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Vicenza. Christian Greco, direttore del museo Egizio, introduce alla visita della mostra “I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone”, in Basilica Palladiana. Ecco la sua prolusione alla presentazione ufficiale

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Locandina della mostra “I creatori dell’Egitto Eterno” alla Basilica Palladiana di Vicenza dal 22 dicembre 2022 al 7 maggio 2023


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Mostra “I creatori dell’Egitto eterno”: da sinistra, Paolo Marini, Corinna Rossi, Christian Greco, Francesco Rucco, Simona Siotto, Cédric Gobeil (foto graziano tavan)

Nell’anno, il 2022, in cui vengono celebrati gli anniversari di due avvenimenti fondamentali per la storia dell’Egittologia, i 200 anni dalla decifrazione dei geroglifici da parte di Champollion e il centenario della scoperta della tomba di Tutankhamon, il museo Egizio di Torino cura, per la prima volta in Italia, un progetto espositivo così importante “al di fuori del museo”, presentando una straordinaria selezione di reperti e sviluppando un tema centrale per gli studi egittologici. Parliamo della mostra “I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone”, in Basilica Palladiana a Vicenza fino al 7 maggio 2023 (e durante le festività, fino all’8 gennaio 2023, sempre aperta dalle 10 alle 18, eccetto Capodanno dalle 13 alle 18), fortemente voluta dalla Città di Vicenza e curata dal direttore del museo Egizio, Christian Greco, dalla docente di Egittologia al Politecnico di Milano, Corinna Rossi, dagli egittologi e curatori del museo Egizio, Cédric Gobeil e Paolo Marini. Qualche numero: 180 reperti originali, 3 installazioni multimediali, 4 curatori, 2 prestatori (museo Egizio di Torino e museo del Louvre di Parigi), 17mila prenotazioni, 550 gruppi, 1 città (Vicenza).

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L’allestimento della mostra “I creatori dell’Egitto eterno” nella Basilica palladiana di Vicenza (foto graziano tavan)


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Christian Greco, Francesco Rucco e Simona Siotto alla presentazione della mostra “I creatori dell’Egitto eterno” in Basilica palladiana a Vicenza (foto graziano tavan)

In occasione della presentazione ufficiale della mostra, prima della vernice, alla presenza del sindaco di Vicenza Francesco Rucco e dell’assessore alla Cultura Simona Siotto, il direttore dell’Egizio Christian Greco nella sua prolusione ha introdotto gli elementi più significativi che hanno sotteso la realizzazione della grande mostra, e il perché della scelta del villaggio di Deir el Medina e dei suoi abitanti per il senso della vita e della vita dopo la morte secondo gli antichi Egizi. Grazie a una registrazione live del regista veneziano Alberto Castellani, che l’ha gentilmente messa a disposizione di archeologiavocidalpassato.com, tutti gli appassionati possono così prepararsi meglio alla visita della mostra.

“Questa mostra, grazie al lavoro di tutti, vi permetterà di fare un viaggio ideale – lo si vede già dal video all’inizio dell’esposizione – tra Vicenza e Deir el Medina”, annuncia Christian Greco. “E quando Guido Beltramini, direttore del Cisa, mi disse Vorremmo una mostra dell’Egitto a Vicenza, pensare a Deir el Medina fu immediato. Perché era pensare a un villaggio, a un insediamento di cui conoscevamo le vite delle donne e degli uomini che vi avevano lavorato; era vedere l’altra faccia della medaglia, era collegarlo a quell’idea che era piaciuta molto al sindaco che l’ha voluto porre anche come manifesto per Vicenza candidata alla capitale della Cultura: l’idea di fabbrica, ovvero di un contesto sociale ed economico che lavora assieme per una trasformazione. Ebbene, a Deir el Medina avvenne questo.

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Statua della dea Sekhmet (XVIII dinastia, regno di Amenofi III, 1390-1353 a.C.) conservata al museo Egizio di Torino (foto graziano tavan)

“E quindi voi, visitando la mostra – spiega Greco -, vi troverete catapultati prima nella sponda Est della Tebe del Nuovo Regno, dove vengono eretti i grandi templi delle divinità locali che diventano divinità nazionali: Amon, colui che è nascosto – questo significa il nome -, che diventa la divinità principale dell’Egitto, profondamente legata alla regalità. E, come ricordava l’assessore Simona Siotto, l’esistenza e la caducità dell’esistenza era un qualcosa che interrogava molto gli Egizi e quindi proprio in quel periodo nella sponda Ovest di Tebe (vedrete la magnifica statua di Sekhmet) cominciarono a erigere i templi cosiddetti di milioni di anni, dove il culto del faraone potesse essere portato avanti.

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La stele dedicata ad Amenofi I e Amhose Nefertari da Amenepimet e dal figlio Amennakht, conservata al museo Egizio di Torino (foto graziano tavan)

“Servivano però delle maestranze – fa notare il direttore del museo Egizio -, servivano delle persone che sapessero progettare, operare, scavare nella roccia, trasformare le pareti, levigarle, fare la sinopia. Dopo di ché scolpirle, e poi ancora con i pigmenti trasformare completamente questo spazio. Oggi si parla molto di metaverso. Ma cosa c’è di più metaverso della per djet, della casa per l’eternità, di quello spazio cioè che, una volta varcata la soglia, diventava la casa del faraone per sempre? Uno spazio però in cui valevano delle regole diverse, delle regole spazio-temporali completamente diverse. Non erano più in questa realtà. Serviva quindi uno sviluppo del tempo diverso, dal tempo ciclico che era il tempo del dio Sole, che ogni giorno risorge e di notte combatte contro Apofis e poi può tornare sulla terra. E il faraone, una volta entrato, dopo il rituale dell’Apertura della Bocca, era completamente trasformato.

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Il faraone Ramses II tra il dio Amon e la dea Mut, gruppo in granito dal tempio di Amon a Karnak (XIX dinastia, regno di Ramses II, 1279-1213 a.C.), conservato al museo Egizio di Torino (foto graziano tavan)

“Prima l’assessore Siotto ricordava come si potrebbe definire la vita. Allora – continua Greco – i biologi e i filosofi si interrogano molto. E a me ha sempre molto colpito vedere immagini su cui i biologi lavorano molto: che differenza c’è tra una persona nel momento in cui è in vita e il momento successivo in cui la vita non c’è più? Cos’è la vita? Ebbene oggi ci dicono che nel momento successivo non ci sono più quelle connessioni, non ci sono più le connessioni molecolari, non c’è più l’energia, non c’è più lo scambio. E pensate che gli Egizi questo l’avevano capito perfettamente già nel Medio Regno, e codificato nel Nuovo Regno. E l’hanno capito in una serie di cose. Hanno capito che la persona era complessa. La persona era composta dal corpo. Però se io cadessi morto in questo momento gli egiziani mi definirebbero cadavere. Il corpo doveva ridiventare immagine vivente della persona, ricomponendo una serie di cose: ricomponendo il nome, ricomponendo l’ombra, ricomponendo il ba che è l’anima che può trasmigrare da questo all’altro regno, il ka che è la forza vitale, e mettendo assieme tutto questo potevano tornare a vivere.

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Statuetta in legno della dea Tauret, dedicata dal disegnatore Parahotep, venerata in ambito domestico, proveniente da Deir el Medina, e conservata al museo Egizio di Torino (foto graziano tavan)

“Ebbene quindi in mostra – sintetizza Greco – vedrete come vivevano gli abitanti di Deir el Medina, questo villaggio voluto da Amenofi I e dalla madre Ahmose Nefertari, che per 600 anni ospita 120 famiglie che hanno un unico compito: quello di costruire le tombe nella Valle dei Re e nella Valle delle Regine. Il loro nome è “servitore nel luogo della verità (Set Maat)”, e avevano forse il lavoro più importante al mondo, cioè quello di consegnare all’eternità la vita dei faraoni in modo che il loro culto potesse perpetrarsi. Però non era un mero culto regale, era un qualcosa di più vitale, di cosmico. Lo vedrete nel video curato da Corinna Rossi, e ringrazio Robin Studio per il lavoro eccellente che anche questa volta hanno fatto, che vi farà fare un viaggio all’interno di uno dei progetti più antichi al mondo, il progetto della tomba di Ramses IV. La vedrete trasformata, potrete viaggiare assieme al faraone, come questo spazio era un nuovo spazio di vita.

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Dettaglio del modellino della Tomba di Nefertari, scoperta da Ernesto Schiaparelli nel 1904, conservato al museo Egizio di Torino (foto graziano tavan)

“La mostra continua Greco – vi farà riflettere sulla wehem meswt, sulla rinascita, su quello che gli egiziani chiamavano la nuova vita che non era la morte. Ci saranno gli elementi che tutti noi ricolleghiamo all’Egitto, ovvero i sarcofagi, che sono quel luogo di trasformazione che permette al corpo di tornare a nuova vita. E passando dalla prima alla seconda parte della mostra, passerete proprio dalla vita del villaggio alla vita nell’aldilà e incontrerete un personaggio importantissimo, incontrerete Nefertari, la cui tomba fu trovata nel 1904 da Ernesto Schiaparelli. E vedrete il modello che Schiaparelli ha fatto fare. Ma vedrete anche le statuette funerarie. E vedrete gli oggetti che Nefertari si era portata con lei. Pensate, c’è persino una manopola con sopra il nome di Ahy, un faraone che era vissuto più di 200 anni prima, e quindi forse lei era legata ad Ahy che era stato sovrano dell’Egitto; o era un oggetto di famiglia caro, un ricordo che lei volle portare tomba. Non dobbiamo pensare che gli egiziani fossero degli alieni. Avevano lo stesso trasporto per la cultura materiale che abbiamo noi.

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Ushabti in faience del faraone Seti I (XIX dinastia, 1290-1279 a.C.) conservati al museo Egizio di Torino (foto graziano tavan)

“In mostra si possono vedere le statuette in faiance, meravigliose, di un altro grande sovrano, Seti I, proprio di fronte a Nefertari. Vedrete i sarcofagi gialli. Vedrete il sarcofago di XXV dinastia che ci fa vedere un’evoluzione dell’iconografia.

“Però volevamo chiudere facendovi vedere anche la fine di questa storia. Amenofi I e Ahmose Nefertari hanno voluto questo villaggio. Questo villaggio ha funzionato. Poi probabilmente – oggi si direbbe – l’Egitto aveva speso troppo rispetto alle proprie necessità. Già all’epoca di Ramses III cominciamo ad assistere a dei disagi sociali, e nell’epoca di Ramses XI, probabilmente durante la vita di Butehamon, venne abbandonato il villaggio. Non è sicurissimo, perché alcuni ostraka, sia figurativi sia letterari, forse ci attestano una continuazione della vita nel villaggio. Però sappiamo sicuramente che Butehamon fondò un suo ufficio, la casa, forse anche la sua tomba nel tempio di Medinet Habu, qualche chilometro più a Sud, in un posto che era protetto. E sappiamo che Butehamon aveva un compito importantissimo: lui andava in giro per la necropoli, perché abbiamo ritrovato i suoi graffiti, a mettere in sicurezza i sarcofagi che venivano depredati. A Londra c’è un documento, il Robbery Papyrus, che ci parla del fatto di come fosse finito questo periodo dell’Eldorado, di come una vedova viene interrogata da un magistrato che le chiede ma perché tuo marito notte tempo si è introdotto in una tomba e ha rubato dei bacili di bronzo? e lei risponde perché con quello io e i miei figli abbiamo mangiato per tre anni. “E allora abbiamo voluto farvi riflettere anche su questo: come questa parabola del villaggio si concluda anche con un periodo di crisi e lo facciamo vedere – a mio giudizio in modo esemplare – utilizzando le nuove tecnologie, facendovi vedere il sarcofago di Butehamon, colui che mise in sicurezza i sarcofagi delle necropoli e al contempo, mentre lo faceva, prese dei pezzi per mettere in sicurezza anche il proprio.

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Sarcofago giallo femminile, in legno e stucco, del Terzo periodo intermedio (XXI dinastia, 1076-943 a.C.) conservato al museo Egizio di Torino (foto graziano tavan)

“È una mostra quindi – conclude – che ci fa riflettere sulla vita, sulla vita dopo la morte, sull’esistenza, sulle difficoltà dell’esistenza, su come il lavoro veniva organizzato, su come si svilupparono anche delle credenze locali, e su come c’è un tema etico che pare trascendere i limiti temporali della storia. Alla fine anche per gli Egizi, come molto spesso anche per noi, quello che contava era maat, era la giustizia, era la verità, ed era l’unica cosa che ci permetteva di vivere bene sulla terra e di poter ambire a una vita dopo. E allora auguriamoci anche noi, come si auguravano gli antichi Egizi, di diventare maat keru, veritieri di voce, e di poter essere dotati di vita come il dio Sole per sempre”. Buona visita.

 

Apre al Canadian Museum of History di Gatineau (Ottawa, Québec) la mostra “Queens of Egypt”, con 250 reperti del museo Egizio di Torino: dopo Kansas City e Fort Worth in Texas, i reperti delle collezioni torinesi proseguono il viaggio in Nord America e arrivano in Canada

Al Canadian Museum of History di Gatineau (Ottawa) la mostra itinerante “Queens of Egypt” del museo Egizio di Torino (foto museo egizio)

Nuova tappa del tour nordamericano dei reperti del museo Egizio di Torino, protagonisti della mostra itinerante “Regine del Nilo”. Nonostante il complesso contesto internazionale fortemente condizionato dalla pandemia di Covid-19, la mostra “Queens of Egypt” approda con un nuovo allestimento al Canadian Museum of History di Gatineau (Ottawa), dove può essere visitata dal pubblico canadese a partire da mercoledì 2 giugno 2021. L’esposizione, dopo Kansas City e Fort Worth in Texas, si presenta nella nuova sede col titolo “Queens of Egypt”: il percorso espositivo che si snoda attraverso circa 250 reperti del Museo che comprendono, insieme a statue e oggetti di vita quotidiana, il corredo funerario e il coperchio del sarcofago di Nefertari, portati alla luce dalla Missione Archeologica Italiana guidata da Ernesto Schiaparelli e al lavoro nella Valle delle Regine tra il 1903 e il 1905. Prima di tornare nelle vetrine, alcuni reperti – nello specifico alcune stele e sarcofagi – sono stati oggetto di una campagna di analisi realizzate in collaborazione con il museo di Gatineau e il Canadian Conservation Institute: attraverso diverse tipologie di analisi sono state studiate la composizione chimica dei differenti pigmenti e la loro reazione in seguito alle sollecitazioni da radiazioni luminose.

La teoria di Sekhmet dal museo Egizio di Torino al Canadian Museum of History di Gatineau (Ottawa) per la mostra “Queens of Egypt” (foto museo egizio)

“Le restrizioni dell’ultimo anno ci hanno imposto nuove modalità di lavoro anche per quanto riguarda le mostre itineranti che continuiamo a promuovere all’estero”, dichiara il direttore del museo Egizio, Christian Greco: “un grandissimo e incessante impegno che coinvolge in particolare il nostro ufficio Collection Management e i colleghi della Soprintendenza, a cui va un sentito ringraziamento, e che ci permette di inaugurare un’altra importante tappa dell’esposizione dedicata alle regine d’Egitto. Un risultato importante che testimonia inoltre la forza della cultura materiale che abbiamo l’onore e l’onere di custodire, e la sua capacità di continuare a coinvolgere pubblici di tutto il mondo”.

Nella mostra “Queens of Egypt” in Canada esposti 250 reperti dal museo Egizio di Torino (foto museo egizio)

“Siamo davvero orgogliosi di poter proseguire il percorso di internazionalizzazione che il Museo sta conducendo da anni, e che nel corso delle tappe nordamericane ci ha permesso di raccogliere un significativo successo”, aggiunge Evelina Christillin, presidente del museo Egizio: “in tutte le sedi statunitensi e canadesi toccate finora la nostra mostra si è infatti imposta come una delle più apprezzate dal pubblico, con oltre 500mila visitatori complessivi. Un’attività strategica, quindi, che continua a vederci in prima linea in piena sintonia con i nostri partner locali, il ministero dei Beni culturali e la Soprintendenza torinese”.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 14.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, ci fa conoscere i “Culti locali a Deir el-Medina”: dalla dea Meretseger al dio Sole, dalla statua di Pandua e Nefertari alla celebrazione del funerale

Le “Passeggiate del Direttore”, giunte al 14.mo appuntamento, ci fanno scoprire i “Culti locali a Deir el-Medina”. Dopo aver conosciuto il villaggio degli operai del faraone, la loro vita quotidiana, l’organizzazione del loro lavoro, oggi il direttore Christian Greco ci fa conoscere anche quali fossero le paure dei suoi abitanti, attraverso i molti oggetti conservati nel museo Egizio di Torino. A cominciare dalla dea serpente Meretseger, colei che ama il silenzio. La troviamo raffigurata in varie fogge: in forma tridimensionale, in una stele, e su un ostrakon. Talvolta con il suo nome scritto per esteso: colei che ama il silenzio. “È questo un fenomeno tipico del mondo antico”, spiega Greco. “Si teme un animale, in questo il cobra, lo si eleva perciò a forza di vita, e lo si adora di modo che possa essere benevolo nei confronti di coloro che le prestano rispetto, e possa allontanare il pericolo. E queste forme di devozione a Meretseger vengono trovate all’interno del villaggio, ma anche all’interno di un tempio che sorgeva a metà strada tra Deir el Medina e la Valle delle Regine: il santuario dedicato a Meretseger che veniva pregata perché venisse allontanato ogni forma di pericolo da parte sua”. Invece su una serie di stele e nel pyramidion troviamo il culto ufficiale, cioè il culto solare. Si vede più volte la barca solare, con il dio Sole adorato nella sua barca che viaggia di giorno e di notte e garantisce il mantenimento dell’ordine in Egitto. “L’immagine del dio Sole è accompagnato da un testo, in genere il capitolo 15 del Libro dei Morti, in cui si invita ad adorare il Sole quando lui appare nell’orizzonte orientale. Ecco quindi come religione ufficiale e religione locale, devozione locale e devozione degli antenati, devozione ai fondatori, devozione a divinità locali si fondano ovviamente in quella unità solare osiriaca che è così fondamentale nel Nuovo Regno”.

Pendua e Nefertari, calcare da Deir el Medina, oggi al museo Egizio di Torino (foto museo Egizio)

Molti degli oggetti esposti al museo Egizio provengono dalla necropoli e raccontano anche di come gli abitanti facessero di tutto per preservare la vita nell’aldilà. Come la meravigliosa statua di Pendua e Nefertari, in calcare, in cui i due sposi si abbracciano. “Questa statua – continua Greco – diviene poi anche oggetto delle offerte che i familiari devono portare di modo che il ka, la forza vitale dei defunti, possa sopravvivere nell’Aldilà. E questo lo vediamo scritto in maniera molto chiara anche nella parte posteriore della statua in cui in maniera assolutamente simmetrica il testo è diviso in due spazi, metà dedicato a Pendua, metà dedicato a Nefertari, e al centro c’è un testo che è una formula magica che il sovrano e varie divinità devono dare, in modo che i defunti possano poi vivere in eterno”.

Pyramidion in pietra proveniente da Deir el Medina, oggi conservato al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

Cosa avveniva nel giorno del funerale? Cosa ci dicono i testi? Una scena comune sulle stele mostra dei sarcofagi (alcuni dicono delle mummie in verticale) davanti alla tomba, che si riconosce dalla facciata. Sopra la tomba vi è infatti una piramide fatta in mattoni crudi, con al centro il posto per la stele. Verso la parte apicale della piramide vi è una linea di divisione che indica l’inserimento del pyramidion; perché la piramide era in mattoni crudi e invece la cuspide era in pietra. “Siamo di fronte a un edificio che è l’edificio tombale”, riprende Greco. “Quindi è il giorno del funerale e il sarcofago viene portato nella tomba. Ebbene cosa avviene? Il corpo è stato mummificato, è stato messo all’interno del sarcofago, si sono preparate le offerte che devono essere portate all’interno della tomba, la processione verso la tomba va avanti, il sarcofago viene messo in verticale e lì il sacerdote “sem” procede con il cosiddetto rituale dell’apertura della bocca. Mentre la vedova in ginocchio si lamenta per la morte dei congiunti, il sacerdote “sem” deve fare in modo che il naso e la bocca siano ancora aperti, che il defunto una volta entrato all’interno della tomba possa proseguire la sua vita, che questa sia davvero una “nuova nascita” e che quindi lui all’interno della tomba possa tornare a respirare, possa tornare a fruire delle offerte che gli vengono date. È un elemento fondamentale: se questo non avesse luogo, la vita dopo la morte non sarebbe possibile. E tutto quello che si è fatto non porterebbe poi a buon fine”.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: con il dodicesimo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, ci fa conoscere gli artisti e gli artigiani del villaggio di Deir el Medina fondato da Amenhotep I, e la ricca collezione dagli scavi di Schiaparelli e della MAI

Le “Passeggiate del Direttore”, giunte al dodicesimo appuntamento, ci portano a tu per tu con gli artigiani e gli artisti che realizzarono le tombe dei faraoni e delle regine. Questi vivevano nel villaggio di Deir el Medina. Ed è proprio dalle sale dedicate alla cultura materiale di questo villaggio che parte la “passeggiata” del direttore Christian Greco. La pianta mostra chiaramente il nucleo abitativo con le necropoli a occidente e a oriente. “Il villaggio – ricorda Greco – era già stato investigato dagli agenti di Drovetti. E a Torino ci sono molti oggetti della collezione Drovetti. Ma fu oggetto di indagini specifiche a partire dal 1903 da parte di Ernesto Schiaparelli e della Missione Archeologica Italiana in Egitto”. Ma perché questo villaggio è così importante? “Deir el Medina fu fondato all’inizio del Nuovo Regno (XVI sec. a.C.) per insediare gli artigiani, i lavoratori, gli artisti che dovevano poi costruire e portare a compimento le tombe nella Valle dei Re e nella Valle delle Regine. Si tratta di una comunità di circa 120 famiglie che ha una sua evoluzione dall’inizio del Nuovo Regno all’età ramesside: quindi una comunità che per più di 500 anni continuerà ad abitare in questo villaggio e a costruire le tombe regali”.

La statua cultuale in calcare bianco del faraone Amenhotep I proveniente da Deir el Medina e conservata al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

Il museo Egizio di Torino possiede una delle collezioni più importanti che ci parlano degli abitanti di Deir el Medina. “Una statua in calcare bianco ci ricorda uno dei fondatori del villaggio, il faraone Amenhotep I, oggetto di un culto privato e personale proprio all’interno del villaggio. Sulla statua – tra l’altro – si legge “Sa Ra” cioè “figlio del dio Sole”, che mostra ancora una volta la relazione molto stretta tra il sovrano e la divinità solare. Nella IV dinastia si aggiunse questo epiteto a quello regale e la solennizzazione del culto divenne molto importante. Il sovrano – ricordiamolo – non è solo colui che regge le sorti politiche, economiche e militari del Paese, ma è davvero colui che fa in modo che Maat (“l’ordine”) in Egitto possa essere portato avanti. La sua connessione con il divino quindi è fondamentale. Ma non c’è solo il culto del faraone. Anche la madre, Amhose Nefertari, viene vista come una divinità protettrice del sito di Deir el Medina. Di lei il museo Egizio di Torino possiede una serie di statue lignee importantissime, in cui a volte viene anche rappresentata con un colore nero. Probabilmente è un aspetto simbolico-rituale. Il nero è un colore importantissimo per l’antico Egitto. Lo stesso Egitto veniva chiamato Kemet “terra nera”, che altro non è che il limo che si deposita sulle sponde del Nilo quando vi è l’inondazione del dio Hapi, che fa diventare la terra molto fertile. Ecco quindi che il nero simboleggia la fertilità e la rinascita del Paese. Faraone e regina vengono continuamente rappresentati in vari oggetti che sono stati ritrovati a Deir el Medina: in stele dove i proprietari fanno delle offerte, ma anche in intarsi lignei che facevano parte del mobilio e a volte addirittura in un piccolo ostracon. Tantissimi e svariati gli oggetti provenienti da Deir el medina. Tra questi, un piccolo modellino di cappella: proprio quello dipinto in un quadro di Lorenzo Delleani, dove si vedeva Ariodante Fabretti, l’allora direttore del museo, insieme a Lanzone in una sala mentre studiavano gli oggetti e proprio sul pavimento era posizionato questo oggetto molto importante che si vede nella sezione di Deir el Medina”.

Deir el-Medina, il villaggio degli artigiani dei faraoni cintato da mura

Il museo egizio ha avito un ruolo fondamentale nel determinare chi fossero questi lavoratori nel villaggio di Deir el Medina. Ed è stato possibile non solo grazie alla cultura materiale che era qui preservata, ma agli studi che proprio in questo museo vennero portati avanti, soprattutto da Černý, uno studioso che proveniva da quella che allora era la Cecoslovacchia e che nell’immediato dopoguerra cominciò a fare visite regolari in museo a Torino, a studiare i documenti qui preservati, scrivendo un libro fondamentale, “The Workman Village”, ancora oggi di importanza vitale per chiunque si voglia dedicare agli studi di Deir el Medina.

#iorestoacasa. “Passeggiate del Direttore”: con il sesto appuntamento su “Ernesto Schiaparelli, la M.A.I e il Partage” il direttore Greco chiude il racconto della storia pluricentenaria del museo, descritta nella sezione ipogea

Il sesto appuntamento con le “Passeggiate del direttore” dedicata a “Ernesto Schiaparelli, la M.A.I e il Partage” completa la visita della sezione ipogea del museo Egizio di Torino e con essa la storia pluricentenaria dell’istituzione culturale piemontese. Il direttore Christian Greco inizia presentandoci la figura di Ernesto Schiaparelli che rappresenta un tassello fondamentale nella storia del museo Egizio. “Nel 1894”, ricorda Greco, “70 anni dopo la fondazione del museo, Schiaparelli, che era già stato per 14 anni direttore del museo Egizio di Firenze (1880-1894), arriva a Torino e comprende subito che il ruolo della collezione non è più quello che aveva avuto un tempo. La collezione è sì importante ma altri musei europei stanno avendo un ruolo importante anche perché loro stanno scavando in Egitto. E capisce quindi che non basta più solo acquisire nuovi reperti e andare in Egitto per acquistare nuovi reperti, ma che bisogna cominciare a scavare: dare un contesto archeologico agli oggetti, capire da dove essi vengono. Investigare dei siti e poi portare gli oggetti in museo contestualizzati, capendone al storia. Per cui l’oggetto non è più il tesoro singolo ma è il documento storico che ci permette di capire un sito, un paesaggio, una fase storica dell’Antico Egitto”.

Ernesto Schiaparelli e i suoi strumenti da lavoro (dalla mostra “M.A.I,.”, foto Graziano Tavan)

Schiaparelli ottiene da Gaston Maspero, Direttore del servizio di Antichità, la possibilità di operare degli scavi in Egitto. “A dire il vero lui può scegliere dove scavare in Egitto”, continua il direttore. “Ma per far questo servivano dei finanziamenti, finanziamenti che Schiaparelli chiede al ministero per gli Affari esteri, il quale però indica di rivolgersi al ministero per la Pubblica istruzione. Per un po’ i due ministeri si rimpallano la richiesta finché nel 1903 c’è l’ok e si può finalmente fondare la Missione Archeologica Italiana (M.A.I.) in Egitto. Dal 1903 al 1920 ci saranno 12 campagne fondamentali che da Nord a Sud permetteranno di documentare l’Antico Egitto e di scavare in vari siti, e permetteranno soprattutto di incrementare la collezione perché Schiaparelli porterà a Torino più di 35mila reperti”.

La cartina dell’Egitto con le missioni archeologiche di Ernesto Schiaparelli (dalla mostra “M.A.I.”, foto Graziano Tavan)

La macchina fotografica di Ernesto Schiaparelli (dalla mostra “M.A.I.”, foto Graziano Tavan)

Come operava Schiaparelli? “Il compagno di lavoro fedele di Schiaparelli era la macchina fotografica. In maniera quasi ossessiva faceva documentare tutte le fasi dello scavo: il momento della scoperta, il momento in cui l’oggetto veniva messo all’interno delle casse e veniva trasportato. Questa documentazione oggi ci permette di capire dove aveva scavato e a volte di ricostruire la stratigrafia. Il museo Egizio conserva 14mila lastre fotografiche inedite del periodo degli scavi. E 39 metri lineari di archivio che ci permettono di capire fase dopo fase”. Schiaparelli scava a Eliopoli, a Giza, a Ossirinco, ad Ashmunein, ad Asyut, ad Hammamiya, a Qaw el Kebir, a Deir el Medina, a Tebe Ovest, dove scopre il villaggio degli artisti del faraone. Andrà poi nella valle delle Regine, a Gebelein, fino ad arrivare ad Aswan. “È questo anche il momento in cui l’Egitto comincia a interrogarsi su quale debba essere il rapporto con i Paesi che vengono a scavare in Egitto, quale debba essere la regolamentazione. È allora che cominciano a essere inserite le leggi del Partage, che permette ai Paesi stranieri di scavare in Egitto ma con l’obbligo di lasciare in Egitto gli oggetti più belli, mentre gli altri vengono portati all’estero con permessi di esportazione. Schiaparelli accresce le collezioni e trasforma il museo Egizio da antiquario ad archeologico”.

Il tempio di Ellesija donato dall’Egitto all’Italia e conservato al museo Egizio di Torino

Il telegramma di Giulio Farina al ministro Bottai (foto museo Egizio)

La storia del museo Egizio si chiude con un momento tragico. Siamo nel 1942. È il periodo dei bombardamenti. Giulio Farina è alla guida del museo. La città di Torino viene bombardata e Giulio Farina il 2 dicembre 1942, che vorrebbe subito evacuare le collezioni, scrive un telegramma al ministro della Pubblica istruzione, Bottai, di venire lui a vedere com’è la situazione. Ma ormai è tardi. L’8 dicembre 1942 il museo viene bombardato. Colpite tra l’altro le vetrine con i reperti che vengono da Gebelein. “Questo forse è il momento più drammatico per il museo”, ricorda Greco. “Le collezioni poi verranno evacuate e portate al castello di Agliè, fuori Torino, con i mezzi della Wehrmacht, e poi riportati alla fine della guerra con i mezzi alleati. Il museo Egizio riaprirà nel 1946, uno dei primi in Italia tra i grandi musei”. C’è un ultimo grande reperto che arriva al museo Egizio, il tempio di Ellesija, che si vedrà alla fine delle passeggiate. Verrà dato al museo in base a un decreto presidenziale di Nasser nel 1970 per ringraziare l’Italia per quanto ha fatto per la salvaguardia dei monumenti durante la campagna Unesco, quando i monumenti dell’antico Egitto rischiavano di essere sommersi dalle acque del lago Nasser.

La regina Nefertari arriva a Kansas City (Missouri). Al Nelson-Atkins Museum of Art ha aperto “Queen Nefertari: eternal Egypt”, con 250 reperti del museo Egizio di Torino

La locandina della mostra “Queen Nefertari: eternal Egypt” al Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City

La regina Nefertari conquista Kansas City, nel Missouri. Prosegue con una nuova tappa il tour nordamericano dei reperti del Museo Egizio, protagonisti della mostra itinerante “Regine del Nilo” che, reduce dal successo di Washington, è approdata con un nuovo allestimento al Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City, dove potrà essere visitata dal pubblico statunitense fino al 29 marzo 2020.

Una sala espositiva della mostra “Queen Nefertari: eternal Egypt”

L’esposizione, che sta raccogliendo grande apprezzamento a livello internazionale, si presenta nella nuova sede col titolo “Queen Nefertari: eternal Egypt” proponendo un focus dedicato proprio alla regina moglie del faraone Ramesse II (1279 – 1213 a. C.). Un percorso espositivo che si snoda attraverso circa 250 reperti del Museo che comprendono, insieme a statue e oggetti di vita quotidiana, il corredo funerario e il coperchio del sarcofago di Nefertari, portati alla luce dalla Missione Archeologica Italiana guidata da Ernesto Schiaparelli e al lavoro nella Valle delle Regine tra il 1903 e il 1905.

La mummia di Nefertari è stata sottoposta a Tac all’ospedale di Kansas City

Ma prima di approdare nelle sale espositive del Nelson-Atkins, alcuni di questi reperti hanno soggiornato alcuni giorni, nelle scorse settimane, in un altro edificio della cittadina del Missouri: il Saint Luke’s Hospital, dove alcune indagini diagnostiche ne hanno certificato lo stato di conservazione ottimale.

Il Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City

L’esposizione racconterà inoltre ai visitatori la storia delle mogli dei faraoni durante il Nuovo Regno nel periodo che va dal 1500 al 1000 a.C., quando regine come Ahmose Nefertari, Hatshepsut, Tiye, Nefertiti, e in particolare Nefertari, erano donne influenti che non ricoprivano soltanto il ruolo di mogli ma gestivano anche il palazzo del faraone esercitando un potere politico significativo.

Torino, incontro con l’egittologo Ciampini alla scoperta dei sarcofagi lignei del museo Egizio, trovati dalla Missione archeologica italiana in Egitto diretta da Schiaparelli a Assiut e Gebelein

Planimetria e cronologia della Missione archeologica italiana in Egitto diretta da Ernesto Schiaparelli nella mostra “Missione Egitto” del 2017 all’Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

L’egittologo Ernesto Schiaparelli scoprì la tomba di Nefertari nel 1904

Era il 1903 quando Ernesto Schiaparelli, dal 1894 direttore del museo Egizio di Torino, inaugurava la Missione archeologica italiana (Mai) in Egitto che in meno di vent’anni avrebbe portato a straordinarie scoperte, non ultime la splendida tomba di Nefertari, la sposa di Ramses II, considerata tra le più belle della Valle delle Regine, e la tomba dell’architetto reale Kha, trovata intatta col suo ricco corredo funerario. La Mai promosse campagne di scavo a Eliopoli, Ermopoli, Giza, Valle delle Regine, Deir el-Medina, Assiut, Bahnasa e Gebelein, mettendo insieme una collezione di 30mila reperti, oggi vanto del museo Egizio di Torino, in grado di testimoniare ed illustrare tutti i più importanti aspetti dell’Antico Egitto, dagli splendori delle arti agli oggetti comuni di uso quotidiano.

Operai impegnati nello scavo del sito di Gebelein (foto Archivio museo Egizio di Torino)

L’egittologo Emanuele Ciampini di Ca’ Foscari

Proprio da Assiut e Gebelein proviene una nutrita serie di sarcofagi, datati a un periodo precedente al Nuovo Regno, che fa parte della collezione di antichità del museo Egizio di Torino, che giovedì 21 febbraio 2019, alle 18, ospiterà la conferenza “Tra i sarcofagi lignei del Museo Egizio”, tenuta dal professor Emanuele Ciampini, professore associato di Egittologia all’università Ca’ Foscari di Venezia; dirige la Missione Archeologica Italiana in Sudan – Jebel Barkal ed è autore di saggi e studi legati alla filologia e al pensiero religioso faraonico. La conferenza, a ingresso libero fino a esaurimento dei posti, sarà introdotta dal curatore Federico Poole, sarà tenuta in lingua italiana, e verrà anche trasmessa via streaming sulla pagina Facebook del Museo.

Dettaglio di un sarcofago ligneo conservato al museo Egizio di Torino

La Galleria dei Sarcofagi al museo Egizio di Torino

Questi sarcofagi lignei offrono un ricco e variegato quadro della cultura egizia tra l’Antico e il Medio Regno, un periodo che vede il formarsi di modelli che entreranno a far parte della coscienza più profonda della civiltà egizia. La presentazione di questi materiali permetterà di delineare le caratteristiche di un processo evolutivo del pensiero antico, in particolar modo legato a espressioni religiose che forniscono un quadro articolato, e che permettono ancora oggi di riconoscere l’evoluzione di un pensiero religioso complesso.

A tu per tu con gli artisti delle tombe della Valle dei Re e delle Regine nel villaggio di Deir el-Medina. Nella mostra a Jesolo “Egitto. Dei, faraoni, uomini” l’eccezionale ricostruzione della tomba di Pashed, caposquadra degli artigiani all’epoca di Ramses II

Il logo della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” che Jesolo ospita dal 26 dicembre 2017 al 15 settembre 2018: prorogata al 30 settembre 2018

Il nostro viaggio alla scoperta dell’Antico Egitto sta per concludersi. Abbiamo attraversato il Mediterraneo incrociando le navi di quei popoli che trafficavano con la terra dei faraoni. Abbiamo solcato il Nilo ammirando le grandi città che erano sorte lungo le sue sponde. Abbiamo fatto la conoscenza con i signori di queste terre, i faraoni, e con le divinità che sovrintendevano a questo mondo. Infine, con gli imbalsamatori, ci siamo inoltrati nel mondo dell’aldilà, il regno di Osiride. È tempo di conoscere chi ha permesso agli antichi egizi di raggiungere nel modo migliore l’Oltretomba, con la realizzazione di tombe che nella maggioranza dei casi sono anche dei capolavori artistici: stiamo parlando degli artigiani specializzati in grado di esaudire i desiderata dei loro committenti. Siamo nella sesta sala della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” aperta non più fino al 15 ma fino al 30 settembre 2018, nello Spazio Aquileia di Jesolo: un viaggio nello spazio e nel tempo che ti porta a tu per tu con la grande civiltà del Nilo.

Vetrinetta con materiali che ricordano oggetti provenienti da Deir el-Medina (foto Graziano Tavan)

Le tombe dei sovrani del Nuovo Regno furono costruite da manodopera specializzata che risiedeva nel villaggio circondato da mura di Deir el-Medina, sulla riva occidentale del Nilo, di fronte alla città di Luxor, in una piccola valle del deserto roccioso. L’attuale nome arabo significa “il monastero della città”, retaggio dell’occupazione copta che trasformò il tempio della dea Hator in un luogo sacro al cristianesimo. Ma il villaggio, come suggerito dai dati archeologici, risale al tempo del faraone Thutmosi I (1504 – 1492 a.C.), e si sviluppò notevolmente 150 anni più tardi con Horemheb (1323 – 1245 a.C.), quando aumentò vistosamente il numero degli artigiani richiesti dalle nuove tecniche decorative applicate alle tombe reali. Il sito fu poi abbandonato sotto il regno di Ramses XI (1099 – 1069 a.C.), ma non venne meno il suo valore sacro, come dimostrano i riusi di tombe e l’occupazione copta.

Deir el-Medina, il villaggio degli artigiani dei faraoni cintato da mura

Il villaggio di Deir el-Medina in età ramesside era fiancheggiato ad Ovest, sul crinale roccioso, dalla necropoli principale, e a Est, sul pendio della collina di Gurnat Murrai, da un altro cimitero, probabilmente secondario. Qui vissero gli artigiani impiegati nella costruzione delle tombe reali nelle vicine valli dei Re e delle Regine. Il villaggio era chiamato dai suoi abitanti in diversi modi: pa-demi (“il villaggio”), set-maat (“il luogo della Verità”), o ancora pa-kher (“la necropoli”), espressioni che indicavano le necropoli reali, includendo il villaggio come unità amministrativa.

Un dettaglio delle pareti affrescate della tomba di Pashed ricostruita a Jesolo (foto Graziano Tavan)

“Gli artigiani chiamati a realizzare le monumentali sepolture della XVIII, XIX e XX dinastia, facevano parte della cosiddetta Squadra della Tomba”, spiega l’egittologa Elisa Fiore Marochetti. “La squadra era divisa in due equipaggi, chiamati di destra e di sinistra, secondo delle modalità mutuate dalla nautica. Ogni equipaggio era comandato da un capo, designato dal visir o dal re stesso su sua proposta. Il caposquadra rappresentava la squadra dinanzi alle autorità, doveva sorvegliare il lavoro degli operai ed era incaricato di distribuire loro le razioni di cibo, che costituivano la paga. Si occupava dell’attrezzatura e dei materiali necessari ai lavori. Presiedeva inoltre le questioni legali nella corte, dirimeva le dispute. Conosciamo il nome di almeno 31 capisquadra dalla XIX alla XXI dinastia, cioè in un arco di tempo di 270 anni. Tra questi capisquadra a noi noti c’è Pashed, il cui nome significa il Salvatore, il quale visse nel XIII secolo a.C. Pashed – continua Marochetti – fu caposquadra dell’equipaggio di sinistra durante la prima parte del regno di Ramses II (XIX dinastia). La carica di caposquadra in realtà l’assunse in età avanzata, dopo essere stato Servitore della sede della Verità dell’Ovest, un lungo titolo per dire che aveva iniziato come artigiano a Deir el-Medina; e prima ancora, Servitore nel recinto di Amon nella città meridionale, cioè Tebe”.

L’esploratore ed egittologo scozzese Robert Hay

Pashed possedeva una tomba al limite del villaggio (quella che oggi conosciamo come la Tomba 3), e una seconda cappella (la numero 326). La tomba affrescata di Pashed fu individuata nel 1834 da un gruppo di soldati di leva dell’esercito egiziano: quindi ben settant’anni prima che il grande egittologo italiano Ernesto Schiaparelli portasse alla luce – era il 1905 – il villaggio di Deir el-Medina. La ricostruzione di quella tomba, che l’artista scozzese Robert Hay visitò subito dopo la scoperta nel 1834 e ne riportò su tavole di disegno le ricche pareti affrescate, è ora possibile vederla nella mostra di Jesolo.

L’archeologa Francesca Benvegnù dentro la tomba di Pashed, ricostruita a Jesolo (foto Graziano Tavan)

“La ricostruzione della tomba di Pashed, presentata da Cultour Active”, spiega l’archeologa Francesca Benvegnù, “è un vero e proprio capolavoro, progettato e realizzato dalle mani sapienti di Gianni Moro, artigiano di Motta di Livenza (Tv) che ha lavorato accanto a egittologi del Cairo e del museo Egizio di Torino. Essa riproduce fedelmente, con una struttura di 5 metri per 2,50 metri, la camera sepolcrale, il relativo corridoio di accesso e i minuziosi dipinti nelle pareti, rinvenuti nella necropoli di Deir el-Medina. Dal corredo funerario rinvenuto nella sua sepoltura si conservano un papiro-libro dei morti oggi al British Museum di Londra, una stele al museo del Cairo e un rilievo al museo Egizio di Firenze“.

La volta della tomba di Pashed con le formule in geroglifico del LIbro dei Morti (foto Graziano Tavan)

Nella mostra di Jesolo una gigantografia riproduce l’ambiente e l’ingresso della tomba di Pashed a Deir el-Medina, cosicché il visitatore ha l’impressione/emozione di trovarsi proprio nel villaggio degli artisti dei faraoni e di varcare la soglia che porta alla tomba. A questo punto – come fanno notare gli archeologi che curano le visite guidate – bisogna immaginare di scendere una ripida scala (che ovviamente non poteva essere riprodotta nel contenitore jesolano) la quale porta all’appartamento sotterraneo. “Dopo un’anticamera non decorata”, chiarisce Benvegnù, “si accede alla camera sepolcrale con le pareti in mattoni crudi rivestiti di stucco e dipinti a tempera”. È questa piccola meraviglia che abbiamo la possibilità di ammirare a Jesolo. La tomba è famosa non solo per i suoi colori vivaci e brillanti, ma anche per il contenuto spirituale e religioso delle formule del Libro dei Morti, illustrate nella volta della tomba, dove “si allude alla unione di Osiride e Ra – spiega Marochetti – secondo una concezione religiosa funeraria che si afferma tra la fine della XVIII e l’inizio della XIX dinastia”.

Pashed rappresentato nella sua tomba inginocchiato sotto una palma dum beve l’acqua del Nilo (foto Graziano Tavan)

La tomba è decorata con magnifiche pitture parietali che raffigurano il viaggio dell’artigiano verso l’Aldilà e Osiride, ma anche scene domestiche dove il defunto è rappresentato con sua moglie, i figli, i nipoti, suoceri e perfino gli amici più cari. “Nella tomba sono ben rappresentati i genitori di Pashed, Menna e Huy”, fa notare Benvegnù. “Con loro c’è un altro artigiano, Nefersekheru, forse amico di Menna. Sulla parete Nord possiamo vedere la figlia di Pashed. È ritratta nuda, ha la treccia tipica delle bambine. È raffigurata ai piedi del padre in atto di adorazione. Il titolare della tomba lo troviamo inginocchiato sotto una palma dum, mentre beve l’acqua del Nilo: un gesto simbolico, come fa capire il capitolo 62 del Libro dei Morti, contenuto nel testo in geroglifico che vediamo alle sue spalle, dove è spiegata la formula per bere l’acqua nell’Aldilà”.

(6 – continua; precedenti post 12 e 17 aprile, 23 maggio, 22 giugno, 5 luglio 2018)

“Nefertari e la Valle delle Regine. Dal museo Egizio di Torino”: all’Ermitage in mostra i capolavori conservati nella città sabauda parte delle ricche collezioni Drovetti e Schiaparelli

La regina Nefertari, grande sposa reale di Ramses II, ritratta nella sua tomba scoperta nel 1904 da Schiaparelli

Il curatore Mikhail Borisovich Piotrovsky, lo sponsor Francesca Lavazza, e il direttore dell’Egizio Christian Greco

La regina Nefertari col suo ricco corredo ha lasciato la sua “casa”, il museo Egizio di Torino, per approdare – fino al 10 gennaio 2018 – nella prestigioso palazzo del museo dell’Ermitage a San Pietroburgo, grazie al protocollo firmato tra la fondazione Ermitage Italia e la fondazione museo Egizio di Torino con la mediazione di Villaggio Globale International e il supporto fondamentale della società Lavazza che, nella persona di Francesca Lavazza, ha permesso l’arrivo dei preziosi reperti nella capitale culturale russa.  La mostra “Nefertari e la Valle delle Regine. Dal Museo Egizio di Torino”, curata da Andrei Olegovich Bol’sakov, responsabile del settore Antico Oriente nel dipartimento d’Oriente dell’Ermitage, e da Andrei Nikolayevich Nikolayev, vice capo del dipartimento d’Oriente, presenta i reperti provenienti dalla valle delle Regine nell’antica Tebe e acquisiti dagli scavi di Drovetti e Schiaparelli, e dove la regina Nefertari, della quale proprio Schiaparelli scoprì la sua tomba monumentale nel 1904, rappresenta la protagonista assoluta. È noto, infatti, che il nucleo principale del museo Egizio di Torino, il più importante al mondo dopo il museo Egizio del Cairo, è il risultato di due eventi: il primo, l’acquisizione nel 1824 da parte di Carlo Felice, Duca di Savoia e Re di Sardegna, della collezione di Bernardino Michele Maria Drovetti, diplomatico italiano al servizio della Francia, che ha portato a Torino gli oggetti più grandi (statue e sarcofagi), insieme a un gran numero di stele, corredi funerari e una ricchissima gamma di papiri, principalmente dalla regione di Tebe. Il secondo, gli scavi condotti dal grande egittologo Ernesto Schiaparelli, direttore dell’Egizio di Torino dal 1894 al 1928, anno della sua morte. Nel 1903 Schiaparelli inaugurò l’attività della Missione Archeologica Italiana in Egitto, portando a termine una quindicina di fruttuose campagne di scavi, tra le quali spiccano per importanza e notorietà la scoperta nel 1904 della splendida tomba di Nefertari, grande sposa reale di Ramses II e una delle regine più influenti dell’Antico Egitto, considerata tra le tombe più belle della Valle delle Regine; e la scoperta, fatta nel 1906 nella necropoli di Tebe, della famosa tomba dell’architetto reale Kha perfettamente intatta e con un ricco corredo funerario, splendidamente conservata a Torino. I risultati degli scavi nella Valle delle Regine (1903-1905) e a Deir el-Medina (1905-1908) hanno fatto del museo Egizio di Torino una delle più belle collezioni di reperti di Tebe e uno dei centri più importanti per lo studio della cultura egizia nel Nuovo Regno e il primo millennio a.C.

Le sale espositive della mostra “Nefertari e la Valle delle Regine” all’Ermitage di San Pietroburgo

Il modellino della tomba di Nefertari nella Valle delle Regine

Un elemento del corredo funerario della regina Nefertari

La mostra all’Ermitage si apre con una sezione dedicata a Nefertari, la grande sposa reale di Ramses II, considerata l’incarnazione vivente della dea Hathor, la moglie del dio-sole. Statue monumentali da Tebe illustrano le funzioni del re, che era non solo sovrano del paese, ma anche l’intermediario tra il popolo e gli dei, e della sua consorte. Molti elementi in questa parte della mostra illustrano la fusione dell’immagine di Nefertari con una serie di dee. Particolarmente importanti gli oggetti trovati nella camera di sepoltura della regina Nefertari e un modello della tomba che è stata fatta immediatamente dopo la sua scoperta nel 1904. Nei corredi di Nefertari in mostra ci sono frammenti del coperchio del sarcofago fracassato da tombaroli, amuleti, vasi, sandali intrecciati da foglie di palma che la regina potrebbe avere indossato e 34 ushabti in legno rifinito con vernice nera che portano il suo nome. Inoltre alcuni oggetti rituali e di uso quotidiano appartenuti a nobili dame e utilizzati alla corte reale, come statue e rilievi, articoli igienici, articoli cosmetici e gioielli, aiutano il visitatore ad avere un quadro della vita di corte e della posizione della donna in Egitto al tempo di Nefertari, cioè nella XIX dinastia, durante i primi 30 anni del regno di Ramses II. Mentre alcuni rari reperti  – oggetti decorativi, frammenti di strumenti musicali, un poggiatesta in legno a sostegno della base del cranio durante il sonno, vasi e ciotole – danno un’idea delle condizioni in cui vivevano la famiglia reale e la nobiltà.

La sala n° 6 nel nuovo percorso del museo Egizio di Torino con i reperti provenienti da Deir el Medina

Una scena dipinta all’interno delle tombe reali

Un’altra sezione della mostra è dedicata agli operai e artigiani impegnati nel tagliare e decorare le monumentali tombe rupestri dei re e delle regine del Nuovo Regno. I reperti esposti a San Pietroburgo, che costituiscono una componente importante delle collezioni del museo Egizio di Torino, provengono dal villaggio di artigiani e artisti posto in una conca tra le montagne di Tebe e la collina Qurnet Murai, in un sito ora conosciuto come Deir el-Medina. Le tombe realizzate dagli abitanti di Deir el-Medina hanno avuto un destino complicato. Sono state saccheggiate, probabilmente già alla fine del Nuovo Regno, e alcune sono state utilizzate per sepolture successive. Per molti secoli, le tombe dei principi reali dimenticati sono servite come tombe di famiglia per l’elite di Tebe. Completano l’esposizione un certo numero di sarcofagi, trovati nelle tombe di Khaemwaset e Seth-suo-khopsef, due figli di Ramses III (1198-1166 a.C.), e utilizzati come depositi per una famiglia sacerdotale del XXV dinastia (722-656 a.C.). Tracce di bruciature ancora visibili su alcuni dei sarcofagi possono essere collegate al saccheggio delle tombe, senza dimenticare che monaci cristiani sono noti per aver usato gli antichi sarcofagi come legna da ardere.

Gruppi scultorei dal museo Egizio di Torino all’Ermitage di San Pietroburgo

Chiude il percorso della mostra la presentazione dei papiri funerari della ricca collezione Drovetti che, probabilmente, provengono anch’essi dalla necropoli tebana. Questi papiri sono della stessa età dei sarcofagi e riportano i capitoli del Libro dei Morti (una raccolta di formule rituali che consentono al defunto di passare in modo sicuro attraverso il mondo prossimo e unirsi con Osiride e le anime dei beati) e l’Amduat, un importante testo funerario che descrive il viaggio notturno del Sole e la sua vittoria contro tutti i pericoli. Il defunto, identificato con il Sole nel corso di questo viaggio, vince i suoi nemici e diventa immortale come il dio Ra.

110 anni fa l’archeologo italiano Schiaparelli scoprì la più bella tomba della Valle delle Regine, la tomba di Nefertari, la Grande Sposa di Ramses II. Una mostra al museo Egizio del Cairo ricorda 110 anni di presenza italiana in Egitto

La regina Nefertari, la Grande Sposa di Ramese II, ritratta negli affreschi della sua tomba nella Valle delle Regine

La regina Nefertari, la Grande Sposa di Ramese II, ritratta nella sua tomba nella Valle delle Regine

La pianta della tomba di Nefertari a Tebe Ovest

La pianta della tomba di Nefertari a Tebe Ovest

“È uno dei monumenti più insigni della necropoli di Tebe che se non per ampiezza, certo per l’armonia delle sue parti e la squisitezza dell’arte, gareggia pur anco colle più belle tombe della Valle dei re”, avrebbe commentato la straordinaria scoperta della tomba della regina Nefertari l’archeologo italiano Ernesto Schiaparelli, direttore del museo Egizio di Torino dal 1894 fino alla sua morte nel 1928. Era il 1904. Schiaparelli a capo di una missione archeologica italiana scoprì nella Valle delle Regine, a Tebe Ovest, quella che probabilmente è la tomba più bella d’Egitto: la QV66, ovvero la tomba della celeberrima Nefertari, la Grande Sposa Reale di Ramses II (1279-1212), sovrano egizio della XIX dinastia, la quale – pur non avendo regnato in modo autonomo – fu una delle regine più influenti dell’Antico Egitto, a fianco di nomi come Hatshepsut, Tyi, Nefertiti e Cleopatra VII. Ramses II la innalzò alla condizione di divinità vivente attribuendole appellativi come: “la Divina”, “la più amata”, “la Signora del fascino”, “la dolce in amore”, “Madre e Signora del dio in vita”. Non a caso il nome Nefertari letteralmente significa “la più bella”, nome inoltre quasi sempre seguito dall’attributo Mery-en mut, “amata da Mut”, la divinità tebana, sposa di Ammone. Una volta entrato, Schiaparelli si rese subito conto che l’opera dei saccheggiatori aveva lasciato ben poco del corredo originario, ma la QV66 restava ed è un gioiello per la sua struttura architettonica, paragonabile a quelle che si trovano nella Valle dei Re, e, soprattutto, per il magnifico ciclo pittorico che abbellisce le pareti e il soffitto, uno dei più completi e significativi del nuovo regno.

Il moderno ingresso alla tomba di Nefertari nella Valle delle Regine

Il moderno ingresso alla tomba di Nefertari nella Valle delle Regine

Il manifesto della mostra fotografica "Nefertari 1904 - 2014" al museo Egizio del Cairo

Il manifesto della mostra fotografica “Nefertari 1904 – 2014” al museo Egizio del Cairo

Sono passati 110 anni da quella straordinaria scoperta che parla italiano come la targa che ancora oggi campeggia sopra il cancelletto d’ingresso della tomba in fondo alla breve scala di accesso a ricordare l’opera di Ernesto Schiaparelli. E un anniversario così importante come la scoperta della tomba della regina Nefertari non poteva passare sotto silenzio. Per questo l’ambasciata d’Italia e l’Istituto di Cultura italiano al Cairo, in collaborazione con il ministero delle Antichità egiziano, hanno deciso di promuovere la mostra fotografica “Nefertari 1904 – 2014”, che celebra i 110 anni di presenza italiana in Egitto. L’inaugurazione della mostra, sponsorizzata da Alex Bank, del Gruppo Intesa SanPaolo di Torino, e da Bcube logistica di Coniolo (Al), l’8 dicembre al museo Egizio di piazza Tahrir al Cairo, alla presenza dell’ambasciatore d’Italia, Maurizio Massari, e del ministro egiziano delle Antichità, Mamdouh Eldamaty, e sarà successivamente trasferita ad Alessandria e Luxor. “È uno straordinario esempio dell’impegno e della qualità del lavoro di archeologi e restauratori italiani”, sottolinea l’ambasciatore Massari, “e soprattutto la conferma del grande valore della presenza italiana nel settore archeologico egiziano, presenza ancora oggi rilevante, con 23 missioni attualmente operative in tutto l’Egitto”.

L'interno, completamente affrescato, della tomba di Nefertari, la QV66

L’interno, completamente affrescato, della tomba di Nefertari, la QV66

Una visione assonometrica della tomba di Nefertari scavata nella roccia

Una visione assonometrica della tomba di Nefertari scavata nella roccia nella Valle delle Regine

Questa vasta tomba scoperta nel 1904 dall’egittologo Ernesto Schiaparelli, purtroppo deturpata e saccheggiata al punto da essere priva della mummia (il sarcofago in granito rosa è stato trovato aperto e spezzato), è collocata nel versante settentrionale della Valle delle Regine e presenta una pianta molto articolata. È infatti diversa rispetto alle tombe di altre regine (solitamente più semplici e dotate solo di una camera funeraria), e si ispira piuttosto alle sepolture faraoniche della vicina Valle dei Re. Sulle pareti della seconda scala discendente, la decorazione è anche a rilievo. I dipinti raggiungono apici di qualità nell’ambito dell’arte funeraria egizia soprattutto per la ricchezza di colori (verde, blu egiziano, rosso, ocra gialla, bianco e nero) e di dettagli, mentre i temi e i contenuti rispettano le indicazioni contenute nel Libro dei Morti. Le immagini descrivono il viaggio di Nefertari verso l’Aldilà, durante il quale gioca a senet (gioco da tavolo, considerato uno degli antenati del backgammon), entra nel mondo sotterraneo dove incontra molte divinità tra le quali Osiride e Iside. Al termine del ciclo pittorico, Nefertari trionfa e si tramuta in Osiride (dio dei morti), con il conseguente, auspicato raggiungimento dell’immortalità e della pace eterna. All’interno della tomba furono ritrovati resti del sarcofago in granito rosa e pochi pezzi del corredo funerario: 34 ushabti, un frammento di bracciale d’oro, amuleti, cofanetti di legno dipinti e un paio di sandali in fibra intrecciata.

La regina Nefertari al cospetto di Osiride: affresco della tomba di Nefertari

La regina Nefertari al cospetto di Osiride: affresco della tomba di Nefertari

Il nome di Nefertari, che visse più di 3500 anni fa, sin dalla scoperta della sua tomba, è stato soffuso da un alone di mistero, forse per il grande amore che le portò il suo sposo Ramses II il quale non seppe consolarsi della perdita della sua regina che morì nel 1255 a.C., sulla quarantina. Di lei venne narrata, nelle numerose iscrizioni e raffigurazioni rinvenute, la straordinaria bellezza e grazia, tanto che alcuni studiosi arrivano persino a stabilirne la parentela con un’altra famosa regina – Nefertiti – asserendo che entrambe erano figlie di Ay, il penultimo faraone della XVIII dinastia. Dal momento delle nozze, Nefertari diventò la compagna inseparabile e senza rivali del re; tutte le testimonianze dimostrano che aveva un ruolo estremamente importante nel regno per la sua intelligenza, la determinazione e la volontà che le permisero di mantenere al fianco del faraone il controllo non solo delle faccende interne, ma anche di quelle internazionali e sacre. Il comportamento di Ramses II nei confronti di Nefertari fu veramente eccezionale: egli giunse a dedicarle un tempio ad Abu Simbel, raro privilegio per una regina, e le costruì la più bella tra le tombe della Valle delle Regine sulla riva del Nilo, di fronte a Luxor, riempendola di oggetti preziosi e facendola decorare con dipinti ispirati agli “incantesimi”, o ai testi sacri del “Libro dei Morti”, per garantirle l’accesso all’eternità.

L'egittologo Ernesto Schiaparelli scoprì la tomba di Nefertari nel 1904

L’egittologo Ernesto Schiaparelli scoprì la tomba di Nefertari nel 1904

Nonostante l’impegno profuso da Ramses II per assicurare l’immortalità di Nefertari, la tomba della sposa venne – come detto – saccheggiata già nell’antichità, tanto che al momento della scoperta, non fu rinvenuta la mummia della regina e si trovarono solo pochi degli oggetti del suo corredo funerario. Non solo, ma molte delle pitture murali andarono danneggiate in seguito alla precedente profanazione; e Schiaparelli stesso constatò che il processo di deterioramento era in atto da tempi antichi, degrado che subì un’accelerazione drammatica dopo l’apertura della tomba da parte dell’archeologo italiano.

Il ritratto di Nefertari prima e dopo i restauri curati da un'equipe di esperti italiani diretta da Laura e Paolo Mora

Il ritratto di Nefertari prima e dopo i restauri curati da un’equipe di esperti italiani diretta da Laura e Paolo Mora per conto del Getty Conservation Institute

Un momento dei delicati restauri del ciclo di affreschi della tomba di Nefertari durati per cinque anni

Un momento dei delicati restauri del ciclo di affreschi della tomba di Nefertari durati per cinque anni

Se italiana fu la sua scoperta, italiano è stato anche il salvataggio della preziosa tomba. Schiaparelli intervenne con un ottimo restauro sui dipinti delle pareti, ma nei decenni successivi l’impiego di cemento per nuovi restauri provocò seri danni. Data questa situazione la tomba non venne aperta al pubblico e solo nel 1987 le autorità egiziane decisero di affidarne il restauro al Getty Conservation Institute che chiamò a operare un gruppetto di restauratori italiani guidato da Laura e Paolo Mora (allora direttore dell’Istituto italiano del restauro) e formato da Franco Adamo, Giorgio Capriotti, Lorenza D’ Alessandro, Adriano Luzzi, Giuseppe Giordano e Paolo Pastorello. Un’ équipe di super specialisti tra i migliori del mondo che hanno lavorato cinque anni per stabilizzare lo strato pittorico sull’intonaco e quest’ultimo sulla roccia calcarea delle pareti. Un delicato intervento fatto con bisturi, pennellini e siringhe con cui iniettare consolidanti sotto lo strato pittorico; nessuna integrazione dei dipinti. Durante il restauro sono emersi particolari che hanno fatto “vedere” gli antichi Egizi al lavoro. Sulle pareti sono state infatti trovate annotazioni degli operai che eseguirono lo scavo della roccia (“scavare fin qui!”) e anche le tracce lasciate dalle cordicelle intrise di colore con le quali i pittori “tirarono le righe” per organizzare gli spazi da dipingere. Inoltre, sui dipinti delle pareti sono stati osservati alcuni schizzi di colore blu (il colore del soffitto) e ciò dimostra che il soffitto venne dipinto dopo che erano state eseguite le pitture delle pareti. Un sistema di procedere, questo, che potrebbe sembrare sbagliato ma che trova invece una spiegazione quando si pensa che gli antichi pittori operavano alla luce delle lampade a olio e quindi con poca luce. Per questo preferirono lasciare il soffitto bianco fino alla fine dei lavori in modo che il suo chiarore integrasse la fioca luce delle lampade. Per realizzare la tomba gli antichi egizi estrassero tonnellate di roccia scendendo fino a una profondità di 812 metri e affrescarono una superficie di circa 520 metri quadrati. Uno sforzo immane per creare un luogo degno della regina e che, nella sua stessa disposizione delle camere e nei soggetti dei dipinti, rappresenta l’itinerario rituale che la defunta percorse per unirsi con le forze cosmiche e raggiungere le Stelle Perenni.