Archivio tag | porto antico di Napoli

L’archeologia subacquea ha la sua soprintendenza: è nata la soprintendenza nazionale per il Patrimonio culturale subacqueo con sede a Taranto, e uffici a Venezia e Napoli. La dirige l’archeologa subacquea Barbara Davidde

Istituita la soprintendenza nazionale per il Patrimonio culturale subacqueo (foto Icr)

L’Italia ha una nuova soprintendenza specifica per il mare: è la soprintendenza nazionale per il Patrimonio culturale subacqueo. A inizio gennaio 2021, con la nomina di Barbara Davidde a soprintendente da parte del ministro Dario Franceschini, si è chiuso infatti l’iter di istituzione avviato nel dicembre 2019 nell’ambito della cosiddetta “riforma della controriforma” del Mibact, con la quale il titolare del dicastero dei Beni culturali ha rimesso ordine alle decisioni, molto criticate da più parti, da quanto stabilito dall’ex ministro Alberto Bonisoli nell’agosto 2019 in piena crisi di governo. “L’archeologia subacquea”, ha dichiarato il ministro Franceschini, “è uno dei settori di ricerca più importanti del nostro Paese. Siamo un paese circondato dal mare e abbiamo un ricco patrimonio culturale sommerso che va ancora studiato, salvaguardato e valorizzato. Con la nomina della soprintendente Davidde, a cui faccio gli auguri per l’importante compito che è chiamata a svolgere, le operazioni di tutela e le attività di ricerca troveranno nuovo impulso e nuovo slancio”. Nel dicembre 2019 Franceschini, infatti, non solo aveva ripristinato alcune autonomie soppresse di musei e parchi archeologici, ma aveva anche istituito la nuova soprintendenza nazionale per il Patrimonio culturale subacqueo con sede a Taranto, e centri operativi presso le soprintendenze Archeologia, belle arti e paesaggio con sede a Napoli e Venezia. Obiettivo della soprintendenza del Patrimonio culturale subacqueo, ufficio dotato di autonomia speciale di livello dirigenziale non generale, è lo svolgimento delle attività di tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale subacqueo. Nel territorio della Provincia di Taranto, il soprintendente svolge anche le funzioni spettanti ai soprintendenti Archeologia, belle arti e paesaggio.

L’archeologa subacquea Barbara Davidde

Barbara Davidde, neo soprintendente nazionale per il Patrimonio culturale subacqueo, è direttrice del nucleo interventi per l’Archeologia subacquea dell’Istituto Centrale per il Restauro, funzionario archeologo presso l’Istituto Centrale per l’Archeologia e membro dal 2019 dello Stab, il comitato tecnico scientifico dell’Unesco per la Convenzione del 2001 sulla Protezione del Patrimonio Culturale Subacqueo, docente di Archeologia subacquea all’università di Roma Tre. Barbara Davidde inizia la sua carriera nel 1987 e, nel corso degli anni, dirige missioni archeologiche subacquee in Yemen e Oman. Inoltre, ha partecipato a cantieri archeologici subacquei in Francia, Libia e in diverse località italiane. Dal 2015 a oggi per l’ICR è responsabile scientifico, responsabile unico del procedimento e direttore dei lavori del recupero e pronto intervento conservativo dei relitti romani e dei materiali rinvenuti nel porto antico di Napoli, nel corso dei lavori per la realizzazione delle stazioni della linea 1 della Metropolitana di Napoli (piazza Garibaldi e piazza Municipio). Inoltre, è il funzionario responsabile dell’Icr per Convenzioni di ricerca e formazione, stipulate con Enti di ricerca e università italiane e straniere, riguardanti la sperimentazione di prodotti per il restauro di manufatti di provenienza subacquea, per il restauro delle strutture archeologiche sommerse e per l’aggiornamento professionale di personale addetto ai beni culturali.

Nei sotterranei del museo Archeologico di Napoli la sezione “Stazione Neapolis” della mostra “Thalassa” fa il punto sulla più importante scoperta archeologica recente: il porto antico con alcuni importanti relitti. Per la prima volta esposti alcuni reperti come la grande ancora in legno

Nel seminterrato del Mann, accanto alla Sezione Epigrafica, c’è la Stazione Neapolis, dedicata alla scoperta del porto antico di Napoli (foto Graziano Tavan)

La locandina della mostra “Thalassa, meraviglie sommerse dal Mediterraneo” dal 12 dicembre 2019 al 9 marzo 2020

L’accesso alla “Stazione Neapolis” passa quasi inosservato alle centinaia di visitatori che ogni giorno varcano l’ingresso del museo Archeologico nazionale di Napoli: letteralmente rapiti nel grande atrio dalle meraviglie annunciate dai poster-arazzi che descrivono le diverse sezioni e le collezioni, la piccola locandina all’imbocco della scala che porta alla Sezione Epigrafica rimane muta resta ai margini del flusso. Eppure la scala che scende nelle “viscere” del Mann porta a rivivere forse la più importante scoperta archeologica recente a Napoli: il porto antico. Nella sala “Stazione Neapolis” del Mann sono esposti reperti che ricostruiscono storia e caratteristiche del porto antico di Napoli, partendo dalla prima fase di scavi della metropolitana di piazza Municipio, agli inizi degli anni Duemila, e giungendo sino agli ultimi ritrovamenti, tra 2014 e 2015. Per gentile concessione della soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli, sono visibili al Mann, per la prima volta proprio in occasione della mostra “Thalassa. Meraviglie sommerse del Mediterraneo” (vedi https://archeologiavocidalpassato.com/2019/12/30/al-museo-archeologico-nazionale-di-napoli-la-mostra-thalassa-meraviglie-sommerse-dal-mediterraneo-vetrina-delle-scoperte-dellarcheologia-subacquea-dal-1950-ad-oggi-viaggi/), tre importanti e singolari reperti lignei: una splendida ancora di oltre due metri e mezzo (databile alla fine del II sec. a.C.), un remo e un albero (età imperiale), residui delle imbarcazioni che attraccavano nell’antico porto cittadino. Opere che è stato possibile presentate al pubblico grazie a un intervento conservativo realizzato dall’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro.

Il modello dell’imbarcazione “Napoli C”, l’horeia ritrovata nel porto antico di Napoli (foto Graziano Tavan)

Scese le scale si è accolti da una barca, modello ligneo che propone in scala 1:5 la ricostruzione di una imbarcazione particolare: la Napoli C (fine I sec. d.C.), i cui resti furono messi in luce nel 2004 in piazza Municipio durante lo scavo dei fondali del porto romano. Si tratta di un’imbarcazione da trasporto e da carico (una horeia), in origine di 14 metri, con la prua a specchio che permetteva un attracco perpendicolare alle banchine portuali e ai fianchi delle navi alla fonda. L’horeia Napoli C doveva navigare nel golfo di Napoli ed essere utilizzata nel bacino portuale. Le più antiche fasi del porto di Napoli risalgono alla nascita di Parthenope nella seconda metà dell’VIII sec. a.C. in rapporto all’espansione di Cuma, la più antica colonia greca d’Occidente, e alla fondazione di Neapolis tra il VI e il V sec. a.C.: entrambi i centri dominavano l’accesso meridionale delle bocche di Capri e quello settentrionale del canale di Procida e ciò permetteva il controllo di un passaggio obbligato della rotta tra il basso e l’alto Tirreno.

La piantina di Napoli ripropone la linea di costa in età romana con il posizionamento dei relitti trovati nello scavo della metropolitana di Napoli (foto Graziano Tavan)

Il Porto di Neapolis in età ellenistica e romana. In antico il mare arrivava fino a comprendere le piazze Municipio e Bovio, formando una grande insenatura protetta da due promontori dove oggi sorgono Castel Nuovo (a Ovest) e la chiesa di S. Maria di Porto Salvo (a Est). Il versante sud-occidentale della baia è stato impiegato per l’impianto del porto, indagato a piazza Municipio, che lì risulta protetto da venti e moto ondoso dall’altura di Castel Nuovo e da un basso isolotto adiacente. Nel III sec. a.C. era uno scalo frequentato, e proprio per mantenerne la funzionalità si rese necessario effettuare un’imponente e onerosa opera di dragaggio del fondale; nello stesso momento le pendici intorno all’insenatura furono regolarizzate con muri di terrazzamento e una rampa di accesso al mare. In età augustea tale sistemazione fu messa fuori uso e furono costruiti una banchina, un molo frangiflutti e un asse viario, da identificare con la via per cryptam che collegava Neapolis al suo porto e proseguiva verso i Campi Flegrei. Durante il I e II sec. d.C. lungo la strada si svilupparono due impianti termali e lo specchio d’acqua del porto accolse un molo e pontili di legno ai quali attraccavano le imbarcazioni che caricavano e scaricavano le merci. Lo scalo conosce continuità per tutta l’età imperiale e agli inizi del V sec. d.C. si è formato un ambiente lagunare, cui è seguito un progressivo insabbiamento che determinò l’avanzamento della linea di costa e lo spostamento del porto in posizione avanzata, verso l’attuale piazza Bovio.

Nella foro di Paolo De Stefano il cantiere di scavo della metropolitana di Napoli per la stazione Municipio che ha portato alla scoperta del porto antico di Napoli

La scoperta archeologica. La realizzazione della linea metropolitana ha generato una delle più grandi indagini archeologiche urbane programmate negli ultimi decenni in rapporto a un’opera pubblica e ha permesso per la prima volta di esplorare per tutti i periodi storici il litorale compreso tra i siti di Parthenope e Neapolis. La stazione Municipio (circa 23mila mq) ha assunto per la sua dimensione e per l’entità dei rinvenimenti archeologici grande rilievo. La storia svelata dallo scavo comincia dalle fasi del porto di Parthenope e Neapolis sino alla fine dell’età antica quando, a causa di trasformazioni ambientali, il mare lascia spazio alla terra e a nuove forme di insediamento. Prosegue con gli straordinari resti edilizi e con il nuovo porto di età angioina, e documenta, infine, i sistemi di fortificazione esterni alla reggia fortezza di Castel Nuovo, realizzati prima da re Alfonso V di Aragona e successivamente dai viceré spagnoli.

Suggestiva immagine del cantiere di scavo a Stazione Municipio con i relitti A, B, e C (foto Giuseppe Avallone)

Il cantiere di Stazione Municipio con i relitti A, B e C, in un plastico presente in mostra (foto Graziano Tavan)

Le imbarcazioni di Municipio. Nel 2004 l’esplorazione dei fondali del porto di Neapolis ha rivelato tre relitti. Come ancora oggi accade, arriva un momento in cui le imbarcazioni sono abbandonate perché non conviene più ripararle: è la sorte toccata ai relitti Napoli A e Napoli C lasciati affondare e poi progressivamente insabbiati per giungere eccezionalmente fino a noi. Il relitto B è forse naufragato per una mareggiata, infrangendosi contro il molo con il suo carico di spezzoni di calcare e di calce. Queste imbarcazioni sono costruite a “guscio portante” con tutte le tavole del fasciame collegate tra di loro secondo il metodo classico della costruzione navale greco-romana detto a “mortase e tenoni”. Mentre “A” e “B” sono velieri di piccolo tonnellaggio utilizzati, probabilmente, per un’attività commerciale in ambito regionale e per una navigazione di cabotaggio, l’imbarcazione “C” è invece una più rara horeia. Questo tipo di barca, con un’estremità a specchio verticale di solito a prua, è noto dalle fonti iconografiche, da due esemplari rinvenuti nel porto di Tolone in Francia e da un’esemplare nello scavo di Isola Sacra a Ostia. La horeia poteva essere anche collegata all’attività di pesca.

Rilievo 3D del relitto Napoli G a cura del Politecnico di Milano

Le imbarcazioni di Municipio: le nuove scoperte. Tra il 2013 e il 2015, nello scavo del sottopasso tra la stazione Municipio e l’area del porto attuale sono emerse altre quattro imbarcazioni: i relitti “Napoli E” e “Napoli H”, databili al II sec. a.C., i relitti “F” e “G”, naufragati intorno alla fine del II-III sec. d.C. La cattiva conservazione dei relitti più antichi, non rende possibili ipotesi sulla loro forma, architettura e funzione originaria. Sul relitto “E” resta traccia del rivestimento di piombo. Questa protezione dell’opera viva, utilizzata per le imbarcazioni di epoca ellenistica, sarà successivamente soppiantata dall’uso della pece e dell’encausto. Il relitto “F” per le sue caratteristiche strutturali è pertinente, come “Napoli A” e “B”, a un veliero per il trasporto marittimo. Il relitto “G” documenta il tipo della horeia, aggiungendosi all’analogo relitto “Napoli C” indagato nel 2004. Tuttavia esso presenta delle peculiarità: la forma triangolare dello specchio di una delle estremità e la presenza di uno spazio adibito all’evacuazione dell’acqua di sentina. Lo specchio nel nuovo caso napoletano potrebbe corrispondere, dunque, alla poppa e non alla prua come nelle altre horeiae conosciute a meno di non pensare a una barca anfidroma (cioè che può navigare da prua e da poppa).

Attrezzature e oggetti di svago, scoperti sui fondali del porto antico o sui relitti, che testimoniano la vita di bordo (foto Graziano Tavan)

La vita di bordo: attrezzature e svago. Il sedimento marino dei fondali del porto e la falda acquifera che successivamente ha invaso l’area hanno consentito la conservazione oltre che dei relitti di numerosi reperti organici. Essi documentano le attrezzature di bordo delle imbarcazioni come bozzelli e bigotte per le manovre delle vele, frammenti di cime e cordame. Sono venuti alla luce inoltre oggetti personali dell’equipaggio o dei passeggeri: calzature, dadi custoditi in apposite scatoline e altri giochi che servivano come passatempo in viaggio.

La riproduzione di un tratto dei fondali del porto antico di Napoli con le numerose ceramiche che vi si sono depositate nei secoli (foto Graziano Tavan)

La vita nel porto: i traffici, le merci, il lavoro. Il ritrovato porto di Neapolis ha svolto intense attività commerciali nel corso della sua vita millenaria, dal III sec. a.C. agli inizi del V sec. d.C. Sui suoi fondali si sono accumulati i materiali più diversi, in parte rifiuti scaricati dall’area adiacente il bacino, in parte oggetti perduti durante le operazioni di carico e scarico delle merci, oppure le dotazioni di bordo delle imbarcazioni. I reperti sono la testimonianza dei traffici e dei consumi della città nelle diverse epoche: migliaia di frammenti ed esemplari quasi integri di stoviglie, contenitori di derrate alimentari, lucerne, oggetti di vetro, monete.

La grande ancora di legno e piombo trovata all’imboccatura del porto antico di Napoli (foto Mann)

L’ancora del porto di Napoli in un disegno che ne descrive le varie parti (foto Graziano Tavan)

L’ancora lignea del porto di Neapolis. Numerose sono le ancore disperse nei fondali: le più comuni sono in pietra con marre di legno. Straordinaria per dimensione (2.60 x 1.50 m) e per conservazione è l’ancora di legno e piombo esposta dopo il restauro effettuato dall’istituto superiore di Conservazione e Restauro. Essa è stata portata alla luce in prossimità dell’imboccatura del porto antico sui fondali marini di fine II sec. a.C.: la mole dell’attrezzo testimonia l’ormeggio di grandi navi, come dimostra anche un mezzo ceppo di piombo recuperato a poca distanza, che doveva appartenere a un’ulteriore ancora di misura maggiore. L’ancora è un tipo diffuso nel Mediterraneo tra l’età Repubblicana e l’Impero, simile, solo per citare quelli più vicini, ad esemplari rinvenuti nel lago di Nemi o nel porto antico di Pisa. Si conservano: il fusto a sezione rettangolare sino all’estremità inferiore (diamante), i bracci a uncino (marre), l’elemento orizzontale in piombo che fissava le marre al fusto (contromarra). Le marre sono connesse al fusto attraverso due larghi tenoni fissati da cavicchi. La contromarra evitava che le marre si divaricassero e si spezzassero durante la trazione e appesantiva la parte inferiore dell’ancora. Attorno alla strozzatura del diamante era fissata la cima che serviva per facilitare il recupero dell’attrezzo. Non si conserva il ceppo di appesantimento, ma è probabile che fosse del tipo fisso , con tenone passante nel fusto.