San Lazzaro di Savena (Bologna). Al museo della Preistoria “Luigi Donini” apre uno spazio espositivo dedicato al pozzo romano di via Caselle (scoperto nel 2006) che retrodata l’origine del paese all’epoca romana. Il direttore: “Luce sulla romanizzazione del territorio”

Una fase dello scavo del pozzo romano di via Caselle a San Lazzaro di Savena (Bo) scoperto nel 2006 (foto museo donini)
Il museo della Preistoria “Luigi Donini” di San Lazzaro di Savena (Bo) l’11 giugno 2022 apre uno spazio dedicato alla romanità collegata a una importante scoperta: il pozzo romano di via Caselle: sarà così anche possibile ripercorre la storia di S. Lazzaro in epoca romana e i diversi aspetti relativi agli insediamenti sul territorio. La scoperta risale al 2006 quando, in via Caselle, una zona centrale di San Lazzaro, durante la costruzione di un nuovo complesso edilizio sono emerse le tracce di un pozzo di epoca romana al servizio di un insediamento rurale nei pressi della via Emilia. Il recupero di questo inaspettato contesto archeologico si deve alle indagini compiute dalla soprintendenza Archeologica dell’Emilia-Romagna nei limi della parte basale del pozzo, ad oltre 13 metri di profondità, e rese possibili grazie all’intervento del Gruppo Ravennate Archeologico specializzato in scavi subacquei. Il pozzo si è rivelato un vero “tesoro” perché, come pochi altri contesti archeologici, questo tipo di testimonianza svela interessanti spaccati di vita quotidiana. La scoperta ha confermato quel che altri sparsi indizi avevano già fatto intravedere: l’origine di San Lazzaro, sempre fatta coincidere con l’erezione del lebbrosario nel XII secolo o, ancor prima, con un rado e sparso insediamento attestato sin dall’XI secolo, doveva essere certamente arretrata sino all’epoca romana. Fin da subito, è stato riconosciuto l’interesse di questa scoperta, in grado di offrire un significativo contributo sul popolamento dell’area orientale bolognese fra il I sec. a.C. e gli inizi del III sec. d.C. e di rafforzare l’identità storica del territorio sanlazzarese.

Un dupondio di Marco Aurelio trovato nel pozzo romano di via Caselle a San Lazzaro di Savena (Bo) (foro museo donini)
“Un dupondio di Marco Aurelio, una lucerna con marchio VIBIANI, brocche, brocchette, bicchieri e bottiglie, ceramiche da mensa o da dispensa, reperti lapidei e in legno, frammenti di tessuto e altri oggetti rappresentano infatti un’eloquente “istantanea” di un tempo che fu e degli accadimenti che gli si svolsero intorno”, spiegano alla direzione del museo. “Siamo nel periodo della tarda repubblica o nei primi anni dell’impero. La via Emilia è già un’arteria trafficata e pulsante di vita, le persone si muovono lungo il suo asse e, come tutti i viaggiatori, hanno necessità di sosta e cambio cavallo.

La bottiglia restituita dallo scavo del pozzo romano di via Caselle di San Lazzaro di Savena (Bo) con l’iscrizione P. […]NELIO LEONE, da integrarsi probabilmente in P(ublio) (Cor)nelio Leone (foto museo donini)

Esempio di vasellame restituito dallo scavo del pozzo romano di via Caselle di San Lazzaro di Savena (Bo) (foto museo donini)
“L’importante contesto archeologico”, interviene il direttore Gabriele Nenzioni, “è ora oggetto di un riallestimento al museo della Preistoria “Luigi Donini”, che per l’occasione, ha predisposto uno spazio espositivo dedicato alle diverse testimonianze. Il percorso, è accompagnato da un apparato introduttivo che affronta la romanizzazione del territorio, ripercorre, passo dopo passo, la scoperta del pozzo, la sua esplorazione e i principali reperti recuperati. Una breve rassegna di altre testimonianze – continua – getta infine luce sul popolamento del territorio bolognese orientale ricostruito attraverso i materiali di alcuni edifici o ville rustiche, disseminate fra la collina e l’attuale centro urbano, la rievocazione di celebri ritrovamenti come quello dell’aureus di Colunga, rara moneta finita nelle collezioni del British Museum, la rilettura delle fonti antiche a partire dalla Tabula Peutingeriana che proprio nell’attuale località sanlazzarese di Idice pone la stazione di posta di Isex Fl(umen), a sei miglia da Bononia e a quattro dallo scomparso municipium di Claterna”.
Verona romana: l’architettura segno del potere di Roma. A Verona Archeofilm incontro con Francesca Ghedini: “L’Arena alla sua costruzione era il più grande anfiteatro dell’impero”
Non solo film. La prima edizione di Verona Archeofilm, promossa da Archeologia Viva e dal Comune di Verona al teatro Ristori, con la direzione artistica di Dario Di Blasi, ha regalato al numeroso pubblico di appassionati presenti anche un interessante incontro culturale con Francesca Ghedini, professore emerito dell’università di Padova, archeologa classica, profonda conoscitrice di Ovidio. Intervistata dal direttore di Archeologia Viva, Piero Pruneti, Ghedini ha declinato sul caso Verona il tema del rapporto tra architettura e potere nel mondo romano. E a Verona, come sottolinea la professoressa, è possibile farlo perché “negli anni ha avuto eccellenti archeologi della soprintendenza che hanno ricercato, studiato, conservato e salvaguardato le notevoli testimonianze della Verona romana” (vedi https://archeologiavocidalpassato.com/2019/10/21/a-quarantanni-dalla-prima-esperienza-torna-a-verona-il-grande-cinema-archeologico-grazie-ad-archeologia-viva-con-verona-archeofilm-nove-titoli-e-lincontro-con-francesca-ghedini/).
Architettura e potere. “Roma ha creato un impero che è durato secoli: di certo la forza militare è stata fondamentale, ma non è stato il solo motivo che ha favorito la romanizzazione. Va considerata anche la grande attrattività: si poteva vivere meglio sotto i romani, che quando fondavano una città o ne conquistavano una portavano subito i servizi, a cominciare dalle fognature”. Quindi il primo segno di Roma si esprime con la scelta del luogo di fondazione di una colonia. E allora cerchiamo di capire meglio perché Verona è nata qui e non altrove. “Verona sorge qui perché c’è l’Adige e perché qui passa una importantissima via consolare, la via Postumia”, chiarisce Ghedini. “È vero che sul colle di San Pietro esiste già un nucleo abitato precedente, ma la città romana nasce all’interno dell’ansa dell’Adige perché in una posizione che le permette di avere tre quarti di città difesa naturalmente dal fiume, e perché di qui passa la via Postumia che, all’interno delle mura, superate le porte, diventa il decumano massimo, oggi rappresentato dall’asse corso Cavour – corso Porta Borsari”.
La situazione geo-politica. Siamo nel 148 a.C. In quel momento Roma è impegnata a Sud contro Cartagine (terza guerra punica, dal 149 al 146 a.C.), e a Est si sta espandendo verso il Mediterraneo orientale (dal 146 a.C. la Grecia diventa un protettorato romano). Entrambi i fronti sono sostenuti a Roma dal cosiddetto “partito del mare” che punta a fare di Roma una potenza navale nel Mediterraneo. Ma c’è anche il cosiddetto “partito degli agricoltori” che ovviamente ha i suoi interessi soprattutto in pianura Padana, dove la romanizzazione era iniziata con la fondazione della via Emilia tra il 189 e il 187 a.C. collegando Rimini (terminale della via Flaminia, 220 a.C., quindi con Roma) a Piacenza sul Po, che diventa il caposaldo romano in pianura padana. L’espansione di Roma a Nord continua con la fondazione di Aquileia nel 181 a.C., con sbocco nel Nord dell’Adriatico, quasi un punto nel nulla nell’estremo nord-est dell’Italia, in un territorio abitato da popolazioni non romane. Per difendere questo avamposto i Romani realizzano la via Postumia: è il 148 a.C. La strada collega i due porti settentrionali, a Ovest Genova, a Est Aquileia: una grande opera ingegneristica in territorio non romanizzato che prevede strutture invasive e la partizione del territorio. Una situazione vista dalle popolazioni locali come una penetrazione anche militare”.

Piazza delle Erbe a Verona occupa lo spazio del foro romano (da http://www.verona.net)
La fondazione di Verona: il Foro. “È su questa importante via consolare, strategica per i romani, che nasce Verona romana la quale ci ha restituito dei bellissimi segni del potere di Roma. Il primo segno del potere di Roma si manifesta con la realizzazione del foro (oggi piazza delle Erbe) all’incrocio tra la via Postumia (sull’asse Est-Ovest) e il cardo massimo (N-S). Ma cos’ha di speciale il foro di Verona? Qui si incontrano il momento e la celebrazione del sacro, della giustizia, dell’economia e della socialità intesa come incontro. Il foro veronese appare molto allungato (il lato corto è un terzo di quello lungo), discostandosi da quelle che sono le proporzioni canoniche codificate da Vitruvio, dove il lato corto è due terzi di quello lungo. Ciò dimostra che il foro non appartiene alla monumentalizzazione della città del primo periodo imperiale, ma la sua realizzazione è contemporanea alla deduzione della colonia repubblicana, in un sistema urbanistico dominato dal tempio sul lato corto settentrionale”.
Edificato nella seconda metà del I sec. a.C. sul lato settentrionale del Foro, il Capitolium era caratterizzato da un fronte largo 35 m (con tre file di sei colonne), tre celle e portici ai lati, ed era lungo circa 42 m. Su tre lati correva tutt’intorno al tempio un porticato che aveva anche la funzione di archivio. Lungo le sue pareti erano esposte numerose epigrafi e tavole in bronzo, delle quali si sono ritrovati solo frammenti: si trattava di leggi, decreti, liste di magistrati e imperatori, documenti catastali. A sostenere tutta questa struttura c’era un criptoportico (oggi recuperato dagli scavi della soprintendenza e visitabile nell’area archeologica di Corte Sgarzerie: proprio dopo l’incontro con la prof.ssa Francesca Ghedini, il Verona Archeofilm ha proposto il documentario di Davide Borra, di cui qui abbiamo visto il trailer). Il criptoportico si sviluppava per oltre 200 metri sotto il portico. Diviso in due navate larghe 4,5 m da una spina di archi retti da 78 pilastri in pietra e coperta da volte a botte, era debolmente illuminato da finestre “a strombo” affacciate sulla terrazza superiore. Il complesso rimase in vita fino al IV secolo, quando, per effetto dell’affermazione del cristianesimo e probabilmente per un incendio cadde in abbandono.

La ricostruzione del Capitolium di Verona e del triportico, dove erano collocate le tavole catastali
“L’impostazione del tempio a Giove Capitolino, rialzato rispetto al foro, imita il Campidoglio dell’Urbe dedicato alla Triade capitolina. E poi c’è il blocco centrale del foro che è un inno alla romanità – continua Ghedini -. È lì che sorge infatti il complesso curia/basilica, cioè i due luoghi deputati per eccellenza alla gestione della cosa pubblica e della giustizia. E più a Ovest si apre un’altra piazza dominata al centro da un tempio dedicato al culto imperiale. Questo lealismo e completa adesione dimostrano che i veronesi si sentivano romani. Assistiamo quindi a un fenomeno di autoromanizzazione: chiedono di sentirsi romani e diventano romani. Il complesso del foro romano ne è la prova”.
Gli edifici di spettacolo. “Senza sottovalutare il valore simbolico delle mura, che non rappresentano un limite invalicabile, ma piuttosto un segno di potere: la prolessi della grande Verona, di certo l’altra prova del potere e della civiltà di Roma sono gli edifici di spettacolo, cioè l’arena e il teatro, entrambi bellissimi, segno della civiltà romana, esempio del vivere quotidiano. Il teatro di Verona è romano, ma realizzato secondo la tecnica greca, cioè sfruttando il clivio naturale di un colle. A Verona non è una scelta casuale. Il colle di San Pietro permetteva di riprodurre il modello dei grandi santuari tardo-repubblicani. Perché il complesso del teatro si completava con il soprastante tempio della Fortuna Primigenia offrendo una fortissima adesione alla grande architettura romana. E poi c’è l’arena. L’anfiteatro veronese è da sempre considerato il terzo più grande dell’impero, dopo il Colosseo e quello di Capua. Ma se guardiamo la sequenza di realizzazione dei tre anfiteatri, notiamo che l’Arena di Verona (metri 152×123) risale all’epoca giulio-claudia, mentre il Colosseo (metri 187×155) alla successiva età flavia, e l’anfiteatro di Capua (metri 165×136), di fondazione più antica, è stato ampliato come lo conosciamo noi oggi solo nel II sec. d.C. Quindi, al momento della sua costruzione, l’Arena di Verona era l’anfiteatro più grande dell’impero”.
Al museo Archeologico di Bologna si presentano le scoperte archeologiche a Claterna e il nuovo museo della Città romana di Claterna (Ozzano Emilia) nell’incontro “Vivere una città romana. Claterna, dallo scavo al Museo”
Il foro, il teatro, le domus private e le officine artigianali, e forse anche l’anfiteatro e l’impianto termale: l’antica città romana di Claterna nel territorio di Ozzano dell’Emilia, tra Bologna e Imola, definisce ogni anno di più la sua forma urbis, svelando i propri segreti e confermando le ipotesi ricostruttive proposte nel corso dei vari scavi. Martedì 18 giugno 2019, alle 15.30, nella sala Risorgimento del museo civico Archeologico di Bologna (ingresso da via dei Musei 8), si terrà un incontro di presentazione delle scoperte archeologiche e del nuovo museo della Città romana di Claterna: “Vivere una città romana. Claterna, dallo scavo al Museo”. L’incontro è promosso da soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara in collaborazione con museo della Città romana di Claterna e museo civico Archeologico – Istituzione Bologna Musei. L’ingresso è libero fino a esaurimento posti disponibili.
In un pomeriggio di studi aperto al pubblico saranno dunque presentati gli esiti di quasi due secoli di ricerche e sondaggi sistematici che hanno permesso di disegnare un quadro pressoché completo dell’area e il museo della Città romana di Claterna, recentemente inaugurato a Ozzano dell’Emilia. Il programma: dopo i saluti di Paola Giovetti, responsabile museo civico Archeologico – Istituzione Bologna Musei, apre gli interventi Marinella Marchesi (museo civico Archeologico – Istituzione Bologna Musei) su “Le prime scoperte a Claterna”. Seguono Claudio Negrelli (università Ca’ Foscari, Venezia) con “Esplorare una città sepolta”, Maurizio Molinari (Centro Studi Claterna “Giorgio Baldella e Aureliano Dondi”) con “L’esperienza di alternanza Scuola-lavoro”. Chiude Renata Curina (soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara) con “Dallo scavo alla valorizzazione. L’apertura del Museo della città di Claterna”.
Ogni campagna di scavo porta con sé nuove sfide e nuove prove. L’integrazione tra ricerche archeologiche tradizionali eseguite in sinergia con l’università Ca’ Foscari di Venezia, prospezioni geomagnetiche condotte dall’università di Siena nel 2018 e mappatura delle tracce aerofotografiche portata avanti in lunghi anni di ricerche ha prodotto un quadro quasi completo dell’area urbana e di parte del suburbio di Claterna. Questi nuovi dati permettono di individuare meglio, tra le tante altre particolarità, tutto il comparto pubblico (compresi alcuni edifici mai individuati prima) e la scansione interna del tessuto urbano di questo centro. Tutte le informazioni raccolte nel corso delle ricerche e una significativa scelta di materiali hanno trovato la giusta collocazione espositiva nel Museo della Città romana di Claterna, inaugurato lo scorso 30 marzo 2019 nel Palazzo della Cultura a Ozzano dell’Emilia.
Dopo l’apertura nel 2010 di uno spazio espositivo dedicato all’area archeologica di Claterna, l’esperienza della mostra/museo maturata all’interno del Progetto Civitas Claterna viene istituzionalizzata ed ereditata dal nuovo Museo che, ampliato e riallestito rispetto alla precedente esposizione, diventa un nuovo elemento attivo nella valorizzazione storico-archeologica del territorio, in sinergia con gli Enti scientifici di riferimento e le associazioni culturali territoriali già operanti in quest’ambito, quali il Centro Studi Claterna “Giorgio Bardella e Aureliano Dondi”. Questa ulteriore fase di musealizzazione consente una più ampia conoscenza e fruibilità da parte di tutti e si pone come una tappa significativa nel lungo percorso di indagine storico-archeologica rivolta al territorio ozzanese e non solo, dedicando il proprio spazio espositivo alle conoscenze acquisite sul sito archeologico di Claterna. L’obiettivo è quello di raccontare le vicende che caratterizzano la storia della città romana di Claterna e del territorio di Ozzano sviluppando, attraverso l’esposizione di reperti e di alcuni materiali particolarmente significativi ed evocativi, un racconto storico completo ed attrattivo che illustra le origini dell’antica città e la sua riscoperta, proseguendo con la struttura urbanistica e le caratteristiche dei principali spazi urbani, pubblici e privati, per terminare con un richiamo alle indagini e ricerche attualmente in corso.
Le ricerche avviate alla fine dell’Ottocento con le prime eccezionali scoperte, la prosecuzione delle indagini con le più moderne tecnologie, l’avvio di ampi progetti di studio e di sperimentazioni di tecniche antiche, il coinvolgimento di studenti di licei impegnati in esperienza di alternanza scuola-lavoro saranno presentate nella giornata di studi al museo civico Archeologico di Bologna, che custodisce i reperti archeologici provenienti dai primi scavi effettuati a Claterna nel XIX secolo e ha concesso in prestito al nuovo Museo uno degli oggetti più significativi della città romana.
Com’era organizzata una mansio romana? Come ci si viveva? La risposta dall’eccezionale scoperta a Castelfranco Emilia nella mostra “Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi. La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia”

Lo scavo nel 2017 della mansio lungo la via Emilia a Castelfranco Emilia , la romana Forum Gallorum (foto Sabap-Bo)
La recente scoperta di una mansio romana lungo la via Emilia, a Castelfranco Emilia in direzione Modena, con diverse fasi strutturali a partire dall’epoca repubblicana e molti reperti di inestimabile valore storico ha fornito l’occasione per riscoprire il territorio castelfranchese anticamente posto fra le colonie di Mutina e Bononia e riqualificare alcuni servizi offerti dal museo civico Archeologico “A.C. Simonini”. A questa importante scoperta è dedicata la mostra curata da Sara Campagnari, Francesca Foroni e Diana Neri “Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi. La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia”, aperta fino al 10 giugno 2019 al museo civico Archeologico “Anton Celeste Simonini (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2019/03/24/una-sosta-lungo-la-via-emilia-tra-selve-e-paludi-apre-a-castelfranco-emilia-la-mostra-sulla-mansio-di-forum-gallorum-eccezionale-recente-scoperta-lungo-la-via-emilia-rimasta-in-vita-per/). La mostra è promossa da soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara e dal Comune di Castelfranco Emilia in collaborazione con università di Bologna, università di Modena e Reggio Emilia, IBC Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna e associazione culturale museale Forum Gallorum. Il catalogo scientifico “Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi. La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia” a cura di Sara Campagnari, Francesca Foroni e Diana Neri contiene la pubblicazione integrale dello scavo e del materiale rinvenuto. L’importante ritrovamento è avvenuto nell’estate 2017 quando gli scavi effettuati dalla soprintendenza nell’ambito delle procedure di verifica preventiva dell’interesse archeologico in due lotti adiacenti situati alla periferia ovest di Castelfranco Emilia hanno intercettato un edificio affacciato sul tracciato dell’attuale via Emilia (all’intersezione con via Valletta), sostanzialmente coincidente con quello di epoca romana, e le infrastrutture ad esso correlate (canali e condotta in laterizi). Il prosieguo degli scavi, terminati nel dicembre 2018, ha evidenziato l’ampia planimetria di questo edificio che raggiunge la massima espansione nella seconda metà del I sec. d.C. (più di mille metri quadrati) e che per l’articolazione degli ambienti, la relazione con la consolare, le opere di drenaggio e la datazione è stata identificata con un’antica stazione di sosta, una mansio. Lo scopo della mostra e degli studi correlati è di fornire una base documentaria che possa costituire un utile spunto di riflessione nel quadro per certi versi ancora lacunoso degli studi sulle strutture di epoca romana a servizio della viabilità. A tale scopo sono particolarmente significativi i confronti con le antefisse da santuario e le lucerne recuperate nella Mutatio Ponte Secies di Cittanova e la testina di celta in terracotta proveniente dalla probabile mansio dell’area del Compito a San Giovanni sul Rubicone. La mostra archeologica espone nelle tre sale di Palazzo Piella 163 reperti che affiancano la collezione permanente del Museo “A.C. Simonini”. Accanto alla tradizionale esposizione del museo, grazie alle tecnologie multimediali, si è voluto promuovere ulteriormente la conoscenza del patrimonio e delle risorse potenzialmente correlate.
L’edificio rimase in vita per circa sei secoli, dall’inizio del II sec .a.C. al V sec. d.C., e venne rifatto in media ogni cento anni senza mutare nella sostanza la configurazione degli ambienti. “La pianta rimase essenzialmente rettangolare e centripeta”, spiegano gli archeologi della soprintendenza, “e la conservazione delle partizioni interne, corrispondenti alle diverse destinazioni d’uso, testimonia il perfetto adeguamento dell’edificio alle esigenze che avevano portato alla sua costruzione. Quello che invece cambia costantemente è la configurazione e la posizione delle infrastrutture poste tra l’edificio e la via Emilia, che vengono spostate, allargate e strutturate diversamente pur continuando a mantenere la funzione di drenaggio della carreggiata. La peculiare posizione dell’edificio, a stretto contatto con la consolare e a circa 2,5 km dal fiume Panaro, e la specifica organizzazione degli ambienti – piccole stanze per il riposo disposte attorno a uno spazio aperto, con aree di servizio e alloggiamenti per gli animali – richiamano immediatamente, seppure con importanti differenze, il complesso della mutatio ponte Secies individuato a ovest di Mutina, a Cittanova (del cui studio da parte di Donato Labate si dà conto nel catalogo scientifico della mostra), e ne propongono l’identificazione in una mansio, edificata probabilmente in contemporanea con il primo impianto della via Emilia di Lepido. L’edificio è ubicato al di fuori o ai margini occidentali dell’abitato di Forum Gallorum, a poca distanza dall’area di necropoli di Madonna degli Angeli, e come confermano le fonti – disponibili dall’età imperiale – le stazioni di sosta relative alla vehiculatio, il servizio di trasporto statale, si trovavano sempre in posizione extraurbana e adiacente la strada. A differenza di quanto riscontrato per la mutatio di Cittanova e numerosi altri luoghi di sosta correlati al cursus publicus, la mansio di Forum Gallorum non presenta una relazione diretta con aree destinate al culto, né all’interno dell’edificio né in zone limitrofe. Va però ricordata a non troppa distanza la testimonianza certa di aree di culto in relazione ai fontanili a sud della via Emilia presenti nell’area di Prato dei Monti, a est dell’attuale centro abitato, e la suggestiva presenza a sud-ovest della mansio di un’area di risorgive, i fontanili di Sant’Anna. Quello che appare certo è che, fin dalle fasi di età repubblicana, questo tratto di via Emilia sia stato oggetto di un’attenzione particolare per quanto riguardava il drenaggio delle acque che scorrevano in abbondanza nel territorio, come attesta il grande canale della larghezza di oltre 4 metri realizzato nella fase di primo impianto del II sec. a.C.”.
“Un altro dato interessante – continuano gli archeologi – riguarda il tenore di vita degli abitanti della mansio e degli ospiti temporanei che, a dispetto dell’apparente semplicità delle strutture rinvenute, doveva essere di tutto rispetto, come attesta in particolare la qualità della suppellettile da mensa che annovera, oltre alle numerose classi ceramiche attestate, una buona quantità di vasellame in vetro, particolarmente concentrato tra l’età augustea e il II sec. d.C., e un raro esemplare coppa in ceramica invetriata. Ulteriore elemento a conferma della funzione di luogo di sosta bene inserito in un vivace contesto commerciale è il cospicuo quantitativo di anfore presenti sia nell’edificio che nel territorio di Forum Gallorum sin dalle prime fasi repubblicane. La presenza di una mansio a Forum Gallorum è sicuramente confermata dalla Tabula Peutingeriana che costituisce, con l’Anonimo Ravennate, la principale testimonianza dell’esistenza del vicus, posto in un importante snodo itinerario, la cui funzione permane evidentemente anche in epoca medievale”.
L’edificio romano. FASE 1. In un momento iniziale del II secolo a.C. viene impiantato un fabbricato di forma quadrangolare e dell’estensione di almeno 719 mq, separato dalla via Emilia tramite un ampio canale largo oltre 4 metri, a servizio della via Emilia. I corpi di fabbrica che lo compongono si affacciano su un cortile interno pavimentato in ciottoli. Il sito indagato si trova circa 400 metri a sud-est dell’abitato etrusco del Forte Urbano che alla metà del IV sec. a.C. risulta già destrutturato. Provengono da siti circostanti significative attestazioni di ceramica di tradizione non locale, attribuibile alla cultura ligure o celto-ligure, in molti casi in continuità con le fasi repubblicane, almeno per tutto il II sec. a.C. La prima opera di drenaggio, chiaramente riferibile al tracciato della via Emilia, è costituita da un ampio canale scavato a brevissima distanza dall’edificio, a nord della consolare. Sulla base dei materiali dei riempimenti è possibile ipotizzare una datazione del canale alla fase più antica della consolare, dunque all’epoca dei primi interventi dovuti a Marco Emilio Lepido.

La “tabula lusoria”, ricavata da un frammento di laterizio, trovata nello scavo della mansio di Castelfranco Emilia (foto Sabap-Bo)
L’edificio romano. FASE 2. Si datano dalla metà del I secolo a.C. il primo rifacimento dell’edificio, ora dell’estensione accertata di 833,60 mq, e la sostituzione del canale della via Emilia con una condotta in laterizio. Vengono mantenuti sostanzialmente immutati e sfruttati come fondazioni i perimetrali dei corpi di fabbrica precedenti, ad eccezione della parte settentrionale che vede l’inserimento di una nuova area cortiliva alla quale si collega un vano aperto verso l’esterno. “La migliore leggibilità della suddivisione in ambienti – spiegano gli esperti della soprintendenza – ci consente di avanzare alcune ipotesi verosimili sulla funzionalità delle diverse aree della mansio. Ad eccezione dei cortili, tutti gli ambienti presentano pavimentazioni in battuto, non sono stati rinvenuti elementi di rivestimento pavimentale e parietale, e gli alzati sembrano essere in materiale deperibile, telai lignei rivestiti in argilla cruda impostati su assi o travi. L’edificio era dunque connotato da una forte essenzialità degli ambienti, probabilmente motivata dalla spiccata vocazione essenzialmente logistica. La presenza di due vani scala, consente di ipotizzare almeno per un corpo di fabbrica la presenza di un piano soprelevato mentre attorno a un cortile doveva correre un ballatoio in legno. I vani posti sul retro, che si differenziano per le notevoli dimensioni e l’orientamento leggermente obliquo, avevano probabilmente funzione di servizio e, tenendo conto delle loro ampie dimensioni, se ne ipotizza un probabile utilizzo quali depositi o recinti coperti. La parte riservata alle attività quotidiane era costituita da un corpo di fabbrica organizzato in una serie di piccoli vani dove preparare i pasti: da qui provengono una notevole quantità di frammenti di vasellame da cucina e da mensa e in uno di questi è stato individuato un focolare in mattoni. Un vano di maggiori dimensioni sembra invece aver ospitato molteplici attività quotidiane, fra le quali sicuramente anche il consumo del cibo, come attestano i frammenti di lucerne, i pesi da telaio verticale e un quadrans in piombo per le attività di pesatura rinvenuti in questa zona. Forse questo ambiente, vicino alla cucina e dunque ben riscaldato, ospitava anche i momenti di svago di chi transitava nell’edificio: parrebbero indiziarlo il rinvenimento di due pedine da gioco e di una sorta di tabula lusoria ricavata da un frammento laterizio”.
Per le particolari dimensioni, gli ambienti del corpo di fabbrica occidentale sono compatibili con l‘identificazione in stanze per la notte, probabilmente riscaldate all’interno da bracieri dal momento che non sono state trovate tracce di punti di fuoco sui battuti pavimentali; la capacità ricettiva veniva raddoppiata dalla presenza di un piano superiore. Il corpo di fabbrica affacciato sulla via Emilia presenta ambienti ben distinti di cui uno, quello a ovest, più grande degli altri, era probabilmente un vano di servizio e dispensa (nella fase successiva saranno inserite nel pavimento due anfore). Qui è stata rinvenuta una porzione di mola manualis (macina manuale) e di un frammento di cote. Per gli altri cinque piccoli ambienti (sei nella fase successiva) caratterizzati da dimensioni modulari e ridotte, vista la loro collocazione sul fronte sud, è stata proposta un’identificazione in stalle per il ricovero temporaneo degli animali da trasporto che sostavano nella mansio. “Secondo le fonti latine, in particolare Catone, Varrone e Columella, le aree più adatte alla stabulazione dovevano essere orientate a sud ed essere ubicate in luoghi caldi e vicino alla cucina; inoltre, nel caso dell’equile (la stalla per i cavalli), era consigliabile la presenza di praesepia (cioè di recinzioni per tenere gli animali separati) oltre a una buona e costante pulizia delle stalle. Nel caso della mansio di Castelfranco l’incrocio dei dati materiali con queste indicazioni dalle fonti parrebbe avvalorare la possibile ubicazione dell’equile sul fronte sud. Per confermare ulteriormente questa ipotesi, si è proceduto con le analisi chimiche e faunistiche sui campioni di terreno prelevati dai battuti pavimentali degli ambienti ipoteticamente adibiti a stalle e – per confronto – dagli altri vani dell’edificio, nonché dalle immediate adiacenze della mansio; in particolare, si sono cercati accumuli di fosforo indicativi della presenza continuativa di animali e di esseri umani. La notevole concentrazione di fosfati rilevata in tutti i campioni è compatibile con la presenza generica di aree di stabulazione e con la presenza di equini riscontrata nello studio dei resti faunistici”.
L’edificio romano. FASE 3. In questa fase, che inizia con la seconda metà del I sec. d.C., l’edificio raggiunge la massima estensione (mq 1076,70), mediante l’aggiunta a Est di un cortile recintato e di un nuovo corpo di fabbrica tripartito, sporgente verso un ampio spiazzo inghiaiato realizzato dopo la defunzionalizzazione e il tombamento della condotta in laterizio. Più a Sud viene aperto un nuovo canale a servizio della via Emilia. FASI 4a e 4b. Dopo la metà del II sec. d.C. intervengono solo alcune modeste ma significative variazioni alla struttura, come un vano adibito a un’imprecisata funzione produttiva e piccoli interventi di manutenzione che paiono indicare una mutata attenzione nei confronti dell’edificio; in ogni caso, a partire dal V secolo, il complesso è già in disuso e oggetto di uno smantellamento sistematico che si conclude al massimo entro la prima metà del VI secolo.
La rioccupazione tardo medievale. In un momento non precisabile dell’età medievale il sito viene nuovamente occupato in maniera stabile. Le poche evidenze archeologiche individuate restituiscono le forme di un edificio di dimensioni più ridotte rispetto all’età romana (almeno mq 125,21), parallelo alla via Emilia di cui segue l’orientamento, con almeno due partizioni interne e a sud e un ampio ambiente interpretabile come portico. Rimangono certi lo stretto rapporto con la strada, della quale sono stati individuati lacerti del piano inghiaiato, e la presenza di un canale parallelo al ciglio nord della stessa. “Nonostante la parzialità delle tracce materiali -comunque sufficienti a definire la nuova struttura come dotata di un certo impegno strutturale e a collocarne la demolizione entro il XIV secolo- è possibile tentare alcune ipotesi relative alla sua funzionalità a partire da alcune considerazioni. La presenza dell’ampio vano porticato rivolto verso la via Emilia, unita alle ampie dimensioni dell’ambiente adiacente a Nord, fanno pensare a una funzione di accoglienza confrontabile con il non lontano ospitale di San Bartolomeo a Spilamberto, fondato entro il 1162 ed emanazione indiretta dell’abbazia di Nonantola lungo il tracciato della strada che collegava Nonantola con il Tirreno costeggiando la valle del Panaro. La strada fu voluta del re longobardo Astolfo per ripristinare le comunicazioni fra la Toscana e la pianura padana centrale e garantirne non solo un’adeguata attività di assistenza ai viaggiatori ma anche un efficace controllo su terre di recente conquista. L’edificio medievale individuato in via Valletta si colloca in prossimità di tale tracciato o nelle sue immediate vicinanze, lungo la Via Emilia e a poca distanza dal punto in cui il Torbido la attraversa, presenta caratteristiche planimetriche coerenti con quelle delle strutture ospitaliere e nasce sopra un edificio di età romana pensato per l’ospitalità. Perché non pensare che possa avere ereditato la funzionalità romana per portarla fino alle soglie dell’età moderna?”.
“Annibale non pensò mai davvero di distruggere Roma, ma furono proprio le gesta del generale cartaginese a insegnare all’Urbe la paura, e a fornirle anche i mezzi per vincere nei secoli”: il prof. Giovanni Brizzi parla del grande Punico e della mostra “Annibale. Un mito mediterraneo” aperta a Piacenza

Il manifesto della mostra “Annibale. Un mito mediterraneo” a Palazzo Farnese di Piacenza dal 16 dicembre 2018 al 17 marzo 2019
È un viaggio nella storia del Mediterraneo all’epoca delle Guerre Puniche, attraverso la vicenda di Annibale, l’uomo che osò sfidare Roma, quello proposto fino al 17 marzo 2019 a Palazzo Farnese di Piacenza nella mostra “Annibale. Un mito mediterrianeo”, curata dal professor Giovanni Brizzi, accademico italiano e massimo esperto di Annibale, che ripercorre l’epopea del grande condottiero cartaginese. “La rassegna – spiegano i promotori – si propone come un percorso immersivo che si snoda tra i sotterranei della storica residenza ducale piacentina, recentemente restaurati, dove la tecnologia incontra il rigore della ricerca storica. Un affascinante itinerario tra preziosi reperti storici e artistici provenienti da istituzioni culturali italiane e internazionali e oggetti perduti, che rivivranno attraverso teche olografiche, oltre a videoinstallazioni, videowall e proiezioni, che ricostruiranno l’avventura di Annibale e il contesto storico dell’epoca, tra Roma, Cartagine e il Mediterraneo intero. Una particolare attenzione è riservata alla centralità strategica della Piacenza romana”. Per saperne di più vediamo cosa ha scritto in proposito il prof. Brizzi, curatore della mostra.
“Al di là del sempre citato, ma in fondo retorico giuramento di portare odio eterno erga Romanos (di distruggere Roma il Barcide non lo pensò mai davvero…) qual è l’autentica eredità di Annibale?”, si chiede provocatoriamente il prof. Brizzi. “Due figure in un certo senso parimenti leggendarie gli aprirono la mente e la via. La prima, Alessandro Magno, fu il modello che lo spinse ad adottare un ideale di cultura e di regalità, a concepire un irrealizzabile sogno imperiale che coinvolgeva probabilmente tutto il bacino occidentale del Mare Interno e che gli ispirò, infine, sia la strategia adottata contro Roma, sia l’inarrivabile riforma tattica capace di donare poi per suo tramite all’Urbe e all’Occidente una supremazia anche militare destinata a durare per secoli. La seconda, Eracle-Melqart, il semidio greco e punico insieme dalle mille possibili identità e trasposizioni, civilizzatore e conduttore di popoli, che fornì la giustificazione etica all’impresa e fu, ad un tempo, la chiave geniale per tentar di aprire a lui, nei limiti del possibile, il cuore delle genti inquadrate nel suo esercito o semplicemente incontrate per via”.
Malgrado una superiorità sul campo che, ai nostri occhi, lo mostra grande persino più del suo vincitore Scipione, fu infine sconfitto: “E non era possibile che finisse altrimenti”, sottolinea Brizzi. “Ma lo sforzo cui il suo genio costrinse Roma fu tale da cambiare per secoli le logiche della città sul Tevere. Una guerra costata all’Italia forse oltre 200mila morti insegnò all’Urbe il metus, la paura, ma le fornì anche i mezzi — dal Barcide la res publica apprese le tattiche da opporre alle falangi ellenistiche— per vincere d’ora in poi ogni guerra combattuta in Oriente”.

Il cosiddetto Annibale, busto in marmo bianco del XVI secolo (foto Segreteria generale della Presidenza della Repubblica)
E poi c’è Piacenza. Colonia latina creata nel 218, la città – ricorda il curatore – avrebbe dovuto essere la punta avanzata di una espansione nella piana del Po destinata a spazzar via le genti galliche, da sostituire con i coloni accorsi in massa dal centro Italia. “Ora, quando, all’indomani della vittoria su Annibale, risorge dopo esser stata distrutta dai Celti, la sua funzione muta completamente. Quando, nel 187, nasce la via Emilia, l’ultima grande flotta del Mediterraneo, quella siriaca, è appena stata distrutta (188) al largo di Patara, a cancellare il rischio, temuto sopra ogni altro, di una futura invasione via mare della penisola. Resta l’accesso per terra; e questo vuol dire via Emilia. Se è giusta la definizione data (Forni) del limes, a sbarrare il passaggio attraverso l’Appennino nasce, ben due secoli avanti le grandi strutture sul Reno e sul Danubio, una prima linea presidiata che ne annovera già tutte le componenti essenziali: una frontiera politica, una via e delle truppe che la presidiano, gli abitanti delle sei colonie scaglionate lungo di essa, al margine settentrionale dell’Italia romana. Che qui si ferma: dopo la falcidie della guerra annibalica un ripopolamento integrale della Cisalpina sarebbe impossibile. Meglio, malgrado la vittoria, trattar benignamente i Celti, le cui terre non servono più e che si vogliono amici a custodire insieme coi Veneti la regione tra l’Appennino e le Alpi”.

La Gallia Cisalpina nel 218 a.C. con i due scontri vittoriosi di Annibale sui Romani al Ticino e alla Trebbia
Ai Galli cisalpini rimane preclusa a lungo la cittadinanza; ma vengono — ciò che, in fondo, loro importa — lasciate terre, armi, moneta. “L’orizzonte di Roma è drasticamente cambiato, e cambiati sono i suoi obiettivi: quando già la Macedonia e la Grecia, l’Africa e l’Asia pergamena sono divenute provincie dell’impero, la Cisalpina è ancora formalmente libera. Distrutta, invece, è stata da tempo Cartagine: le è stato fatale il grande porto di cui ancor oggi vediamo gli invasi sul terreno non lungi da Tunisi e l’ambizione di riavere, insieme con esso, una potente flotta da guerra. Il risorgere del metus Punicus ha spinto Roma a una decisione brutale e senza pietà, ma non del tutto senza motivo. A determinare la fine di Cartagine – conclude Brizzi – è stato il risorgere della paura che Annibale ha insegnato a Roma. Per grazia degli dei al grande Punico almeno quest’ultima consapevolezza è stata risparmiata dalla morte”.
2200 anni e non li dimostra: torna alla luce a Reggio Emilia un tratto dell’antica via Aemilia durante gli scavi in piazza Gioberti

Il tratto dell’antica via Emilia trovato negli scavi di piazza Gioberti di Reggio Emilia (foto Roberto Macrì)
Giusto un anno fa ha festeggiato i suoi 2200 anni. Modena e Reggio Emilia l’anno festeggiata con mostre ed eventi. Ma l’antica via Aemilia riserva ancora piacevoli sorprese. A Reggio Emilia, nel corso dei lavori di riqualificazione in piazza Gioberti legati al progetto “Ducato Estense” finanziato dal ministero per i Beni e le Attività culturali , è emerso nei giorni scorsi un segmento del limite meridionale della via Emilia di epoca romana, un tratto di circa 3 metri costituito da un piano in ciottoli fluviali squadrati, disposti a una quota maggiore verso il centro della strada in modo da consentire l’istantaneo deflusso laterale delle acque piovane e degli scarichi. La via è delimitata da una crepidine (marciapiede) realizzata con ciottoli posti di taglio che creano una sorta di gradino continuo rialzato rispetto alla parte restante del battuto stradale; parte di questa crepidine era stata asportata già in età antica. Rimasta probabilmente in superficie fino al termine dell’Impero romano, la strada sembra però ridursi nel tempo come via carrabile per essere in parte occupata da strutture, in parte affiancata da attività artigianali come quelle metallurgiche. Dopo tale periodo la strada venne sepolta da successivi sedimenti fluviali. I lavori archeologici si svolgono sotto la direzione scientifica di Annalisa Capurso, archeologa della soprintendenza, e sono eseguiti in piazza Gioberti dalla ditta GEA (Cecilia Pedrelli, Nicola Cassone, Gloria Saccò) e in piazza Roversi dalla ditta Archeosistemi (Anna Losi), con la consulenza del geoarcheologo, Mauro Cremaschi.
A poco più di un anno dalla mostra “On the road. Via Emilia 187 a.C.-2017” (allestita a Reggio Emilia fino a giugno 2018), è ricomparso un altro segmento della via consolare voluta da Marco Emilio Lepido nel 187 a.C. che toccava, oggi come allora, i centri nevralgici della Regio VIII coincidente con l’attuale Emilia-Romagna. Il rinvenimento, peraltro già ipotizzato dalla soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, è stato documentato dagli archeologi e sarà oggetto di studio e pubblicazione da parte della soprintendenza cui spetta la direzione scientifica dei lavori. “Questo rinvenimento”, spiega la soprintendente Cristina Ambrosini, “aggiunge un nuovo tassello alla conoscenza del tracciato della via Aemilia, già rinvenuto in più punti nel corso del ventesimo secolo, e porta dati nuovi e fondamentali riguardo all’annosa questione della posizione del torrente Crostolo all’interno della città antica tra epoca romana e XIII secolo. Studiando i dati pregressi e quelli emersi dal controllo archeologico in corso in piazza Roversi, sempre nell’ambito del progetto Ducato Estense, potremo definire con maggior precisione la posizione dell’alveo del torrente e la conformazione di questo nevralgico settore urbano”.
Dieci anni di scavi nel centro di Reggio Emilia raccolti nel volume “La città che si rinnova. Gli scavi di Palazzo Busetti e Piazza della Vittoria a Reggio Emilia”: un’occasione per conoscere meglio la città antica

Coppa in terra sigillata di età sigillata con bollo del produttore e scene di battaglia, scoperta in piazza della Vittoria, conservata ai musei civici di Reggio Emilia

Copertina del libro “La città che si rinnova. Gli scavi di Palazzo Busetti e Piazza della Vittoria a Reggio Emilia”
Nel II sec. a.C. a Reggio Emilia si beveva vino greco proveniente dall’isola di Rodi; almeno uno degli acquedotti rinvenuti nell’area dell’ospedale portava acqua a un edificio termale posto sulla via Emilia (rinvenuto sotto Palazzo Busetti); una strada obliqua frequentata almeno fino al V secolo d.C. partiva direttamente dalla via Emilia modificando l’assetto del comparto urbano nord-occidentale della città; nell’area di piazza della Vittoria sorgeva un altro importante quartiere residenziale e che nel medioevo la città era popolata di torri e punto di convergenza di maestranze di scuola antelamica: sono alcuni dei risultati eccezionali, che hanno arricchito le conoscenze sulle origini della città romana di Reggio Emilia frutto degli scavi archeologici dell’ultimo decennio. Ora tutto in un volume: “La città che si rinnova. Gli scavi di Palazzo Busetti e Piazza della Vittoria a Reggio Emilia”. La pubblicazione sarà presentata venerdì 18 gennaio 2019, alle 18, ai Musei Civici di Reggio Emilia. Intervengono Luca Vecchi, sindaco di Reggio Emilia; Annalisa Capurso, archeologa della soprintendenza Archeologia, Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara; ed Elisabetta Farioli, direttrice dei Musei Civici di Reggio Emilia. Presenta il volume il prof. Sandro De Maria, già ordinario di Archeologia Classica nell’università di Bologna. Modera Roberto Macellari, archeologo dei musei civici di Reggio Emilia, alla presenza dei curatori Marco Podini e Anna Losi. Il volume è pubblicato da Grafiche Step editrice (Parma, 2018) grazie al finanziamento di Gigli Costruzioni srl (che ha realizzato gli scavi di Palazzo Busetti) e di Fontanili Srl, Pellicciari Srl e Siria Ceramiche Srl.
Gli scavi effettuati tra il 2010 e il 2015 nel centro storico di Reggio Emilia, e in particolare quelli in piazza della Vittoria, a palazzo Busetti e in via del Carbone, motivati da importanti interventi di riqualificazione urbana, hanno offerto agli archeologi la straordinaria opportunità di indagare in maniera estensiva il tessuto urbano antico. Non accadeva dai primi anni ’80, dal tempo del grande cantiere del Credito Emiliano dove aveva sede il foro di Regium Lepidi. Queste ricerche, unite alle straordinarie scoperte effettuate nella cripta della Cattedrale e alle altre indagini archeologiche condotte in ambito urbano negli ultimi anni, hanno apportato sostanziali elementi di novità per la conoscenza della città antica. Vista la complessità dei cantieri e gli inevitabili disagi da essi determinati, l’amministrazione comunale ha ritenuto doverosa un’immediata restituzione alla comunità dei risultati delle ricerche archeologiche che vengono ora presentate in modo organico e divulgativo nel volume “La città che si rinnova”. La pubblicazione restituisce alla comunità forse il frutto più importante – immateriale e perpetuo – di interventi di questo tipo: la conoscenza più approfondita del nostro passato e delle nostre radici. Grazie all’apporto di diverse competenze e all’osservazione di ampi spaccati cronologici in più settori urbani, i curatori hanno ricostruito la storia -o forse più “storie”- della città, dei suoi abitanti e dei suoi monumenti, dalle origini ai nostri giorni.
Il volume è articolato in quattro sezioni, le prime tre con ordinamento cronologico e la quarta dedicata ai più recenti e aggiornati metodi della ricerca archeologica. Punto di partenza sono le indagini condotte sotto Palazzo Busetti, posto nel punto di intersezione fra la Via Emilia e Via Crispi. Sono emersi nuovi dati sulle origini e sulle prime frequentazioni dell’area in cui è sorta la città, rivelando una presenza preromana di matrice etrusco-italica a Reggio Emilia e una realtà etnica composita, attestata da ceramiche di manifattura gallica rinvenute in associazione con materiali romano-repubblicani. Di grande interesse per la topografia della città romana è stata la scoperta, nell’angolo sud-ovest di Palazzo Busetti, di una via obliqua diretta a nord-ovest e accuratamente pavimentata, che, partendo dalla via Emilia, usciva dal centro cittadino per proseguire verosimilmente in direzione del porto fluviale della Brescello romana. Questo asse viario spezza la rigida ortogonalità della pianificazione urbana impostata, fin dal II sec. a.C., sulla via consolare. La strada obliqua ha fortemente condizionato l’urbanistica del settore nord-occidentale della città, rappresentandone un asse di sviluppo in senso nord-ovest. Ha proiettato il proprio condizionamento ben oltre la fine del mondo antico, svolgendo la funzione di collegamento tra la Cattedrale e la prima sepoltura, extra moenia, del patrono della città, il vescovo Prospero.
L’assetto viario antico del comparto nord-occidentale ha indubbiamente condizionato la topografia urbana di questa parte della città. I recenti scavi di piazza della Vittoria testimoniano, in particolare, l’adeguamento dell’edilizia privata all’asse della via obliqua, tanto in età repubblicana quanto in quella imperiale. Di notevole importanza risulta la scoperta di una domus sorta in corrispondenza di un edificio precedente e parimenti orientato, testimoniando un’occupazione di questa zona già a partire dal I sec. a.C. La planimetria di questa abitazione, che è stato possibile leggere in maniera pressoché completa (caso quasi unico nella documentazione dell’edilizia residenziale romana di Regium Lepidi), ha reso possibile una proposta ricostruttiva articolata ipoteticamente su due livelli. Uno degli aspetti più significativi degli scavi di piazza della Vittoria è rappresentato dalla completezza della documentazione di scavo, dalle fasi più antiche – a partire dall’età protostorica – a quelle più recenti, di epoca medievale e moderna. Le indagini delle stratigrafie tardoantiche e altomedievali hanno documentato una manifesta continuità di vita anche in questo settore urbano, testimoniando la presenza di abitazioni tarde e di varie aree produttive. Sopra la domus, ad esempio, è stata documentata l’esistenza di una capanna con grande sostegno ligneo centrale, costruita prevalentemente in materiale deperibile. Numerose sono inoltre le strutture legate ad attività artigianali riconducibili alla presenza di forni fusori, calcare, fosse di scarico.

Lastra con figura di Profeta che tiene un rotulus, simbolo dell’Antico Testamento (prima metà XIII sec.), riutilizzato come archivolto (inizi XVI sec.), da via del Carbone, oggi ai musei civici di Reggio Emilia
Di particolare rilevanza appare la fase medievale (X-XIII sec.) che in questo settore, mostra la presenza di una città turrita, con case che gareggiavano fra loro in altezza assecondando l’ostentazione di potere e ricchezza dei propri abitanti. Di queste abitazioni sono emerse tracce significative dei muri di fondazione, tutti di notevole spessore e orientati sempre secondo l’antica via obliqua. La costruzione della Cittadella per volontà di Luigi Gonzaga, con l’abbattimento delle torri e l’interruzione e/o deviazione della via obliqua, segnerà la fine dello sviluppo continuo di questo settore urbano. Il sedime del nuovo parcheggio interrato insisteva per circa tre quarti della sua estensione sull’invaso del fossato meridionale del fortilizio. La Cittadella sarà poi abbattuta a partire dal 1848 e con le relative macerie sarà riempito il fossato che la recingeva, ricucendo così i fili interrotti di un’espansione della città e dando nuovo impulso al naturale sviluppo verso nord-ovest.
La stretta connessione fra archeologia e riqualificazione, esplicita nel titolo stesso dell’opera, ha dato vita a un’esemplare modello di collaborazione fra istituzioni pubbliche (il Comune, le Soprintendenze) e soggetti privati che hanno perseguito l’ambizioso progetto di rappresentare l’archeologia in modo nuovo e vicino alla sensibilità contemporanea. Il necessario coronamento di questo percorso è stata la restituzione degli approfondimenti finalizzati alla ricostruzione della storia di un quartiere che fu strategico fra antichità e medioevo per la sua ubicazione lungo una strada diretta a nord ovest. Possiamo ben definirlo l’area nord della Reggio romana, il cui naturale e sino ad allora mai interrotto sviluppo venne bruscamente a congelarsi nel XIV secolo in occasione della costruzione della Cittadella, vero e proprio vulnus nella storia urbanistica di Reggio, per riprendere il suo corso a distanza di cinque secoli in età postunitaria. Questo volume restituisce ai reggiani il risultato di un’operazione di cura oltre che un significativo invito a rispecchiarsi nelle radici più antiche. I segni del passato emersi mentre si ridava nuova vita a luoghi della città vicini alla decadenza legano l’antichità al presente e al futuro.
Reggio Emilia, per i 90 anni di Anas, la mostra fotografica “Mi ricordo la strada” con immagini storiche della Via Emilia, amarcord tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, arricchisce la mostra archeologica “On the road. Via Emilia 187 a.C. – 2017”
Per due giorni Roadshow #Congiunzioni, promosso in occasione dei 90 anni di Anas e realizzato dalla stessa Azienda, ha fatto tappa a Reggio Emilia, il 27 e 28 aprile 2018, proponendo la mostra fotografica “Mi ricordo la strada”, a cura di Emilia Giorgi e Antonio Ottomanelli, con una sezione dedicata alla Via Emilia dell’Italia del Boom economico del secondo dopoguerra. La proposta di Anas si associa perciò alla grande mostra archeologica “On the road. Via Emilia 187 a.C. – 2017”, dedicata alla strada consolare e al suo fondatore Marco Emilio Lepido, a cura di Luigi Malnati, Roberto Macellari e Italo Rota, in corso al Palazzo dei Musei Reggio Emilia fino al 1° luglio 2018, di cui l’Anas ha reso possibile anche la Guida alla visita, quale arricchimento attraverso una dimensione definibile – in maniera non più di tanto paradossale – di “archeologia del contemporaneo”. La mostra “On the road, Via Emilia 187 a.C. – 2017”, articolata in 400 reperti, diversi dei quali di assoluta importanza storico-archeologica, offre al pubblico un racconto su due livelli: il “sotto”, ovvero la storia antica di questa colossale opera viaria, e il “sopra”, ovvero l’attualità della Via Emilia. Le immagini “storiche” che Anas propone a corredo della grande esposizione giungono a completare quel progetto culturale e allestitivo, contribuendo in maniera significativa alla sua declinazione nel Contemporaneo.
In realtà le immagini fotografiche che Anas propone appartengono anch’esse al registro del ricordo, ma ad un ricordo che permane ancora nella memoria di molti. Offrono un intenso amarcord sulla Via Emilia nel secondo dopoguerra, tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento. Ci riportano ad una Via Emilia calcata da biciclette e cavalli, rade auto e motociclette per arrivare fino alla Fiat 600 del boom economico che solca un’Emilia fiancheggiata da cartelloni pubblicitari che fotografano consumo e benessere. Nel racconto è tutto il territorio che si specchia in una strada operosa che diviene essa stessa paesaggio e sfondo, luogo di passaggio e costruzione, che ritrae operai al lavoro, uomini in completo affacciati sull’uscio delle porte, chiese che sorgono ai bordi della strada, case cantoniere come benevole vedette di un’Italia in perenne corsa e trasformazione. Quell’Italia che arriva fino a noi, con le varianti alla statale pensate per alleggerire il traffico dai centri abitati e il nuovo ponte sul fiume Po. Immagini in bianco e nero di un “altro ieri” che ha creato l’oggi.

Modello di carro romano da trasporto merci e derrate (carrus) in mostra a Reggio Emilia (foto Graziano Tavan)
La lunga linea da Est a Ovest, che sembra segnare la rotta del Sole sulla Terra, la Via Emilia, percorsa dal 187 avanti Cristo dai legionari del console Marco Emilio Lepido, da mercanti in viaggio dal Mediterraneo o dal resto d’Europa, da coloni stanziali con i loro attrezzi e raccolti, da viandanti in cerca di fortuna e cavalieri coperti di gloria, ancora oggi – inossidabile al tempo – è luogo di identità, di lavoro e di vita per chi la percorre e per chi la abita, è cerniera fisica e simbolica tra i due mondi che l’Italia unisce e a cui l’Italia appartiene: il Mare Nostrum e il Vecchio Continente, con i loro popoli, le loro culture, i loro scambi. È così importante e funziona così bene, la Via Emilia, che è stata affiancata, quasi “clonata”, in una serie di altri landmark delle comunicazioni nazionali: la ferrovia storica, l’autostrada, la ferrovia Alta velocità. E oggi, inanellando le città che sono nate con lei 2200 anni fa e ancor prima, la Via consolare ospita un fiume di mezzi, pubblici, privati, commerciali, a motore, elettrici, a “propulsione umana” come la bicicletta. I rilevamenti dell’Anas, per dare un’idea precisa dell’importanza della Via Emilia per la mobilità, evidenziano numeri impressionanti: 136mila auto e 9200 camion, in media, ogni giorno dell’anno. Un traffico paragonabile a quello del Grande Raccordo Anulare di Roma. Una strada, assai nota anche con la sigla SS9, su cui si muovono la vita e lo sviluppo di un sistema-regione, l’Emilia-Romagna, e di un sistema di portata nazionale e internazionale, quale l’Italia settentrionale. Quell’intuizione di Marco Emilio Lepido, in altre parole, è oggi un asse strategico della mobilità e della logistica italiana.
“Un’occasione preziosa per celebrare”, affermano Ennio Cascetta e Gianni Vittorio Armani, presidente e amministratore delegato di Anas, “il ruolo fondamentale che Anas ha avuto nella modernizzazione del Paese, influenzandone lo sviluppo economico e culturale, dalla data di fondazione dell’Aass nel maggio del 1928 fino all’ingresso nel Gruppo FS Italiane a gennaio del 2018, solo l’ultimo dei passi compiuti nel processo di continua trasformazione di un’azienda che non si è fermata mai”. Ed Elisabetta Farioli, direttore dei Musei Civici di Reggio Emilia: “Con questa importante nuova sezione “On the road. Via Emilia 187 a.C. – 2017” approfondisce ulteriormente la storia ma anche l’attualità della strada consolare voluta da Marco Emilio Lepido e che da lui assume il nome. Allora rappresentava la strada utilizzata dall’esercito per difendere ed espandere i confini dell’Impero ma anche uno dei primi esperimenti urbanistici dell’antichità. I nuclei urbani che si trovavano sull’itinerario erano edificati a una distanza media l’uno dall’altro di circa 25 chilometri, corrispondenti a una giornata di marcia dell’esercito”.
“Parco Novi Sad di Modena: dallo scavo al parco archeologico”: raccolti in un volume i risultati delle ricerche archeologiche a 5 metri di profondità e la ricostruzione di strada romana e necropoli imperiale sopra il parcheggio interrato, tracce tangibili della Mutina romana lungo la via Emilia

Scavi archeologici nell’area del parco Novi Sad a Modena, cinque metri sotto il piano stradale moderno
Oggi parco Novi Sad a Modena è un grande e tranquillo spazio aperto sopra il parcheggio interrato, e su cui affaccia l’imponente edificio dell’ex Foro Boario, ma duemila anni fa qui c’era un gran via vai di persone e di merci che affollavano un’ampia strada romana che portava direttamente nel cuore di Mutina, colonia romana fondata nel 183 a.C. lungo la via Emilia, voluta dal console Marco Emilio Lepido nel 187 a.C., giusto 2200 anni fa come ricorda il progetto “2200 anni lungo la via Emilia” che ha portato alla realizzazione di tre grandi mostre: all’ex Foro Boario di Modena “Mutina splendidissima” (fino all’8 aprile 2018); ai musei civici di Reggio Emilia “On the road. Via Emilia 187 a.C. – 2017” (fino al 1° luglio 2018); al museo civico Medievale di Bologna “Medioevo svelato. Storie dell’Emilia-Romagna attraverso l’archeologia” (fino al 2 aprile 2018). Ma di quella Modena “splendidissima” oggi si vede ben poco, come ben spiega la ricca mostra all’ex Foro Boario (vedi: https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/11/24/mutina-splendidissima-la-citta-romana-e-la-sua-eredita-apre-a-modena-la-mostra-clou-per-i-2200-anni-della-fondazione-della-colonia-romana-sulla-via-emilia-che-racconta-le-origini/), anche se il rapporto con questa realtà sepolta è stato pressoché continuo nel corso dei secoli e si è rivelato di fondamentale importanza nella costruzione dell’identità culturale cittadina. La città romana di Mutina “vive” infatti cinque metri al di sotto delle strade del centro storico, custodita dai depositi delle alluvioni che si verificarono in epoca tardoantica. Proprio la strada romana e l’annessa necropoli di età imperiale, riportate alle luce da alcune campagne di scavo della soprintendenza Archeologica, sono tra le poche testimonianze della romanità di Modena oggi visibili, organizzate come parco archeologico, chiamato NoviArk.

Il libro “Parco Novi Sad di Modena: dallo scavo al parco archeologico” a cura di Luigi Malnati e Donato Labate
Ora i risultati delle ricerche archeologiche condotte tra 2009 e 2012 sulla vastissima area urbana del parco Novi Sad, qualcosa come 24mila quadrati, sono stati raccolti nel volume “Parco Novi Sad di Modena: dallo scavo al parco archeologico” curato da Luigi Malnati e Donato Labate e a cui hanno collaborato, oltre agli archeologi che hanno eseguito lo scavo, anche numerosi ricercatori universitari. La pubblicazione, sigillo conclusivo di una delle operazioni più importanti finora condotte in Italia di attuazione della archeologia preventiva, sarà presentato sabato 3 marzo 2018, alle 16.30, in sala Crespellani del Palazzo dei Musei, in largo Porta S. Agostino 337 a Modena, da Francesca Ghedini, già professore di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana all’università di Padova e direttrice del Dipartimento di Archeologia dell’ateneo patavino; e tra l’altro membro della Commissione per la legge sull’archeologia preventiva.
Il volume costituisce una edizione preliminare dei risultati dello scavo che ha messo in luce strutture e depositi che documentano un lunghissimo arco di storia di questo settore urbano, dall’età del Ferro fino al Seicento, con una evidente preponderanza della fase romana. I saggi di apertura, redatti dai curatori del volume e dagli archeologi che hanno condotto lo scavo, offrono il quadro critico e metodologico della documentazione di scavo e l’interpretazione dei risultati. Seguono una serie di saggi di approfondimento su tematiche generali, come il contributo di Donato Labate sulla ritualità funeraria tra età romana e tardoantico documentata dalle sepolture rinvenute ai margini della strada, o su aspetti specifici legati alle classi di materiali archeologici e alle attestazioni epigrafiche. L’analisi del dato archeologico è affiancata da quella condotta in molteplici ambiti di ricerca, dalla geologia, all’antropologia, all’archeobotanica, alle analisi chimico-fisiche sui depositi conservati all’interno delle anfore, fino allo studio paleobiologico e paleonutrizionale applicato ad alcuni inumati del cimitero medievale.

La grande strada romana scavata al parco Novi Sad di Modena e ricostruita “com’era e dov’era” ma cinque metri più in alto (foto Graziano Tavan)
“Un primo acciottolato stradale con ghiaia fine viene realizzato in età tardo-repubblicana, tra II e I secolo a.C.”, spiegano gli archeologi. “Con gli inizi dell’età imperiale, probabilmente in concomitanza con una serie di interventi di riassetto urbanistico durante il principato di Augusto (23 a.C. – 14 d.C.), la via per Mantova assume l’aspetto che poi conserverà attraverso ripetuti interventi di manutenzione e ripristino fino al IV sec. d.C.”. Il selciato, largo circa 5 metri, è formato da ciottoli di grandi e medie dimensioni. I profondi solchi carrai che ancora oggi possiamo vedere confermano l’intenso traffico in entrata e in uscita dalla città. A fianco dei marciapiedi antichi in battuto di argilla e pietrame, oggi idealmente ricordati da due percorsi pedonali, c’erano due fossati per lo scolo delle acque piovane, probabilmente collegati a una rete di canali minori. “L’ampia lacuna al centro della strada”, fanno notare gli archeologi, “colmata nella musealizzazione con ciottoli moderni, corrisponde a una fossa aperta in epoca tarda, quando la strada, ormai non più in uso, veniva smontata per riutilizzarne i ciottoli come materiale edilizio”.

Disegno ricostruttivo sui pannelli del parco NoviArk con i riti di inumazione e incenerazione nella necropoli lungo la strada romana a Mutina (foto Graziano Tavan)
Come in tutte le città romane, anche a Mutina le aree cimiteriali fiancheggiavano le arterie stradali all’esterno dell’area urbana. Le sepolture si trovavano all’interno di lotti di terreno recintati le cui dimensioni sono quasi sempre indicate nell’epigrafe funeraria. “Le aree sepolcrali dei monumenti esposti nel NoviArk, tutti databili al I sec. d.C.”, continuano gli archeologi, “misurano tra i 14 e i 15 mq. Una soltanto è più piccola (10,8 mq) mentre un’altra supera i 20 mq. Al loro interno erano sepolti gruppi familiari o individui uniti da vincoli di amicizia o professionali. Dalle tombe, a inumazione e a incinerazione, provengono i corredi che accompagnavano i defunti nell’aldilà”.

Particolare delle tombe della necropoli di età imperiale ricomposte nel parco NoviArk di Modena (foto Graziano Tavan)
Il volume si conclude con un saggio dedicato al parco archeologico NoviArk che illustra le scelte operate nella progettazione di questo museo open air che costituisce un esempio di valorizzazione delle strutture di età romana rinvenute, unico segno tangibile in sito della città romana, seppur riportato a quota superiore, nel tessuto urbanistico contemporaneo. Il parco archeologico NoviArk rappresenta infatti il punto di incontro fra le esigenze di realizzazione del parcheggio interrato NoviPark e la salvaguardia e valorizzazione dei resti archeologici. La sua realizzazione ha comportato lo smontaggio delle strutture di età romana dal piano originario, posto a 5 metri di profondità, e il loro successivo rimontaggio in superficie. Nel NoviArk sono stati rimontati anche i resti di due edifici rurali, un pozzo con imboccatura in pietra, una vasca rettangolare con pavimentazione in ciottoli, forse utilizzata per il lavaggio delle pecore prima della tosatura, e un grande bacino circolare con pareti in mattoni che doveva servire probabilmente per l’allevamento delle carpe, come sembra indicare il ritrovamento nei sedimenti del fondo di piante acquatiche compatibili con questa attività. “Non c’è da stupirsi”, intervengono i ricercatori, “visto che i romani consideravano la carne di questo pesce d’acqua dolce una vera e propria prelibatezza. La vegetazione del parco ripropone essenze e arbusti, in particolare il bosso, documentati nell’habitat originario di età romana. In un ambiente del parcheggio interrato sono esposte in una suggestiva ambientazione le anfore recuperate dalle grandi buche di discarica”.
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