ornamento. Il primo era contenuto, insieme a monete e oggetti da toilette femminili, in una cassetta lignea crollata dal piano superiore all’interno dell’ambiente 15 del peristilio della villa. Il secondo, più numeroso, venne rinvenuto all’interno dell’ambiente 10, uno dei grandi magazzini posti sul lato sud della Villa B, vicini all’approdo sul mare. I due gruppi raccontano due storie diverse legate alla catastrofe del 79 d.C. “I monili rinvenuti nell’ambiente 15 erano contenuti in una cassetta che evidentemente non era stato possibile svuotare completamente nelle concitate ore dell’eruzione. I monili dell’ambiente 10 ci raccontano invece una storia ben più drammatica. Qui, in attesa dei soccorsi che dovevano giungere dal mare, si radunarono cinquantaquattro persone divise in due gruppi: uno privo di qualsiasi oggetto personale, l’altro composto da individui che portavano con sé monete e preziosi: orecchini, collane, anelli e braccialetti. La maggior parte dei gioielli si trovava accanto ai corpi, evidentemente erano indossati dai fuggiaschi, altri erano contenuti in un piccola borsa di cuoio rinvenuta nell’ambiente. Il maremoto e le nubi ardenti impedirono l’arrivo dei soccorritori e i rifugiati trovarono qui la morte. I gioielli di Oplontis appartengono a tipi ampiamente diffusi nell’area vesuviana e rientrano nella produzione comune dell’oreficeria romana di epoca imperiale.
Il percorso della mostra si chiude con la sala 7 dedicata a cosmesi e profumi. I balsamari e gli oggetti esposti provengono dalla Villa B. Alcuni erano contenuti nella cassetta rinvenuta nell’ambiente 15, altri nella borsa di cuoio dell’ambiente 10: insieme ai gioielli, alle argenterie e alle monete costituivano evidentemente un bene prezioso per il proprietario che li portò con sé nella speranza di ricominciare una vita al sicuro. Gli altri oggetti esposti facevano parte degli strumenti legati alla toeletta; utilizzati per contenere e mescolare cosmetici, la pisside e l’ago, o per detergere la pelle, lo strigile. Nel mondo antico l’uso del profumo era da un lato destinato allo scopo principale di coprire gli odori, dall’altro era considerato terapeutico. La diffusione del profumo crebbe al punto da diventare smodata tanto che nel corso del II secolo a.C. venne contrastata sia per motivi morali, erano beni superflui perché non durevoli e creavano differenze sociali troppo marcate, ma più prosaicamente per limitare le importazioni di profumi dai paesi orientali in un momento di grave crisi per la repubblica romana. “Plinio il Vecchio”, conclude Bonini, “descrive i preparati antichi, distinguendone l’uso, in oli, unguenti e balsami. Le analisi condotte sugli unguentari provenienti da Oplontis hanno rivelato che questi, a differenza di quelli di Pompei, erano prodotti con materie prime di migliore qualità, come l’olio essenziale di Pogostemon cablin, noto come patchouli, importato dall’India, e del limone, all’epoca ritenuto un frutto esotico”.
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