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Forlì. La mostra ”Ulisse. L’arte e il mito” è candidata alla settima edizione del Global Fine Art Awards (GFAA) in competizione con le esposizioni di British, Paul Getty, Metropolitan. A una settimana dalla chiusura ripercorriamo il viaggio di Ulisse dall’Odissea ai nostri giorni

La presentazione delle mostre in nomination nella sezione “Best ancient” del premio GFAA con “Ulisse. L’arte e il mito” di Forlì

La mostra ”Ulisse. L’arte e il mito” è candidata alla settima edizione del Global Fine Art Awards (GFAA). L’annuncio della nomination è arrivato nella serata del 18 ottobre 2020 in diretta Facebook da Parigi e New York, durante la quale sono stati presentati i 118 eventi artistici selezionati in rappresentanza di 6 continenti, 31 paesi e 68 città di tutto il mondo (vedi il video dell’annuncio https://www.facebook.com/watch/?v=790005045109144). L’esposizione forlivese, allestita fino al 31 ottobre 2020 ai musei San Domenico di Forlì, a cura della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, è stata nominata nella categoria ”Best Ancient”, al pari del British Museum di Londra (“Troy: Myth and reality”), del J. Paul Getty Museum di Los Angeles (“Mesopotamia: Civilization Begins”), del Metropolitan Museum di New York (“Crossroads”), del Museu d’Arqueologia de Catalunya di Barcellona (“Art primer. Artistes de la prehistoria”) e del Louvre di Abu Dhabi (“Furusiyya: The Art of Chivalry between East and West”), anch’essi in corsa per la stessa sezione. Il Global Fine Art Awards è il concorso internazionale d’arte che dal 2014 premia le mostre e le rassegne culturali più innovative e rilevanti dell’anno, attraverso una giuria internazionale di curatori e storici dell’arte. Il principio e l’obiettivo del programma GFAA è quello di sviluppare interesse e passione per le belle arti e di promuoverne il ruolo educativo nella società.

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La locandina della mostra “Ulisse. L’arte e il mito” a Forlì dal 19 maggio al 31 ottobre 2020

Ancora una settimana per visitare la mostra “Ulisse. L’arte e il mito” che chiude il 31 ottobre 2020 (e data la grande affluenza di pubblico, l’ultimo giorno la mostra sarà visitabile fino alle 23). Per chi non ce la farà ad andare a Forlì, e per chi – pur avendola vista – vuole ripercorrerla idealmente, ecco una piccola visita guidata nelle diverse sezioni in cui si articola l’esposizione forlivese: un grande viaggio dell’arte, non solo nell’arte. Una grande storia che gli artisti hanno raccontato in meravigliose opere. La mostra narra un itinerario senza precedenti, attraverso capolavori di ogni tempo: dall’antichità al Novecento, dal Medioevo al Rinascimento, dal naturalismo al neo-classicismo, dal Romanticismo al Simbolismo, fino alla Film art contemporanea. Il protagonista dell’Odissea è il più antico e il più moderno personaggio della letteratura occidentale. Egli getta un’ombra lunga sull’immaginario dell’uomo, in ogni tempo. L’arte ne ha espresso e reinterpretato costantemente il mito. Raccontare di Ulisse ha significato raccontare di sé, da ogni riva del tempo e raccontarlo utilizzando i propri alfabeti simbolici, la propria forma artistica, attribuendogli il significato del momento storico e del proprio sistema di valori.

Sezione: L’antefatto. Il Concilio degli dei. Troia è distrutta. Dopo dieci anni di guerra si cantano i nòstoi (i ritorni) degli eroi greci superstiti. Ogni re, ogni principe salpa con i suoi soldati verso il ritorno. L’Odissea è l’unico poema del ciclo dei ritorni che rimane. E conserva al suo interno le tracce di altri racconti. Nestore racconta a Telemaco, giunto a Pilo alla ricerca di notizie del padre, da dieci anni disperso, degli eroi cui gli dei e la guerra negarono il ritorno. Giacciono sulla piana di Troia Achille, Aiace, Patroclo, Antiloco. Felice ritorno hanno fatto Idomeneo, Filottete, Neottolemo (figlio di Achille), Menelao con Elena, sua sposa. Tragico il ritorno di Agamennone, ucciso nella casa da Clitennestra, sua sposa, e dal rivale Egisto. Di Ulisse (Odisseo) non si sa. La sua fama di distruttore di Troia è giunta ovunque. Egli è ripartito. È disperso. “Un dolce ritorno tu cerchi, glorioso Odisseo; amaro invece te lo farà un Dio”. Così gli ha profetizzato l’indovino Tiresia nell’Ade. Dopo l’ultimo naufragio, perduti tutti i compagni, Ulisse è da lungo tempo nell’isola di Ogigia, trattenuto dall’amore della ninfa Calipso. Atena, al Concilio degli dei, implora Zeus di farlo tornare, poiché il suo cuore piange il ritorno e la casa. Del Concilio degli dei si dice due volte nell’Odissea, all’avvio del libro primo e del quinto. Il dibattito attiene in primo luogo alla questio se sia lecito attribuire agli dei il destino nefasto degli uomini o se essi, protagonisti fondamentali del loro destino, non attribuiscano alla volontà degli dei una sventura colpevole. L’esempio è quello della sorte di Agamennone. Ma Atena solleva la causa di Ulisse e del suo ritorno. In quella terra incognita che è il mito si incontrano uomini e dei.

Il Concilio degli dei, oggi al castello di Praga, realizzato da Rubens per i Gonzaga, apre la mostra “Ulisse. L’arte e il mito” (foto Graziano Tavan)

L’arte si è occupata fin dall’antico del tema, sia in riferimento all’episodio omerico, sia come illustrazione delle principali divinità dell’Olimpo. L’occasione della mostra forlivese ha così consentito di mostrare alcuni capolavori tra le sculture dell’antichità: dall’Atena partenopea (copia romana da un originale greco del V secolo a.C.), raffigurata con l’elmo in testa e l’egida sul petto con gorgoneion centrale; alla Venere di Venafro; al Marte e alla Demetra in marmo nero (oggi agli Uffizi), copia romana di stupenda fattura di età imperiale; alla Era dei Capitolini; alla Venere callipigia del museo Archeologico di Napoli. E di particolare pregio è il Dodekatheon. Si tratta di un’ara circolare raffigurante le dodici divinità racchiuse tra due kymation. L’opera del I sec. a.C. è derivata da un originale di Prassitele. Dialoga con queste opere dell’antico la grande tela, realizzata da Rubens nei primi anni del soggiorno mantovano, presso la corte di Vincenzo I Gonzaga (oggi al castello di Praga). Rubens rielabora il Concilio degli dei dipinto da Raffaello sulla volta della loggia di Psiche a villa Farnesina.

Sezione: la nave e il viaggio. I Greci furono dei grandi viaggiatori, tutta la loro vita è proiettata sul mare, e Ulisse nell’immaginario collettivo di tradizione umanistica, incarna il viaggiatore per eccellenza. La sua peregrinazione è tutta sul mare. Quando lascia l’isola di Calipso lo fa su una zattera che costruisce lui stesso. E naviga seguendo in mare le vie indicategli dagli astri. Le fonti storiche e archeologiche per la ricostruzione degli aspetti e delle conquiste compiute dall’ars nautica nell’antichità non sono poche; e tuttavia, il loro reperimento è privo di sistematicità. Non disponendo per la nautica antica di un trattato tecnico al pari di quelli per l’agricoltura (Varrone e Columella) e per l’architettura (Vitruvio). I relitti – una parte irrisoria rispetto alle imbarcazioni realizzate – ne sono la fonte privilegiata. La Sicilia, per la sua posizione privilegiata, fu partecipe sin dalla preistoria delle principali rotte che attraversano il Mediterraneo. Le fonti letterarie, a partire da Omero, tramandano di figure mitologiche che segnano le tappe di questi primi viaggi pioneristici nel continente nesiotico siceliota: dai ciclopi ai Lestrigoni, a Eracle, a Minosse in cerca della reggia di Cocalo sulle tracce di Dedalo…

La nave greca arcaica di Gela, eccezionale reperto, tra i più antichi, qui in mostra per la prima volta grazie alla generosa collaborazione della Regione Siciliana, attesta sia l’intensità politico- commerciale dei rapporti, sia la qualità tecnica di realizzazione di una imbarcazione di 17 metri. Se i relitti rinvenuti nelle acque di Lilibeo (la nave punica e quella romana di Marausa di cui in mostra sono esposti i rostra), Camarina e Gela forniscono puntuali indicazioni circa i carichi e, quindi, i commerci e le rotte e la vita di bordo.

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Omero tipo “cieco ellenistico”, busto del II sec. d.C., conservato ai musei Capitolini di Roma (foto Graziano Tavan)

Sezione: Omero e l’elaborazione del mito nell’antichità. Sin dal primo verso dell’Odissea Ulisse è definito polytropos, cioè versatile. La sua figura sfugge a quella ristretta casistica di virtù guerriere nella quale sono incasellati tutti gli eroi greci venuti a combattere sotto le mura di Troia. Anche il suo fisico, minuto, ma imponente e largo di spalle, sembra rispecchiare il carattere contraddittorio di un uomo goffo e incerto nell’andare che però “quando faceva uscire dal petto la voce profonda / e le parole come fiocchi di neve d’inverno” (Il., 3, 221-223) non era secondo a nessuno. Ulisse sa essere un guerriero forte sul campo di battaglia, ma al suo carattere sono di gran lunga più congeniali le azioni compiute in notturna insieme a Diomede, come, ad esempio, il ratto del palladio. Il suo ruolo diventa indispensabile solo nel caso di ambasciate, riconciliazioni e mediazioni, occasioni nelle quali all’Ulisse aristocratico si sostituiva l’Ulisse politico che, nell’arte retorica, aveva la sua arma migliore. Se restituire in immagini le gesta di un guerriero è un’impresa relativamente facile, fare lo stesso con un eroe signore degli inganni e dell’arte della parola è assai più complesso. Non fu un caso che la prima impresa del re di Itaca a essere rappresentata nell’arte greca sia stata l’accecamento del ciclope. Seconda, in termini cronologici e di diffusione, fu la fuga di Ulisse e dei compagni legati sotto il vello degli arieti di Polifemo. La produzione ceramica attica a figure nere e rosse del VI e V secolo a.C. dette vita, infatti, a una produzione seriale di vasi ornati con questo motivo. Nella tradizione pittorica arcaica tanto l’episodio del ciclope che quello della fuga dall’antro sono un’azione corale nella quale la figura di Ulisse non è riconoscibile con certezza. Sarà, infatti, solo nella prima metà del V secolo a.C. che comincerà a definirsi un’iconografia di Ulisse costruita con attributi e caratteristiche fisionomiche ricorrenti: un aspetto maturo e barbato, una capigliatura mossa da riccioli, in testa un pileo, il berretto usato dai marinai e viaggiatori, e, come veste, l’exomide, una semplice tunica corta.

Sezione: la ripresa dei modelli antichi e l’eredità romana. La fortuna di Ulisse e del suo mito nella cultura romana coincide con la nascita stessa della letteratura latina. Il primo poema epico latino di cui si abbia notizia certa è infatti l’Odusia di Livio Andronico. Perché, sul finire del III secolo a.C., questo tarantino naturalizzato romano, abbia deciso di realizzare una traduzione d’autore proprio delle vicende di Ulisse, non è semplice spiegarlo. Forse una società come quella romana di quegli anni, in piena espansione commerciale e militare nel Mediterraneo centrale e orientale, era istintivamente propensa a identificarsi con un eroe che quelle terre e quei mari aveva attraversato affrontando ogni genere di pericoli e sfide. Sarà soprattutto l’episodio di Polifemo a suggestionare gli artisti che, forse già in età tardo-ellenistica, dettero vita a un modello figurativo destinato a influenzare profondamente il gusto di età successiva. Ad esempio, nella villa di Sperlonga, buen retiro dell’imperatore Tiberio, l’accecamento del ciclope era parte di una vera e propria antologia in scultura delle imprese di Ulisse, di cui faceva parte il gruppo detto del Pasquino, in questo contesto interpretato come Ulisse con il corpo di Achille, il ratto del palladio e la lotta dell’eroe contro i mostri marini Scilla e Cariddi. Il re di Itaca fu il primo motore di quella concatenazione dei tragici eventi troiani (i fatalia troiana) grazie ai quali Enea fu costretto ad abbandonare la sua patria e a dar inizio a quella stirpe Iulia di cui Tiberio era membro adottivo. Nella figura dell’imperatore sembravano confluire due destini strettamente legati fin dalla notte dei tempi: quello di Ulisse, il cui figlio Telegono avrebbe appunto fondato la città d’origine della gens claudia, e quello di Enea, ai cui discendenti era stato affidato lo scettro di Roma.

Sezione: le sirene del Medioevo. Cosa cantano le sirene? E come sono? Omero non lo dice. Né lo dice, l’altra grande tradizione, quella ebraica, Isaia: “Le sirene e i demoni staranno in Babilonia” (Is 13,21). Per i Greci erano donne-uccello. Donne seducenti con zampe e code d’uccello. Così sono raffigurate nell’antichità. L’analogia con gli uccelli deriva forse dalla melodia del canto. Nella mitologia, esse sono il risultato di una metamorfosi punitiva occorsa alle ninfe, distratte giovani ancelle, che vegliavano su Persefone il giorno che Plutone la rapì. Di certo, da Omero in poi esse cantano la morte. Una precisa menzione delle donne-pesce la troviamo nel Liber monstrorum de diversis generibus, un repertorio mitografico composto tra il VII e l’VIII secolo d.C., forse da Aldelmo di Malmesbury: donne-pesce bellissime che seducono i marinai. Molti bestiari si sono incaricati di tramandarne il mito: dal Physiologus alessandrino del II secolo d.C., a quello latino, appena successivo al Liber monstrorum, al Bestiaire di Gervaise, al Bestiaire d’Amours, fino ai componimenti di Brunetto Latini e Cecco d’Ascoli. Siamo nella visione medievale. Seduzione sessuale e minaccia mortale. Nell’arte romanica sono riprodotte ovunque, dai capitelli delle chiese, ai bassorilievi, ai mosaici, ai sarcofagi. Di solito sono bicaudate. I capelli sciolti, con la doppia coda aperta, alzata ai lati del corpo, in un atteggiamento sensuale. Di quella secolare visione del fantastico e del mostruoso che minaccia gli uomini si fa carico ancora Dante, che nel XIX canto del Purgatorio (vv. 19-24) ne mantiene la simbologia: “‘Io son’, cantava, ‘io son dolce serena / che’ marinai in mezzo mar dismago; / tanto son di piacere a sentir piena! / Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio; e qual meco s’aùsa, / rado sen parte; sì tutto l’appago”.

Sezione: Dante, Inferno – XXVI Canto. Dante, che scrive duemila anni dopo il cosiddetto Omero, non usa direttamente la tradizione greca, ma quella latina (Cicerone, Stazio, Virgilio, Orazio, Ovidio), che a differenza dei post-omerici ha rivalutato le qualità umane di Ulisse. Nel canto XXVI dell’Inferno, Dante può conferire per questo a Ulisse una nuova e diversa centralità. Fino a sovrapporre il suo Ulisse a quello di Omero. Il suo Ulisse non appartiene più al ciclo dei nostoi, dei ritorni da Troia. Egli è semmai una figura aperta al nuovo mondo. Il suo protagonista non è spinto dalla nostalgia del ritorno, né, come l’Enea virgiliano, da una missione; egli è un viandante, spinto dall’ardore “a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”, e si lancia “per l’alto mare aperto”, verso il “folle volo”. Storia potente e controversa la versione dantesca di Ulisse, nella quale i due destini (Dante e Ulisse) si incontrano e si sovrappongono, poiché anche la Commedia è un viaggio – che coinvolge la visione cristiana del destino dell’uomo proprio nel confronto con l’etica antica. L’influsso di Dante e del suo Ulisse sull’arte è strettamente legato alla realizzazione dei cicli illustrati (tra manoscritti e prime edizioni a stampa) della Commedia. È inizialmente un interesse testuale, legato al corredo illustrativo, ma col passare del tempo si fa interpretativo. I capolavori illustrativi di Mariotto di Nardo e Guglielmo Giraldi della Biblioteca Apostolica Vaticana, o il Miniatore della Marciana, fino al Dante istoriato e illustrato di Botticelli e poi di Zuccari, segnano un influsso che autonomamente la pittura si incaricherà dapprima di accompagnare e in seguito, soprattutto nell’Ottocento (il vero secolo di Dante nell’arte), di sviluppare autonomamente, facendo vivere i singoli personaggi di storia propria, in una vicenda quasi staccata dal poema dantesco.

Il Trionfo della Castità, dipinto quattrocentesco su tela incollata su tavola, di Liberale da Verona, conservato al museo di Castelvecchio di Verona (foto Graziano Tavan)

Sezione: la visione moralizzata del Quattrocento. Nella vastità degli intrecci culturali e delle stratificazioni simboliche che l’arte e la cultura di ogni tempo hanno legato alla figura iconica di Ulisse, non si potevano non mostrare le narrazioni omeriche dipinte sui cassoni del Quattrocento. Essi appartengono in molta parte ancora al gusto di una letteratura tardo-gotica ed epi-cocortese, assai prossima ai poemi cavallereschi destinati a una fruizione d’evasione, e intenti a celebrare eventi nuziali di ricche famiglie mercantili (si tratta infatti per lo più di cassoni dotali), menzionati dallo stesso Huizinga nel suo Autunno del Medioevo. Se il Medioevo sedimenta nel Cristianesimo quella cultura di imitazione dei modelli classici, quali archetipi già avviati dalla letteratura e dall’arte della tarda latinità pagana, il Quattrocento porta a compimento un percorso integrativo e rinnovativo dei medesimi. Qui le storie di Ulisse, la figura di Penelope, la partenza e il ritorno dalla guerra di Troia, l’attesa fedele della sposa assurgono a modelli di una vicenda che è proposta, a un tempo, come familiare e sociale: la virtù d’amore e le responsabilità civiche, assieme.

Il giudizio di Paride e il Ratto di Elena nei due olii su tavola cinquecenteschi di Lambert Sustris conservati nel Musei Reali di Torino (foto Graziano Tavan)

Sezione: la virtù del Principe. Ulisse e l’ideale rinascimentale. Nella variegata tradizione interpretativa che i secoli hanno costruito intorno alla figura di Ulisse, l’arte nel Cinquecento – confortata dalla ripresa della lettura diretta di Omero, dal riaccostarsi alle fonti latine (Ovidio sopra tutti), dal permanere dell’esegesi dantesca e dalla stagione porfiriana del neoplatonismo – ne riscopre la figura come allegoria morale e politica. La sua odissea è una vasta prova che insegna a evitare il vizio e conduce alla virtù. Se il debito con la letteratura, quella antica e i revival contemporanei, rimane, gli artisti vedono in Ulisse, così come in Ercole, un simbolo affine alla loro arte: quello della faticosa ricerca della verità. La sapienza, la prudenza, l’astuzia vengo assurte a virtù generali, ma sono i tratti ideali della formazione del principe e del suo operare, in una corrispondenza inedita. Francesco I ed Enrico II di Francia, Cosimo de’ Medici, Ercole II d’Este e i Farnese, scienziati come l’Aldrovandi o cardinali come il Poggi: tutti si rispecchiano nel mito di Ulisse. Mitografia classica e mitologizzazione del proprio destino. Le storie di Ulisse divengono veri e propri programmi iconografici nelle realizzazioni di cicli pittorici delle loro dimore.

Laocoonte a confronto nella mostra di Folrì: davanti quello di Vincenzo De Rossi che si ispira al gruppo scultoreo del I sec. d.C. (qui un calco in gesso dell’originale ai Musei Vaticani) ritrovato a Roma nel

All’avvio del secolo, il ritrovamento a Roma (1506) del gruppo del Laocoonte – copia in marmo di un originale ellenistico in bronzo del 140 a.C., voluta da Tiberio prima del 31 d.C., legato al mito di Ulisse e all’inganno del cavallo, alla distruzione di Troia e alla nascita di Roma – rivoluzionerà le forme della scultura e influenzerà profondamente la pittura successiva. Il confronto tra il calco vaticano e l’opera di Vincenzo De Rossi, i disegni di Filippino Lippi e di Parmigianino ci portano a intendere la profondità che in alcuni passaggi storici ha avuto il rapporto tra l’arte e il mito ulissiaco. In questo caso la fortuna iconografica e l’ispirazione formale attraversano i secoli fino a percorrere il Novecento. Ma oltre alla rivoluzione formale che esso innesca (le versioni nuove di Bandinelli e De Rossi, il calco in bronzo di Primaticcio per Fontainebleau), il gruppo vaticano attesta anche il legame diretto col passato, in particolare attraverso i suoi autori – Atanadoro, Agesandro e Polidoro di Rodi –, che furono anche gli autori delle sculture del gruppo di Scilla della grotta di Tiberio a Sperlonga, presente in mostra con il volto di Ulisse.

La sala nella mostra “Ulisse. L’arte e il mito” dedicata al mito di Ulisse nell’arte del Seicento (foto Graziano Tavan)

Sezione: umane passioni e natura ideale nel mito seicentesco. Con il passaggio dal Cinquecento al Seicento e alla temperie barocca l’interesse per i testi omerici crebbe notevolmente, in particolar modo per l’Odissea e i suoi protagonisti. Anche sulla scorta della fortuna della moderna epica cavalleresca dell’Orlando furioso e della Gerusalemme liberata, le trame avvincenti del viaggio di Ulisse tornarono a sollecitare fortemente l’immaginazione degli artisti. Come nella pittura da cavalletto, anche nell’affresco le vicende dell’Odissea trovarono un certo successo. Nella grande decorazione l’atto d’inizio di questa moda rinnovata, al passaggio dal vecchio al nuovo secolo, è rappresentato dagli affreschi del camerino di palazzo Farnese a Roma, realizzati da Annibale Carracci tra 1595 e 1597 per volere del cardinale Odoardo. Nelle intenzioni di Fulvio Orsini, bibliotecario di casa Farnese artefice del programma iconografico, le due lunette dedicate a Ulisse (al suo incontro con le sirene e con Circe) si intrecciavano al tema di Ercole in una fitta rete di rimandi allegorici che alludevano alle virtù del committente. Sulla scorta dei Carracci e del camerino Farnese le Storie di Ulisse furono affrescate anche in terra emiliana, dal Guercino in casa Pannini a Cento. I temi ulissiaci riscontrarono molta popolarità anche nel mondo fiammingo. Nelle Fiandre fu Pietro Paolo Rubens a inaugurare la mania di Ulisse con una serie di dipinti a soggetto omerico, tra cui l’Ulisse nell’isola dei Feaci. Ripercorrendo la fortuna dell’Odissea nel corso del Seicento si resta però davvero colpiti dalla quantità di opere che hanno trattato la figura di Circe. È come se il secolo delle scienze – il secolo di Galileo – avesse paradossalmente riscoperto il potere avvincente, misterioso e iniziatico del mondo della magia.

Sezione: dei ed eroi. le forme neoclassiche del mito. Il Parnaso, affrescato nel 1761 da Mengs su una volta di villa Albani a Roma, è considerato il manifesto del Neoclassicismo sia per il suo programmatico rigore formale, ispirato all’antico, nell’evidente ripresa dell’Apollo del Belvedere, sia perché la celebrazione delle Muse appare come l’invito a esplorare con un nuovo impegno morale i territori del mito e della storia in polemica con il disimpegno della pittura Rococò. I poemi omerici hanno rappresentato una inesauribile fonte di ispirazione per lo stile, la forza e la nobiltà dei loro contenuti. Ancora prima della diffusione della riforma neoclassica, un artista che la ha anticipata come Batoni ha esaltato, rappresentandone la fuga da Troia, la pietà filiale di Enea che porta in salvo il padre. Rispetto ai tradizionali temi dell’Odissea emergono quelli relativi al recupero dei legami familiari con il ritorno di Ulisse a Itaca. Un grande rilievo assumono le vicende di Telemaco. Rispetto alle peripezie del viaggio, relative a personaggi antagonisti come Circe che viene progressivamente a perdere dell’interesse goduto nei secoli precedenti, prevale il faticoso travaglio anche morale del ritorno a Itaca. Ma a questo punto entra in scena la figura di Penelope, che, individuata come esempio di fedeltà e virtù, diventa la “deuteragonista”. Pure la commovente vicenda della nutrice Euriclea che riconosce il padrone ha conosciuto una certa fortuna. Ma a questo Neoclassicismo sentimentale, basato sull’esaltazione degli affetti familiari attraverso un registro formale caratterizzato dalla grazia, si contrappone quella ricerca del sublime. I personaggi e le vicende dell’Odissea diventano occasione per esplorare i territori dell’irrazionale, specchio di un’umanità tormentata che si interroga sul proprio destino come nell’episodio privilegiato di Ulisse nell’Ade che chiede a Tiresia il suo futuro. Un altro grande interprete del mondo omerico è stato Hayez, quando ha rappresentato l’atroce ed eroica fine di Laocoonte o di Ajace, o quando ha preferito rendere la commozione di Ulisse alla narrazione di Demodoco sulla guerra di Troia.

La Sirena, olio su tela (1900) di John William Waterhouse conservata alla Royal Academy of Arts di LOndra (foto Graziano Tavan)

Sezione: il canto delle sirene. seduzione e morte. Nel mondo simbolista le sirene per metà donna e per metà pesce – una evoluzione dell’originario ibrido donna-uccello della Grecia antica – divennero le figure più popolari di una serie di creature femminili marine (nereidi, ondine, oceanine) in cui l’arretramento verso l’elemento acquatico rispondeva al nostalgico desiderio di una simbiosi totale tra l’uomo, liberato dalle costrizioni borghesi, e una natura rigeneratrice e immemorabile, ancorata ai miti semplici delle origini. Era poi nell’acqua, in cui Freud avrebbe visto una metafora dell’inconscio, che l’estetica simbolista individuava l’elemento in cui potevano concentrarsi traslati allegorici profondi, in bilico tra la vita e la morte. C’è un altro aspetto da considerare. Svincolate dalle trame narrative del mito, isolate in contesti enigmatici, alle soglie della modernità le sirene pisciformi, ma anche gli altri ibridi marini femminili, si fecero portatrici della multiforme complessità di un nuovo universo femminile in cui coesistevano il desiderio sessuale, la potenza dell’eros, la seduzione ingannevole, l’attrazione e la repulsione, l’elemento materno, la fierezza – talvolta crudele – della donna moderna, in grado di amare con libertà e consapevolezza e di soggiogare l’uomo.

Calypso, marmo del 1853 di Célestin-Anatole Calmels conservato al Musées d’Amiens

Sezione: dal Romanticismo alle inquietudini simboliste. Per quanto riguarda i temi privilegiati dell’Odissea esiste una continuità tra la grande stagione neoclassica e il nuovo clima del Romanticismo che impone in realtà nuove tematiche estranee al patrimonio figurativo e letterario dell’antichità. Per trovare un nuovo naturalismo romantico bisogna confrontarsi con un episodio, già molto rappresentato nel secolo precedente ma ora oggetto di un rinnovato e sempre più vivo interesse, che è il drammatico e commovente riconoscimento di Ulisse da parte della sua vecchia nutrice Euriclea. Un altro ricongiungimento fatale è quello tra Ulisse e Telemaco che ritroviamo tra i temi riproposti sino agli anni ottanta dell’Ottocento dall’École des Beaux-Arts di Parigi per il prestigioso Prix de Rome. Ma gli esiti più convincenti si devono alla scultura, che esalta il fascino di alcuni personaggi come la Calipso di Calmels rappresentata seduta sulla riva del mare, mentre esprime come una sorta di incarnazione romantica della malinconia tutto il suo struggimento per l’abbandono da parte di Ulisse; o che ferma nel bronzo di Grandi il protagonista nella tensione eroica della incipiente vendetta da cui sarà coronato il ritorno a Itaca e compiuto il suo riscatto. Ma nel clima decadente di fine secolo è inevitabile che ritrovi una prepotente attualità la figura di Circe destinata a diventare un tema emblematico della poetica e dell’ideologia del Simbolismo proprio per quanto riguarda la concezione della donna e la sua emancipazione. La Circe di Chalon, evocata in un dipinto che risente del linguaggio visionario e dell’atmosfera senza tempo di Moreau, appare come un idolo crudele e distante capace di annientare ogni volontà con la forza terribile della sua seduzione.

La grotta delle ninfe della tempesta, olio su tela del 1902 di Edward John Poynter conservato all’Hermitage Museum di Norfolk (foto Graziano Tavan)

Sezione: illustrare il mito. La cultura grafica europea a partire dal Neoclassicismo aveva distillato grandi interpreti dei poemi omerici, primo fra tutti John Flaxman le cui illustrazioni, dal contorno quasi cesellato e privo di volume e di profondità, determinarono fra la fine del Settecento e i primi del XIX secolo una rivoluzione dell’incisione e del disegno. La suggestione della tecnica flaxmaniana, senza chiaroscuri, avrà una rapida diffusione in tutta Europa stimolando ulteriori versioni incise dei poemi omerici, specialmente in ambito tedesco, la cui eco è riscontrabile in alcune incisioni del principale protagonista della grafica simbolista europea: Max Klinger. La maggior parte degli artisti europei tra Ottocento e Novecento perseguì però un approccio rabdomantico alle fonti classiche traducendo graficamente la narrazione omerica in una immagine stereotipata della grecità. Tracciando una sorta di geografia iconografica le avventure di Ulisse rivestirono infatti un ruolo relativamente defilato, suscitando una serie di reazioni profondamente individuali basate sull’eco della ricezione di Omero nelle diverse aree nazionali. In area francese emerse, ad esempio, un considerevole caleidoscopio di immagini collegate ad alcune mitiche figure femminili dell’Odissea che ben si adattavano al nuovo ideale di donna e la cui raffigurazione divenne il pretesto per l’identificazione con la femme fatale, sanguinaria e passionale: Circe e le sirene furono le portavoci di un’idea di femminilità ferina, crudele e malvagia, consentendo altresì di permeare i versi omerici di un’aurea di sottile e raffinato erotismo.

Sezione: narrami, o musa. Durante il XX secolo la rivisitazione del personaggio di Ulisse da parte di artisti e intellettuali si sviluppa lungo diverse trame, allineandosi perfettamente con lo spirito irrequieto tempi. Grazie al forte richiamo esercitato dall’ambiente artistico monacense, e alla presenza sul territorio italiano di molti artisti di area germanica, le letture tedesche del mito di Odisseo non faticano a diffondersi tra gli artisti italiani. Sono però i fratelli De Chirico, Giorgio e Alberto Savinio, a rinnovare considerevolmente tali modelli, con numerose opere a tema odisseico, spesso costruite d’après le invenzioni di Arnold Böcklin ma aggiornate sulla loro ricerca stilistica, e caricate di un tono fortemente autobiografico. La continua fascinazione per i personaggi femminili dell’Odissea più oscuri, poi, come Circe o le sirene, testimonia il perdurare dei modelli decadentisti della femme fatale, seducente e distruttiva, a fianco di esempi muliebri più malinconici e lirici, come Nausicaa, allusione all’amore sofferto e non detto. Ulisse sarà eletto a metafora della propria inquietudine esistenziale e artistica da molti artisti durante il Novecento. Nel 1922 l’Ulysses di Joyce fornirà un esempio cardinale di come un grande classico possa essere riformato con un linguaggio stilisticamente nuovo e audace, e calato nella quotidianità più contemporanea. Esiste nel Novecento una cultura, quella che si è riconosciuta sotto le insegne del cosiddetto “ritorno all’ordine”, che non si identifica e anzi rifugge dalle seduzioni della modernità e si proietta in un’antichità nostalgica, dove le antiche Muse e il canto di Omero diventano una guida nel faticoso viaggio dell’uomo contemporaneo, dopo lo smarrimento della Grande Guerra, alla ricerca della propria identità. Le silenziose divinità della pittura metafisica, le Muse inquietanti di De Chirico che si affacciano con i loro paludamenti classici su un palcoscenico in bilico, sullo sfondo delle torri del Castello Estense di Ferrara e delle ciminiere industriali, e la Musa borghese, anch’essa senza volto, di Carrà ci invitano, moderni Ulisse, a un nuovo viaggio di cui non appare ancora la meta. Il suo approdo non può essere che una terra desolata, quella che circonda la Solitudine di Sironi, intenta a fissare un punto lontano, al di là delle mitiche Colonne d’Ercole violate dall’eroe troppo umano, quello che ci appare nella antica testa di Sperlonga, la più iconica delle sue multiformi apparizioni. Lo sguardo che emerge potente dalle orbite incavate e la bocca socchiusa appaiono come una invocazione tremendamente attuale verso un recupero del senso della vita in un momento in cui sembra irrimediabilmente smarrito.

I musei archeologici del Polo museale della Calabria celebrano il Dantedì presentando i collegamenti che ci sono tra alcuni reperti delle collezioni e la Divina Commedia

Che c’azzecca Dante con i musei e i parchi archeologici? La risposta viene dal Polo museale della Calabria che in occasione del Dantedì, giornata celebrativa dedicata al sommo poeta Dante Alighieri, istituita per il 25 marzo 2020 dal Consiglio dei Ministri, su proposta del ministero per i Beni e le Attività culturali e il Turismo. “Molte sedi della cultura statali, afferenti al Polo museale della Calabria, guidato da Antonella Cucciniello”, spiegano, “hanno richiami, similitudini con il mondo dantesco”. Ecco qualche esempio.

Il soggetto della sirena in alcuni reperti conservati al museo archeologico nazionale “Vito Capialbi” di Vibo Valentia (foto pm-cal)

All’interno del museo Archeologico nazionale “Vito Capialbi” di Vibo Valentia, diretto da Adele Bonofiglio, sono custoditi alcuni reperti che rappresentano delle sirene, figure mitologiche dal corpo metà uccello e metà donna. Le Sirene compaiono nel XII libro dell’Odissea, nel quale si racconta di Ulisse che dopo aver lasciato la maga Circe riprende il suo viaggio. Giunto presso un gruppo di scogli a Sud della penisola di Sorrento, al largo delle isole Sirenuse, incontra le Sirene che con il loro canto cercano di trattenere i naviganti. Le sirene sono note per il loro canto ammaliatore, affascinante ma molto pericoloso per i naviganti, che promette di svelare tutto ciò che accade o è accaduto sulla terra. Il loro canto dunque si mostra come una promessa: se Ulisse si fermerà presso di loro, se ne andrà sapendo più cose; ma cedere alla tentazione della conoscenza porta a rompere i legami famigliari e a morire. Ulisse però, grazie ai consigli di Circe, riesce ad oltrepassare il pericolo. Ulisse e Dante. L’Ulisse dantesco è simile a quello classico, dotato di insaziabile curiosità e abilità di linguaggio e compare nel XXVI canto dell’Inferno, sottoforma di fiamma. Egli racconta le peripezie del suo viaggio di ritorno da Troia e come, spinto dalla sete di conoscenza, cerca di convincere i suoi compagni a proseguire il viaggio pronunciando la famosissima frase: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Sete di conoscenza che lo porterà alla rovina.

La sede del museo Archeologico nazionale di Locri

Il museo Archeologico nazionale di Locri, diretto da Rossella Agostino, in sintonia con il museo di Vibo Valentia che per il Dantedì ricorda Ulisse, il canto delle Sirene, e il suo incontro con Dante, con l’intento di creare un fil rouge tra i musei calabresi e il loro ricco e sfaccettato patrimonio, vuole testimoniare la presenza di manufatti raffiguranti le Sirene esposti lungo il suo percorso espositivo. Una produzione degli artigiani locresi che lavoravano ed abitavano nel quartiere di Centocamere, oggi visitabile nell’area del parco archeologico di Locri: balsamari in terracotta di diverse dimensioni, conformati a sirena caratterizzata da una lunga capigliatura a trecce e orecchini discoidali con funzione di ex voto dedicati a Persefone regina degli Inferi, agli specchi in bronzo il cui manico riproduce le fattezze di questa suggestiva figura che con il suo canto irretiva gli uomini. Produzioni che tra VI e V secolo a.C. costituiscono una delle espressioni più caratteristiche dell’artigianato locrese.

Una sala espositiva del museo Archeologico Lametino di Lamezia Terme (foto pm-cal)

Il museo archeologico Lametino di Lamezia Terme, diretto da Gregorio Aversa, sposta in rete tutte le iniziative organizzate per il primo “Dantedì”, giornata celebrativa dedicata dal MiBACT al sommo poeta Dante Alighieri, prevista per il 25 marzo, data che gli studiosi individuano come inizio del viaggio ultraterreno della “Divina Commedia”. Sulla pagina FB (https://www.facebook.com/museoarcheologicolametino/) del museo l’appuntamento si raddoppia. Si inizia martedì 24 marzo 2020 con il pre-evento “Aspettando il #Dantedì”, durante il quale Laura Montuoro, socio della “Società Dante Alighieri – Comitato locale Soverato”, citando alcune terzine del XV Canto del “Paradiso”, invita i follower a partecipare attivamente alle celebrazioni. Per l’appuntamento nazionale fissato dal MiBACT per le 12 di mercoledì 25, il Museo ha, invece, organizzato l’iniziativa “#IoleggoDante, ma in calabrese”. È prevista una lettura in streaming a cura di Domenico Benedetto D’Agostino, curatore del Progetto “PoesiaInCostruzione, di alcune terzine del XXVI Canto dell’“Inferno” tratte da “‘U Mpiernu, ‘U Prigatoriu, ‘U Paravisu” di Salvatore Scervini (Acri 1847-1925). Si tratta della trasposizione in calabrese dell’opera dantesca, seconda traduzione integrale in Italia e prima nel Meridione, considerata una delle versioni più riuscite per completezza, qualità letteraria, lingua e stile. Completeranno il programma numerosi post con approfondimenti e curiosità, tra cui: un’esposizione inedita sulla nostra bacheca virtuale di un’edizione unica al mondo della “Divina Commedia” (ed. Manzani, Firenze 1595), messa a disposizione da Giovanna Adamo, presidente dell’associazione artistico-culturale “Arte & Antichità Passato Prossimo” di Lamezia Terme; un omaggio da parte dell’illustratrice lametina Felicia Villella; la partecipazione al flash mob della “Società Dante Alighieri” previsto per le 18 del 25 marzo con l’intervento di Samuele Anastasio, speaker di Radio Soveria, che aprendo la finestra della sua casa declamerà, come richiesto, le due terzine del canto dantesco in cui Paolo e Francesca dimostrano che l’amore vince tutto. L’iniziativa è a cura di Rosanna Calabrese, funzionario archeologo del Polo museale della Calabria.

All’interno del museo Archeologico nazionale di Mètauros a Gioia Tauro, diretto da Simona Bruni, sono custoditi moltissimi reperti provenienti dai corredi tombali della necropoli ritrovata in contrada Due Pompe – fase magnogreca della città. I corredi tombali esposti a Mètauros rappresentano le suggestioni legate alla cultura dell’oltretomba e agli usi della deposizione che attraverso il corredo dava forma all’immateriale legame tra la vita terrena del deposto e la sua vita nell’aldilà. Collegamento culturale diviene Caronte e la sua figura di traghettatore delle anime nel loro percorso di vita ultraterrena attraverso la presentazione di due litografie di Gustave Dorè, Divina Commedia illustrata dell’Ottocento (Gustave Dorè, Divina Commedia Illustrata 1861) che rappresentano l’incontro di Dante e Virgilio nell’oltretomba con Caronte; correlazione con le collezioni esposte nel Museo – i corredi funebri – legati alla cultura della deposizione e dell’oltretomba. Inoltre grazie alla collaborazione dell’architetto e scenografo Lorenzo Pio Massimo Martino sarà pubblicato il video “L’incontro infernale tra il Sommo e il traghettatore delle anime perdute” (Commedia narrata a cura di Lorenzo Pio Massimo Martino). Seguirà nel pomeriggio per #ioleggoDante un tag sul fumetto di Mètauros realizzato da Federico Manzone (nato nell’ambito dell’iniziativa Fumetti nei Musei 2020) reso visibile on-line per la giornata del 25 marzo su issuu.com/coconinopress. Lo storyboard realizzato dal nostro fumettista riprende le figure mitologiche e legate all’oltretomba in virtù delle collezioni che denotano il museo come “museo delle necropoli”.

La basilica normanna conservata all’interno del parco archeologico di Scolacium

Il museo e parco archeologico nazionale di Scolacium, diretto da Elisa Nisticò, celebra Dante Alighieri nella giornata a lui dedicata con un contributo sui suoi canali social basato sul pensiero trinitario di Gioacchino da Fiore nella Divina Commedia, con radici lontane in Cassiodoro, nativo di Scolacium. La Commedia ha uno schema triadico, secondo le tre età del padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Anche Cassiodoro trova nei Salmi la dottrina della Trinità. Troviamo dunque una linea di pensiero che attraversa i secoli e supera le distanze spaziali.

“La sirena: soltanto un mito? Nuovi spunti per una storia della medicina fra mito, religione e scienza”: una singolare mostra al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma affronta il tema delle creature fantastiche rappresentazione di rare patologie, come la sirenomelia

Il famoso episodio dall’Odissea con Ulisse che resiste alle sirene (donne-uccello) rappresentato su uno stamnos da Vulci oggi al British Museum

La sirena (donna-pesce) in una miniatura medievale

Il loro canto ammaliava i marinai che rischiavano di morire se si avvicinavano loro incautamente. Sono le sirene, con l’aspetto di donna nella parte superiore del corpo e di uccello in quella inferiore, che gli antichi ritenevano abitassero un’isola tra Scilla e Cariddi, un’isola mortifera disseminata di cadaveri in putrefazione. Lo sapeva bene Ulisse, come ci racconta Omero nell’Odissea, che – su consiglio della maga Circe – riuscì a superare indenne il canto delle sirene, intonato per causare la morte sua e del suo equipaggio: “Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,/ e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce./ Nessuno è mai passato di qui con la nera nave/ senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele,/ ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose” (Odissea XII, 184-8: traduzione di Giuseppe Aurelio Privitera, Milano 2007). Ma l’immagine della sirena che noi oggi abbiamo è ben diversa: sono creature fantastiche che popolavano il mare, con il busto umano e con la coda di pesce, un’immagine che prende forma solo dall’VIII-IX secolo d.C. con il Liber Monstrorum, un bestiario e trattato di mirabilia, che parla chiaramente della figura della sirena come oggi noi la intendiamo, codificata e resa immortale dal 1913 con la realizzazione della statua della Sirenetta che attende malinconica il suo principe, monumento simbolo di Copenaghen. In realtà queste creature acquatiche erano note anche nell’antichità, ma i greci non le chiamavano sirene. Per loro erano nereidi e tritoni. Il tema affascinante delle sirene è affrontato in una singolare mostra “La sirena: soltanto un mito? Nuovi spunti per una storia della medicina fra mito, religione e scienza” aperta fino al 30 settembre 2018 nella sala Venere del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma.

La mostra “La sirena: soltanto un mito?” allestita nella sala Venere del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma

Come si intuisce già dal titolo, l’approccio alla mostra è più scientifico che letterario. Non è un caso infatti che la ricerca che ha portato alla mostra sia stata curata dal museo di Villa Giulia e dalla Fondazione San Camillo Forlanini, con il coinvolgimento del museo di Storia della Medicina del Dipartimento di Medicina Molecolare e del Polo museale dell’Università “Sapienza” di Roma, e promossa in occasione del decennale della Fondazione San Camillo Forlanini di Roma e dell’evento “Premio 2018 – Eccellenze in Sanità”, attribuito il 13 giugno 2018 nel prestigioso contesto del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, contestualmente all’inaugurazione della mostra “La sirena: soltanto un mito? Nuovi spunti per una storia della medicina fra mito, religione e scienza”.

Il singolare ex-voto proveniente da scavi ottocenteschi a Veio sembra evocare un corpo affetto da una rarissima malformazione congenita, la sirenomelia

Ex voto anatomici in mostra al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma

Focus della mostra è un raro e singolare tipo di ex-voto, frutto di scavi ottocenteschi condotti a Veio ed esposto dal 2012 nella sala 39 del museo di Villa Giulia. Generalmente interpretato come una rappresentazione schematica della parte inferiore del corpo umano, in coerenza con quella semplificazione dei processi produttivi a cui si assiste nel corso dei secoli III-II a.C., questo particolarissimo votivo anatomico sembra invece evocare suggestivamente un corpo affetto da una rarissima malformazione congenita, la sirenomelia. Questa gravissima patologia determina lo sviluppo di un singolo arto, simile a una coda di pesce, mentre il feto è nel grembo della madre e dunque è immediatamente evidente alla nascita. Intorno a questa singolare storia di religione e di scienza ruotano racconti e immagini che fanno comprendere come nel mondo antico fossero ritenute “straordinarie” patologie rare, quali il nanismo e l’epilessia, solo per citarne alcune. “Nel mondo etrusco”, spiegano gli archeologi, “si hanno varie manifestazioni del sacro collegate all’evidenza di anomalie o di comportamenti divergenti dalla norma in bambini ritenuti prodigiosi. Nella letteratura latina ricorrono frequentemente termini quali monstrum, prodigium, confrontabili con il greco teras, che esprimono concetti legati a eventi “soprannaturali”, considerati come segni divini e a volte presagi funesti”.

Tavola anatomica del 1829 sulla sindrome sirenomelica, eccezionale reperto del museo di Anatomia patologica dell’università La Sapienza di Roma

Accanto alle “storie” di malattie “prodigiose” che ci giungono dal mondo antico, la mostra getta uno sguardo sull’attualità e sull’evoluzione degli strumenti chirurgici. Dal museo di Anatomia patologica dell’università La Sapienza di Roma viene eccezionalmente prestato il reperto anatomico di una neonata affetta da sirenomelia, patologia di cui la Fondazione San Camillo Forlanini ha delineato le problematiche cliniche e gli strumenti diagnostici. Dal museo di Storia della Medicina dell’università La Sapienza di Roma giungono in mostra interessanti manufatti che illustrano l’evoluzione dello strumentario chirurgico fin dall’età romana, chiaramente connessa con il progredire delle teorie e delle conoscenze anatomiche e mediche. Infine tre video dell’archivio storico video “Adalberto Pazzini” del medesimo museo, installati nella saletta adiacente alla Sala Venere che ospita la mostra, consentono al visitatore di approfondire aspetti della ritualità e delle pratiche magiche popolari (Magia dell’assurdo), di conoscere i dettami della Scuola Medica Salernitana (Chirurgia medievale) e di ripercorrere le raffigurazioni artistiche di patologie e interventi terapeutici (Arte e medicina).