Il film documentario di Doriana Monaco “Agalma”, vita al museo Archeologico nazionale di Napoli, in anteprima nella sala “Notti Veneziane – L’Isola degli Autori” alla 17.ma edizione delle Giornate degli Autori di Venezia 77
“Agalma”, vita al museo Archeologico nazionale di Napoli, film documentario scritto e diretto da Doriana Monaco con le voci di Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni, selezionato alla 17.ma edizione delle Giornate degli Autori di Venezia 77, sarà proiettato in anteprima assoluta mercoledì 9 settembre 2020 alle 21.30 nella sala “Notti Veneziane – L’Isola degli Autori” (via Pietro Buratti 1, Lido di Venezia). Prodotto da Antonella Di Nocera (Parallelo 41 Produzioni) e Lorenzo Cioffi (Ladoc) con il museo Archeologico Nazionale di Napoli diretto da Paolo Giulierini, produzione esecutiva di Lorenzo Cioffi e Armando Andria, con il contributo di Regione Campania e la collaborazione di Film Commission Regione Campania, il film è frutto di tre anni di lavoro sulla quotidianità di uno dei più importanti musei del mondo, che ha aperto le porte alla giovane regista allieva di FilmaP – Atelier di cinema del reale di Ponticelli. “Agalma” è anche un omaggio al classico “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini, oggi più che mai significativo: al centro del racconto c’è il rapporto segreto e sempre nuovo che nasce tra i visitatori e le meraviglie dell’antichità greco-romana, ma anche il respiro appassionato di chi pianifica ogni giorno la vita del museo. Tutto fa emergere il Mann come un grande organismo produttivo, che rivela la sua natura di cantiere materiale e intellettuale. In squadra con la regista, i fonici Filippo Puglia e Rosalia Cecere, il compositore Adriano Tenore, gli aiuti regia Marie Audiffren ed Ennio Donato e per la post produzione la montatrice Enrica Gatto e la colorist Simona Infante. Il film ha ricevuto la menzione speciale al Perso Lab 2019.
Sinossi. Nell’illusoria immobilità del grande edificio borbonico che ospita il Museo Archeologico Nazionale, un vortice di attività offre nuovo respiro a statue, affreschi, mosaici e reperti di varia natura. Il film osserva ciò che accade ogni giorno negli ambienti del museo, soffermandosi sulla quotidianità dei lavoratori, alle prese con interventi delicatissimi che necessitano di cura e tempo, e manutenzione costante. Le opere che vivono e vibrano da secoli sono monitorate come corpi viventi. Tutto ciò accade mentre giungono visitatori da ogni parte del mondo, popolando le numerose sale espositive sotto l’occhio apparentemente impassibile delle opere che sono protagoniste e spettatrici a loro volta del grande lavorio umano. Tutto fa emergere il museo come grande organismo produttivo, che rivela la sua natura di cantiere materiale e intellettuale. Agalma (dal greco “statua”, “immagine”) coglie la bellezza del Museo non solo nell’evidenza dei suoi incantevoli tesori di arte classica, ma anche nelle relazioni intime e invisibili che si realizzano al suo interno.
Note di regia. “Prima di varcare la soglia del museo Archeologico”, scrive la regista Doriana Monaco, “avevo individuato come centro della mia ricerca la natura frammentaria delle opere classiche e, di conseguenza, del mondo antico. Il film nasceva con l’intento di avvicinarmi il più possibile a quel mondo e a quelle opere, ponendo l’accento sul fatto che si trattasse per lo più di reperti “riemersi in superficie”, quasi mai integri, che nel corso dei secoli hanno subito continue metamorfosi fisiche e interpretative anche attraverso l’azione del restauro. Il punto di partenza è stato dunque rendere visibili questi frammenti su corpi di statue, ceramiche, affreschi e mosaici. Superfici irregolari, crepe, corrosioni, pezzi mancanti sono diventati segni specifici della narrazione. Con mia sorpresa quando sono approdata al museo lo scenario era tutt’altro che immobile, in virtù dei numerosi cambiamenti in corso che mi hanno catapultato in un universo dinamico. Seguire la vita del museo per quasi tre anni mi ha dato l’opportunità di scoprire un universo altrimenti inaccessibile – penso al mondo sommerso dei depositi – e filmare momenti memorabili come lo spostamento della scultura dell’Atlante Farnese, il ritorno della statua di Zeus dal Getty Museum o l’allestimento della mostra sulla Magna Grecia nelle sale con i pavimenti costituiti dai mosaici di Pompei”. E continua: “L’archeologia come materia viva, dunque, ecco uno dei temi del film. La necessità era quella di trovare una chiave che sovrapponesse lo sguardo archeologico a quello cinematografico, depurandolo dall’elemento divulgativo che spesso accompagna i documentari archeologici per affidare il più possibile il racconto a trame visive. Un’altra traccia di riferimento è stata un fotogramma del film Viaggio in Italia di Roberto Rossellini in cui la protagonista Katherine, interpretata da Ingrid Bergman, si ritrova al cospetto della scultura colossale dell’Ercole Farnese. La visita di Katherine/Bergman all’interno del museo Archeologico avviene, per usare le parole di Giuliana Bruno nel suo Atlante delle emozioni, “attraverso un contatto viscerale, quasi fisico, con sculture che arrivano a turbare il suo animo”. A quello sguardo ho affidato il simbolo del percorso di scoperta e iniziazione. Ed è in qualche modo ciò che vorrei che lo spettatore provasse entrando in relazione con questi oggetti tramite “uno sguardo che si fa contatto”, vederli il più vicino possibile. Un’ulteriore stratificazione è conferita dal testo in voice over che attraversa il film, costruito sul racconto in prima persona di alcune opere del museo, letto da Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni. Nel mondo antico era consuetudine che le statue recassero iscrizioni in prima persona, di modo che fosse l’opera stessa a dire da chi era stata realizzata e per quale ragione. Ho mutuato così il linguaggio archeologico della descrizione dell’opera rielaborandolo a favore del racconto. Zeus ci parla di un ritrovamento, Atlante di una metamorfosi, Hermes della sua condizione di frammento, le danzatrici del mito che si mette in scena, mentre i Tirannicidi sono spettatori a loro volta delle vicissitudini umane che si agitano nel museo. Agalma è la relazione tra l’opera e chi la osserva e ne è osservato. Lo sguardo della statua diviene luogo di possibilità interpretative, punti di vista e nuove visioni che si riflettono nello sguardo del visitatore a sua volta intercettato dal cineocchio, rievocando il ruolo performativo che la cultura greco-romana riconosceva alle immagini”.

Il ministro Franceschini, il generale della Guardia di Finanza Carrarini e il direttore Giulierini applaudono il ritorno in Italia dello “Zeus in trono”
Le opere ci parlano. Zeus in trono. La statua risale al I secolo a.C. e rappresenta l’iconografia classica del dio greco. Proviene probabilmente dalle acque del golfo flegreo. Un lato è ricoperto da incrostazioni marine, l’altro lato è liscio, si ipotizza seppellito nella sabbia. Dal 1992 al 2017, dopo essere finita in un giro di ricettatori, è stata esposta al Getty Museum di Los Angeles. Nel 2012, in seguito all’analisi di un frammento di marmo ritrovato a Bacoli, si è accertata la corrispondenza con lo spigolo del bracciolo del trono di Zeus. La statua ha fatto ritorno nel giugno 2017 al Museo Archeologico Nazionale di Napoli per poi trovare la sua dimora definitiva al Castello di Baia.
Atlante Farnese. La statua, in marmo, raffigura il titano Atlante che sorregge sulle spalle con estrema fatica la sfera celeste, sulla quale sono rappresentate le costellazioni. Rinvenuta nelle terme di Caracalla, a Roma, intorno al 1546, non si conosce il suo autore ma si sa che è una copia romana di un originale greco databile attorno al II sec. d.C. La statua, per un breve periodo esposta nell’atrio centrale del museo, si trova ora nella Sala della Meridiana. Il film ne ha seguito il delicato spostamento.

Hermes, busto in terracotta, nella collezione Magna Grecia al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto Mann)
Hermes. Il busto maschile di terracotta è parte del nuovo allestimento permanente dedicato alla Magna Grecia. Fa parte dei reperti ritrovati a Canosa di Puglia ed era molto probabilmente di destinazione funebre. Le ali presenti sul copricapo fanno pensare che si tratti di Hermes, il messaggero delle divinità.

Una lastra della Tomba delle Danzatrici scoperta a Ruvo di Puglia, oggi nella collezione Magna Grecia del museo Archeologico nazionale di Napoli (foto Graziano Tavan)
Le Danzatrici. Il 15 novembre 1833 fu scoperta a Ruvo di Puglia una tomba, detta delle Danzatrici per il soggetto della sua decorazione pittorica. Cinque anni dopo la scoperta, le lastre furono staccate dalle pareti della tomba e vendute al Real Museo Borbonico. La rappresentazione del corteo delle danzatrici che incedono con le braccia intrecciate rievoca la danza rituale presente nel mito di Teseo che assume, in ambito funerario, la funzione simbolica di evocare il “passaggio di stato” dalla vita alla morte.

Il gruppo dei Tirannicidi nella collezione Farnese del museo Archeologico nazionale di Napoli (foto Graziano Tavan)
I Tirannicidi. Le due sculture in marmo, parte della collezione Farnese, furono rinvenute nella Villa Adriana e giunsero a Napoli nel 1790. Si tratta di una delle tante copie romane realizzate nel ll secolo a.C. degli originali greci in bronzo. Rappresentano Armodio e Aristogitone che liberarono Atene dalla tirannide diventando così i simboli della democrazia ateniese. Si tratta delle prime due sculture della storia dell’arte arte greca che rappresentano personaggi realmente esisti.
Paestum. Nel cinquantennale dell’eccezionale scoperta, la Tomba del Tuffatore, unica testimonianza della pittura greca a grandi dimensioni, non vascolare, prima del IV sec. a.C., la mostra “L’immagine invisibile. Dalla Magna Grecia a De Chirico” spiega perché quella figura continua a far discutere gli esperti e a influenzare gli artisti contemporanei

Le lastre della straordinaria Tomba del Tuffatore (480-470 a.C.) esposte nelle sale del museo Archeologico nazionale di Paestum

Il manifesto della mostra “L’immagine invisibile. Dalla Magna Grecia a De Chirico” al museo Archeologico nazionale di Paestum
Estate 1968. In località Tempa del Prete, un paio di chilometri a Sud di Paestum, durante lo scavo di una piccola necropoli di VI-IV sec. a.C., l’allora soprintendente archeologo Mario Napoli fece uan scoperta straordinaria, se pur “fortuita” – come lui stesso ammise-: la Tomba del Tuffatore (480-470 a.C.): unica testimonianza della pittura greca a grandi dimensioni, non vascolare, prima del IV sec. a.C. È passato mezzo secolo da quella straordinaria scoperta, e la Tomba del Tuffatore sta ancora al centro di un dibattito scientifico molto controverso e acceso. L’interpretazione dell’immagine del giovane che si tuffa nell’acqua rimane un rompicapo che fa discutere anche gli esperti del settore: è semplicemente una visione edonistica della vita e della morte? O qualcosa di più, forse un messaggio misterico, ispirato a culti iniziatici legati ad Orfeo e Dioniso? E le difficoltà nella lettura dell’immagine del Tuffatore si spiegano forse con il fatto che essa era “invisibile”, in quanto collocata all’interno di una tomba buia, chiusa per l’eternità? Insomma, possiamo pretendere di leggere e comprendere un’immagine che non era fatta per essere guardata?
Una risposta ha tentato di darla Gabriel Zuchtriegel, direttore del parco archeologico di Paestum, promuovendo, appunto nel cinquantennale della scoperta, una mostra che, attraverso circa 50 opere provenienti da vari musei e biblioteche, racconta 300 anni di scoperte archeologiche e riletture dell’antico che spiegano perché, oggi come oggi, la Tomba del Tuffatore non si spiega. Ecco dunque la mostra “L’immagine invisibile. Dalla Magna Grecia a De Chirico”, aperta fino al 7 ottobre 2018 al museo Archeologico nazionale di Paestum. La mostra a Paestum non pretende di risolvere tutte queste questioni. Per questo, non è una mostra tradizionale che vuole dare risposte, ma piuttosto una “anti-mostra” che vuole porre delle domande, mettendo i visitatori nella condizione di partecipare al dibattito e di coglierne i motivi.

Dall’antico al contemporaneo alla mostra “L’immagine invisibile” al museo Archeologico nazionale di Paestum
Il percorso segue le scoperte archeologiche che sin dal Settecento hanno segnato la ricerca sui culti misterici antichi, con tanto di fraintendimenti e impostazioni ideologiche. Lo fa mettendo in mostra alcune delle scoperte più clamorose sul tema in Magna Grecia, come le laminette d’oro con testi “orfici” da Thurii e Vibo Valentia, la tomba delle danzatrici da Ruvo, conservata al museo Archeologico di Napoli, o i vasi funebri con raffigurazioni di Orfeo da Matera, Paestum e Napoli. Ma lo fa anche esplorando il contesto storico-culturale in cui queste scoperte sono avvenute. Dalle visioni edonistiche settecentesche del mondo di Bacco si passa alle danzatrici caste e al tempo stesso sensuali di Canova per arrivare alle visioni novecentesche, altamente ambigue, di Corrado Cagli e De Chirico. “Solo attraverso questo racconto del contemporaneo”, spiegano i curatori, “si riesce a comprendere pienamente le motivazioni di una controversia che forse più degli antichi riguarda noi oggi. E che ha fatto sì che nel momento della scoperta della Tomba del Tuffatore, questa abbia suscitato non solo una controversia scientifica molto accesa, ma abbia anche ispirato, più che ogni altra immagine antica, scrittori e artisti contemporanei – tra i primi, l’artista salernitano Carlo Alfano, la cui opera “Il Tuffatore”, allestita vis-à-vis con la Tomba del Tuffatore nel museo di Paestum, viene rivalorizzata nell’occasione della mostra, quale espressione esemplare del rapporto tra presente e passato”.
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