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Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco i primi tre episodi: la Grande Etruria, Ulisse ed Eracle, Caere/Pyrgi e Delfi

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Locandina della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia dal 10 novembre 2023 al 7 aprile 2024

Il progetto era di pubblicare la serie video contestualmente al periodo di apertura della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma fino al 7 aprile 2024. Poi una serie di imprevisti ha prolungato l’attesa. Ma da qualche settimana è iniziata la pubblicazione on line di “Rasna. Una serie etrusca”, 19 video, lanciati con trailer sulle pagine Facebook e Instagram del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, e in forma integrale sul canale YouTube ufficiale MuseoEtruTv. I video, a cura e con Valentino Nizzo, fino a dicembre 2023 direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, sono lunghi mediamente intorno ai 10 minuti ciascuno. In occasione del Centenario della scoperta di Spina, questo video-racconto per capitoli che parte dalla celebre città portuale nel delta del Po allargando poi lo sguardo dalla pianura padana e dall’Adriatico fino al Tirreno e all’intero Mediterraneo, è un modo per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, anche una parte fondamentale della nostra attuale storia.

Valentino Nizzo direttore del Museo archeologico di Villa Giulia - Roma

Valentino Nizzo, già direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, docente all’università L’Orientale di Napoli (foto etru)

“I video sono stati girati in un pugno di giorni (potrei dire ore) dello scorso mese di ottobre”, ricorda Nizzo, “tra Roma, Pyrgi, Ferrara e Comacchio, nel pieno dell’allestimento della mostra e quando ancora non sapevo che presto l’esperienza di Villa Giulia sarebbe finita. L’intento è stato quello di produrre una serie di contenuti didattici che andassero oltre l’effimera durata dell’esposizione”. Tutti i video sono integralmente sottotitolati in Italiano e in inglese in modo da garantirne la massima accessibilità. “Molte istituzioni e persone hanno contribuito con grande disponibilità alla realizzazione del progetto e sono ricordate alla fine di ciascun video. Mi piace menzionare la mia prima casa, il museo Archeologico nazionale di Ferrara, il museo del Delta antico di Comacchio e lo splendido Parco del Delta, il Comune di Comacchio, il Castello di Santa Severa e il museo del Mare e della Navigazione antica. Oltre al personale tutto del Museo di Villa Giulia (in particolare Anna Tanzarella che ha mantenuto le redini del progetto) e delle altre istituzioni coinvolte, devo ringraziare Tiziano Trocchi, Marco Bruni e Flavio Enei per la loro squisita ospitalità. I video sono stati prodotti dalla Michbold di MIchele Boldi e realizzati con grande competenza e sensibilità artistica da Nicola Nottoli che ha sapientemente valorizzato le riprese effettuate da Maurizio Cinti e una parte dei contenuti elaborati per la mostra. Prezioso e instancabile – conclude Nizzo – è stato il supporto di Alessandra Felletti e Flavia Amato”. E allora iniziamo a guardare “Rasna. Una serie etrusca” con i primi tre episodi.

“1. LA GRANDE ETRURIA”. L’Italia fu un tempo etrusca. Parte da qui il racconto di “Rasna. Una serie etrusca”, la narrazione pensata per incorniciare i grandi temi entro cui si muove la mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”, ultima tappa delle celebrazioni per il Centenario della scoperta di Spina. Quanto era estesa la Grande Etruria? Quale eredità ci resta della cultura etrusca? Dalla Villa di papa Giulio III, Valentino Nizzo, curatore della mostra e già direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, inaugura la serie di 19 approfondimenti tematici che raccontano la storia pre-romana della nostra Penisola, quella in cui si è formata la nostra identità culturale e sociale.

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Mappa dei territori etruschi in Italia (foto etru)

“Prima della dominazione romana, la potenza etrusca si estendeva ampiamente per terra e per mare. I nomi dei due mari, superiore e inferiore, da cui l’Italia è cinta a guisa di un’isola, offrono una testimonianza della loro potenza, perché l’uno le popolazioni italiche chiamarono mare Tosco, nome comune all’intera gente, e l’altro Adriatico dalla colonia etrusca di Adria. I Greci li chiamano pure Tirreno e Adriatico. Si stabilirono tra le terre che si estendono tra entrambi i mari, fondando dapprima dodici città nella regione, tra l’Appennino e il mar Tirreno, e poi mandando al di là dell’Appennino altrettante colonie quante erano le città di origine. Occuparono così tuta la regione al di là del Po, fino alle Alpi, eccettuato l’angolo abitato dai Veneti all’estremità del mare Adriatico. Così Tito Livio nel I sec. a.C. all’epoca di Augusto, testimonia quella che era la Grande Etruria. Quasi tutta l’Italia fu un tempo sotto il dominio degli Etruschi, ricordava Catone nelle Origini, nel II secolo a.C., e Polibio nello stesso periodo ricordava che per conoscere la potenza che un tempo ebbero gli Etruschi, bisogna guardare alle due grandi pianure che essi dominarono; la padana e la campana. Queste testimonianze ci servono a ricordare quello che l’archeologia ha dimostrato da tempo essere una realtà, cioè quanto la presenza degli Etruschi, o come li chiamavano i Greci Tirreni, sia stata pervasiva in tutta la nostra penisola, lasciando un’eredità inestimabile sia dal punto di vista materiale, come attestano gli straordinari capolavori esposti qui nel museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, sia dal punto di vista immateriale, poiché attraverso i romani molto della cultura degli Etruschi è arrivato fino ai nostri giorni. E poi c’è un altro tema immateriale importante: il fascino che gli Etruschi hanno esercitato dal Rinascimento fino all’epoca contemporanea, inducendo in più fasi della nostra storia molti artisti a ispirarsi alla loro arte.

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Villa Giulia a Roma vista da drone (foto etru)

“Negli anni in cui veniva realizzata Villa Giulia, tra il 1550 e il 1555 da papa Giulio III Ciocchi del Monte, originario di Arezzo, venivano alla luce capolavori dell’arte etrusca come la Chimera e la Minerva di Arezzo e l’Arringatore di Perugia, che stupirono per la loro qualità artistica, estetica, e per la presenza di iscrizioni etrusche. Lo stesso vale per Cosimo I de’ Medici che istituì il Granducato di Etruria, nominando se stesso Magnus dux Etruriae. Probabilmente anche Giulio III era orgoglioso del passato etrusco da cui proveniva e di cui era idealmente erede, essendo aretino. Alle mie spalle, nel celebre Ninfeo di Villa Giulia, realizzato dall’Ammannati sotto la supervisione di Vasari e Michelangelo, due fontane descrivono altrettanti fiumi. A sinistra il Tevere, caratterizzato dalla lupa capitolina, indicava la sede dove il pontefice aveva assunto il soglio di San Pietro, e l’altra, l’Arno, caratterizzato da un leone, indicava la sua terra di origine in prossimità del fiume che segna quelli che sono i due confini ideali dell’Etruria propria, l’Arno e il Tevere. Etruria che però, come testimonia Livio, nel passo che ho citato, andava ben oltre. Andava fino alla pianura Padana e, come sappiamo, fino anche a quella campana, fino agli estremi limiti meridionali della Campania, ai confini con l’attuale Calabria, dove poi sarebbe stata fondata Poseidonia e ancor prima era sorta Pontecagnano nell’agro picentino. L’Italia dunque fu un tempo etrusca e la mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto del Mediterraneo” ci consente di approfondire la storia attraverso quello che è il racconto del porto più importante fondato dagli Etruschi sull’Adriatico intorno al 520 a.C.

“Spina, una città che ha vissuto tre, quattro secoli, collocandosi in una posizione strategica alla foce del Po, su quel mare Adriatico che Tito Livio riteneva avesse preso il nome di una colonia etrusca, Adria, che però i Greci come Spina ritenevano una città greca, al punto che veniva ammessa, Spina, come poche altre città quali Cerveteri, in quel santuario delfico che agli occhi dei Greci indicava il luogo dove soltanto la grecità poteva trovare ospitalità. 

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Locandina della mostra “Spina 100. Dal mito alla scoperta” al museo del Delta antico dal 1° giugno al 16 ottobre 2022

“Questo racconto espositivo, iniziato a Comacchio, per il centenario della scoperta di Spina nel 1922, e proseguito poi presso il museo Archeologico nazionale di Ferrara, si conclude qui al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, allargando lo sguardo dalla pianura Padana e da Spina e dall’Adriatico anche al Tirreno e all’intero Mediterraneo. Un modo per raccontare la storia dell’Italia preromana, quella nella quale le identità etniche che ancora oggi caratterizzano le nostre peculiarità regionali hanno cominciato a formarsi. Un modo quindi per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, un pezzo della nostra attuale storia”.

“Con l’entrata in scena dei Greci il gioco si fa serio e la storia si tinge dei colori del mito”, spiega Valentino Nizzo. “O, almeno, la storia come la intendevano i Greci che si attribuivano attraverso le imprese di Eracle e Ulisse il merito di aver civilizzato un Occidente selvaggio di nome e di fatto, come attesta il mitico fratello di Latino, Agrio il Selvaggio, nato dall’amore fugace di Ulisse con Circe. Ma questo è solo l’inizio…”.

“2. LA SCOPERTA DELL’OCCIDENTE: ULISSE ED ERACLE”. Il secondo episodio di “Rasna. Una serie etrusca” ci descrive il mondo occidentale con gli occhi dei Greci. Un mondo ancora nebuloso, barbaro, che possiamo leggere attraverso la lente di ingrandimento del racconto mitologico. Sono gli episodi delle peregrinazioni di Ulisse e quelli dei viaggi di Eracle per il compimento delle sue celebri fatiche, narrati dalle fonti e cristallizzati nelle raffigurazioni dei vasi, ad offrire lo spunto per raccontare la visione, all’epoca condivisa, del mondo occidentale.

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L’itinerario di Ulisse da Troia a Itaca (foto etru)

“Circe, figlia di Helios, figlio di Hyperion, partorì in unione a Odisseo, paziente, Agrios e Latino perfetto e forte. Telegono generò grazie ad Afrodite d’oro. Essi molto lontani nel recesso delle isole sacre su tutti i Tirreni illustrissimi regnavano”. Esiodo nella Teogonia, alcuni versi finali, descrive quello che è il mondo occidentale. Siamo probabilmente prima della colonizzazione che Omero farà nell’Odissea delle peregrinazioni di Ulisse in Occidente. O almeno siamo in un momento in cui cominciano a definirsi quegli orizzonti occidentali che diventeranno celebri in letteratura grazie all’Odissea di Omero. Il mondo che descrive Esiodo, se appunto può essere riferito alla sua epoca, cioè la fine dell’VIII secolo a.C., quel brano è il primo momento dei contatti tra il mondo greco e quello occidentale. È un mondo ancora nebuloso, in cui si può dire che Latino e Agrios, il selvaggio, figli di Circe e Ulisse, regnano sui Tirreni nelle isole sacre dell’estremo Occidente. C’era quindi una fusione tra il mondo latino, quello tirrenico. Almeno questo è il modo in cui i Greci interpretavano popoli che vivevano molto lontani. Alcuni ritengono questo brano un po’ più recente e lo spostano al 600 a.C., ma questi sono dettagli di un mondo nel quale si comincia a ragionare su la discendenza, le parentele, quelle relazioni genetiche che agli occhi dei Greci erano fondamentali per intessere rapporti politici, commerciali ed economici.

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Vaso per attingere l’acqua con Ulisse che acceca Polifemo, proveniente dalla necropoli della Banditaccia di Cerveteri, e conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)

“Un altro aspetto che era fondamentale agli occhi dei Greci era la civilizzazione di un Occidente che era di loro grande interesse economico, ma che appariva barbaro, barbaro come un ciclope poteva apparire: un essere mostruoso da un occhio solo in quell’isola, sacra volendo, come l’Eea di Circe, che la Sicilia, dove viveva in una grotta, non aveva mai conosciuto Polifemo il piacere del vino, e Ulisse, imprigionato nella grotta, glielo farà conoscere, e questo è l’espediente che lo renderà celebre per la sua intelligenza, offrendogli del vino e inducendolo a bere, farà sì che Polifemo rimarrà ebbro, ubriaco, perché non sapeva che il vino dovesse essere bevuto, come facevano i greci, allungato con l’acqua. Il gigante, ebbro, addormentato, fa in tempo poco prima a dire a Ulisse che lo mangerà per ultimo come premio. Ma Ulisse aveva già previsto tutto: con un palo arroventato acceca il suo unico occhio, ma lo lascia vivo in modo che nei giorni seguenti, facendo uscire le pecore dalla grotta, possa dare a Ulisse e ai suoi compagni superstiti l’espediente per scappare. Aggrappati, nascosti sotto le pecore, come si vede nella pisside dalla Tomba della Pania (Chiusi). Questo vaso, quindi, rappresenta quell’idea di civiltà attraverso il vino che è un elemento che ricorre in tutti i miti dei Greci in rapporto con questo mondo occidentale da civilizzare.

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Collezione Castellani: vaso con le fatiche di Ercole conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)

“Ma non è solo Ulisse l’esploratore dell’Occidente, i cui figli diventano addirittura i fondatori di città importanti. Telegono si dice avesse fondato Cerveteri, e altri eroi discendenti più o meno diretti di Ulisse furono fondatori di città in Italia. Un altro eroe civilizzatore, il semidio per eccellenza, è Eracle. In alcune sue imprese aveva attraversato l’Occidente e l’aveva civilizzato. Nella più famosa, quella contro Gerione, il mostro tricorpore e tricefalo, lo aveva portato verso quelle colonne d’Eracle che segnavano il limite estremo d’Occidente: in Spagna, dove oggi è Gibilterra e non lontano Cadice. Lì viene mandato per rapire le mandrie di Gerione e sconfiggere questo essere, sì mostruoso, ma eroico quanto lui. Qui lo si vede in due vasi databili tra il 560 a.C. e il 520. C’è una generazione che li distanzia. C’è un’evoluzione stilistica. Qui Eracle combatte con l’arco, qui combatte con la tradizionale clava. In entrambi i casi si vede l’inizio del soccombere di Gerione, colpito in un occhio da una freccia qui, colpito dalla clava in quest’altro vaso. Eracle poi porterà con sé le mandrie attraverso la nostra penisola. Il primo a descrivere in modo completo questi miti è Stesicoro, un poeta di Imera, un poeta lirico di cui si conservano molti frammenti ma la cui importanza era maggiore di quanto oggi noi immaginiamo, soprattutto in un Occidente indigeno che conosceva molto bene i miti dei greci e li utilizzava anche per i propri scopi. Stesicoro descriveva la Gerioneide e descriveva evidentemente il passaggio di Eracle in Italia lungo la nostra penisola, prima tra i Liguri e poi nell’Etruria. Probabilmente già nella Gerioneide si descrive anche il passaggio di Eracle nel territorio di Cerveteri, dove avrebbe fatto scaturire delle sorgenti d’acqua, perché questa è una delle caratteristiche ricorrenti nel mito di Eracle in Occidente. Proprio dalle parti di Pyrgi, tra Pyrgi e Cerveteri. E poi a Roma, altri miti collocavano appunto l’impresa di Eracle, che portò alla fondazione del suo culto presso l’ara massima. Descritto da Virgilio nell’Eneide il suo incontro appunto con l’essere mostruoso Caco, che viveva in una grotta ai piedi dell’Aventino. Eracle, in un’altra fatica, l’undicesima rispetto alla decima di Gerione, doveva di nuovo tornare in Occidente per recuperare i pomi delle Esperidi. Il mito è controverso. Ricordiamo che un altro autore greco, Pisandro, è quello che ha codificato le dodici fatiche di Eracle facendocele conoscere come oggi sono celebri. Ma ci fu un lungo lavorio per codificarle. L’undicesima fatica infatti ha delle varianti. Una di queste dice che prima di arrivare presso le Esperidi, collocate nell’Africa settentrionale dove Atlante reggeva sul proprio capo la volta celeste, si sarebbe fermato in un luogo emblematico per l’Occidente greco: le foci del Po, dove avrebbe dovuto affrontare un essere mostruoso che, come tutte le divinità connesse all’acqua, aveva la caratteristica di modificarsi, di avere delle repentine metamorfosi. Qui in questa anforetta è raffigurato Triton, ma potrebbe trattarsi di Nereo, e quel Nereo che diciamo costituisce una tappa mostruosa lungo il percorso di civilizzazione di Eracle verso i pomi delle Esperidi. Eracle però era venerato, ammirato agli occhi soprattutto del mondo aristocratico di VI secolo, perché era il dio, l’uomo che era riuscito a diventare dio, superando le dodici fatiche e aiutando gli dei dell’Olimpo contro i giganti nello scontro avvenuto nella piana di Flegra, i Campi Flegrei. Così come venne localizzato in una seconda fase dello sviluppo del suo mito.

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Hydria Ricci (530 a.C.), scoperta nella necropoli della Banditaccia a Cerveteri, e conservata al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia: dettaglio con il rito di sacrificio nei confronti di una divinità, probabilmente Dioniso (foto etru)

“E qui vediamo invece nell’Hydria Ricci, uno dei vasi più belli tra quelli prodotti da maestranze della Grecia ionica in Etruria, il premio ricevuto da Eracle: l’eterna giovinezza e l’eterna vita tra gli dei dell’Olimpo. Qui lo si vede mentre sale sul carro trionfale guidato dalla sua sposa per l’eternità. Ebe, l’incarnazione della giovinezza, lo sta letteralmente portando tra gli dei dell’Olimpo come premio per le sue fatiche, lui che in terra non aveva avuto una fine gloriosa. E in questo stesso vaso, si chiude il cerchio con quello che abbiamo visto rappresentato nel mito di Polifemo, una straordinaria scena che mostra come i Greci ritenevano dovessero essere compiuti i rituali di offerta delle carni e del vino. Vi è un Dioniso, o un sacerdote, che indica un poderoso grappolo d’uva e tutta una serie di adepti al culto che stanno preparando le carni per il sacrificio. Saper bere vino, saper sacrificare, erano agli occhi dei Greci degli elementi fondamentali di civiltà. Gli Etruschi li avevano recepiti, erano idealmente ancor più greci dei Greci nella loro vita quotidiana. E lo affermano in un vaso prodotto da greci, ma per le loro esigenze, nel quale probabilmente una delle possibili interpretazioni in questa scena di sacrificio è coinvolto anche Icario o Malleus, uno dei pirati Tirreni che avevano rapito Dioniso. Ma è anche quello che lo aveva riconosciuto nel famoso mito della trasformazione dei pirati Tirreni in delfini. E colui il quale Dioniso decide di salvare e colui al quale probabilmente Dioniso insegna tutta quella sapienza che renderà gli Etruschi meritevoli di avere thesauroi a Delfi e di dialogare alla pari con i Greci”.

“L’etnocentrismo, anzi, potremmo forse dire impropriamente attualizzando, lo “snobismo” dei Greci è un dato ben noto che non si preoccuparono mai di nascondere più di tanto”, spiega Valentino Nizzo. “Eppure, nonostante questo e l’inevitabile conflittualità che spesso caratterizzò i loro rapporti, fecero alcune rare eccezioni, proprio con gli Etruschi di Cerveteri e con quelli di Spina. Tanto straordinarie quanto significative se si riflette con attenzione sulla documentazione disponibile, seppure tormentata dallo stato lacunoso e frammentario che la caratterizza. Perché Pyrgi venne definita da Servio metropolis degli Etruschi? Quale ruolo ebbero i thesauroi etruschi a Delfi? In che modo questi temi si intrecciano col più ampio dibattito sull’origine degli Etruschi? Questo ed altro potete trovarlo nel terzo episodio”.

“3. CAERE/PYRGI. LA METROPOLIS DEGLI ETRUSCHI E DELFI”. Siamo giunti alla terza puntata di “Rasna. Una serie etrusca” ed entriamo nel vivo dei rapporti fra Greci ed Etruschi. Al centro troviamo la dibattuta questione sull’origine degli Etruschi con tesi diversificate e complesse sulle quali si è andata costruendo la tradizione di questo popolo, a metà tra narrazione del mito e trasmissione della storia condivisa. I Greci hanno certamente contribuito alla costruzione dell’immagine degli Etruschi: da barbari pirati a popolo degno di essere ammesso al santuario di Delfi. Di queste e altre storie ci racconta Valentino Nizzo direttamente dal museo Archeologico nazionale di Ferrara. Il viaggio verso la conoscenza del mondo etrusco è cominciato e ci porterà nel cuore del Mediterraneo dove le relazioni commerciali e culturali ne hanno decretato fama e grandezza.

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Ipotesi di ricostruzione dell’area santuariale di Pyrgi con i templi A e B (foto sabap vt)

“Il più importante commentatore antico dell’Eneide, Servio, nello spiegare un passaggio di Virgilio “Pyrgi Veteres”, aggiunge una frase molto interessante sulla quale si è soffermata la critica. “Questa fortezza fu nobilissima al tempo in cui gli Etruschi esercitavano la pirateria. Infatti fu la loro metropoli. L’uso della parola metropoli non è mai fatto a caso nel mondo antico: indica la città madre, il punto di origine di un intero popolo. Quindi questa affermazione collega direttamente Pyrgi, il santuario portuale di Cerveteri, con le tradizioni sulle origini degli Etruschi che sappiamo sono molto diversificate. Giovanni Colonna ha spiegato l’uso del termine collegandolo a due possibili versioni di questa tradizione. La prima è quella di ascendenza erodotea che ricollegava l’origine degli Etruschi alla Lidia e alla loro emigrazione forzata in seguito a una carestia, verso Occidente. Tuttavia Erodoto li faceva approdare nel paese degli Umbri, quindi sull’Adriatico, dove sorgeva già al suo tempo la città di Spina. Alla fine del V secolo e nel corso del IV, però, questa tradizione viene spostata dall’Adriatico al Tirreno: il punto di approdo dei profughi Tirreni dalla Lidia diventa appunto la spiaggia di Cerveteri. Questa è una sorta di occidentalizzazione del mito originario, della provenienza orientale degli Etruschi, che pone l’accento su una città particolarmente rilevante, non solo a quel tempo o anche prima, ma agli occhi dei Siracusani che potrebbero aver elaborato questa versione, Pyrgi e Cerveteri risultavano senza dubbio importanti. E questa tradizione continuava dicendo che questo Tirreni, approdati nelle spiagge di Cerveteri, avrebbero poi conquistato Cerveteri, che si chiamava Agilla ed era stata precedentemente fondata dai Pelasgi. In questo modo la tradizione si collegava con la versione di Ellanico, quella delle migrazioni, questa volta dei Pelasgi: dalla Grecia, prima a Spina, poi nel centro Italia a Cortona, chiamata Croton erroneamente, e poi la loro irradiazione nell’Etruria propria.

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Il santuario di Apollo a Delfi in Grecia (foto graziano tavan)

“C’è un’altra però versione del mito un po’ più complessa, che dà agli Etruschi un’origine autoctona, dice che sono originari della nostra penisola e il luogo di origine sarebbe proprio l’area di Cerveteri. Anche se forse, questa è la tesi di Colonna, sarebbero arrivati lì dalla Sardegna, ma il discorso è lungo e complesso. A noi interessa evidenziare un aspetto importante della costruzione delle tradizioni, legato all’importanza che agli occhi dei Greci gli Etruschi assumono all’indomani della battaglia di Aleria, nel mare sardo, quando compiono un atto indegno di un popolo civile, quello della lapidazione dei prigionieri focei superstiti alla sconfitta che gli Etruschi avrebbero subito di fronte ad Aleria, in Corsica. Nel luogo dove vennero lapidati, Erodoto infatti dice che più tardi tutti gli esseri che passavano per quel luogo in cui giacevano i Focei divenivano storpi monchi e invalidi. Ugualmente le greggi, gli animali da tiro e gli uomini. Gli Agilei allora mandarono a interrogare l’oracolo di Delfi volendo riparare il fallo, e la Pizia ordinò loro di far compiere quelle cerimonie che gli Agilei compiono ancora oggi. Essi infatti offrono sacrifici funebri grandiosi e celebrano in onore dei morti un agone ginnico ed equestre. Nascono quindi in seguito a questo atto indegno dei giochi, dei sacrifici, evidentemente in onore di divinità che sono probabilmente le stesse collegate a quell’Apollo che aveva espresso il suo parere. Infatti noi sappiamo che anche in un settore del santuario di Pyrgi era venerato un Apollo con funzione oracolare, anche se era un Apollo etrusco, Suri, un Apollo infero, legato anche all’idea che il sole tramonta proprio in quel mare, sul quale Pyrgi si affaccia. Il santuario di Delfi era certamente il santuario più importante della Grecia. Era il luogo dove si andava a consultare la divinità per tramite della Pizia, prima di imprese come la fondazione di una colonia. Lo sappiamo fin dalla fine dell’VIII secolo e questo faceva sì che i sacerdoti di Delfi esercitassero un’influenza molto importante, alla quale corrispondevano anche doni e decime rilevanti. Tuttavia non si andava soltanto a consultare Apollo per la fondazione di città, ma anche in seguito ad atti negativi come la lapidazione dei Focei o, la tradizione ci ricorda e lo mostra uno splendido vaso di Spina da Valle Pega, anche Oreste, dopo l’uccisione di Clitennestra, sua madre, andò a consultare l’oracolo di Delfi per conoscere il modo in cui poteva espiare quel terribile peccato.

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Cratere a volute attico a figure rosse della Tomba 57C di Valle Pega, conservato nel museo Archeologico nazionale di Ferrara, attribuito al Pittore di Kleophon, 430 a.C.. Nel registro superiore: sacrificio in onore di Apollo. Nel registro inferiore: danza orgiastica di satiri e menadi forniti di tirso e fiaccole e alcune con nebrls (foto drm-er)

“Qui vediamo in un altro monumentale cratere da Valle Pega, la scena di una processione, la consacrazione di un toro offerto ad Apollo che attende, seduto idealmente all’interno del tempio, cinto da due grandi tripodi. Il tripode era l’oggetto più caratteristico del santuario di Delfi, e ai piedi di uno di questi tripodi scorgiamo una pietra rotonda che potrebbe essere il celebre omphalos, l’ombelico che “apriva” una porta verso la terra dalla quale uscivano i vapori che consentivano alla Pizia di entrare in contatto con la divinità. Questi due vasi quindi ci mostrano uno scenario fatto di rituali, fatto di dialoghi con la divinità. Ci consentono di entrare nei luoghi più sacri della grecità. E il fatto che un popolo che per una parte della loro storia i Greci considerarono barbaro, fatto di pirati senza scrupoli, sia ammesso a consultare la Pizia e per suo tramite Apollo, indica l’assoluta rilevanza che agli occhi dei Greci avevano almeno a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C. gli Etruschi, grazie al pagamento di cospicue decime dovute anche alle ricchezze che accumulavano con il commercio e forse anche con la pirateria. Gli Etruschi, infatti, si erano potuti comprare uno spazio sacro, un thesauròs a Delfi, nel quale offrire le proprie le proprie decime alla divinità e avere una sorta di precedenza nella consultazione di Apollo. Un onore unico tra i cosiddetti barbari che ebbero città come Cerveteri, e poi anche Spina. E questo la dice lunga quindi dei rapporti tra i Greci e i Tirreni, della loro evoluzione e del significato che questi popoli e queste città dovettero avere agli occhi dei Greci, al punto da indurli a riflettere sulle loro origini e sul perché, in epoche evidentemente anche molto lontane e precoci, tutto ciò era stato possibile. E questi vasi ci offrono uno squarcio di quel mondo greco. Sono vasi prodotti ad Atene che raccontano di una Grecia che per gli Etruschi evidentemente era molto vicina, al punto da volerli con sé nelle loro tombe e ancor prima nelle loro case”.

Sperlonga (Lt). Riaprono il 29 aprile il museo archeologico nazionale e l’area archeologica con la villa e la grotta di Tiberio. Il direttore Mercuri annuncia i progetti per migliorare la fruizione del luogo e l’avvio di nuovi scavi

L’area archeologica di Sperlonga (Lt) con la villa di Tiberio (foto riccardo pesci)

L’area archeologica e il museo archeologico nazionale di Sperlonga (Lt) riaprono al pubblico giovedì 29 aprile 2021. Orario di visita. Museo: dal giovedì alla domenica dalle 8.30 alle 19.30 (ultimo ingresso alle 19). Area archeologica: dal giovedì alla domenica dalle 8.30 alle 16.00 (invernale), dalle 8:30 alle 19 (estivo). Per visitare il museo il sabato ed i giorni festivi è necessaria la prenotazione. Il servizio di prenotazione è attivo dal lunedì al venerdì chiamando il numero 0771 548028. È consentito l’ingresso a gruppi di 15 persone, oltre la guida, solo se munite di sistemi di radioguida (whisper).

Il direttore Luca Mercuri racconta l’esperienza del museo Archeologico nazionale di Sperlonga e area archeologica durante la fase epidemiologica del Covid 19 e le attività messe in campo in occasione della chiusura al pubblico. “Il museo Archeologico di Sperlonga e la sua area archeologica si trovano in un luogo molto speciale e ricco di suggestioni mitiche e storiche”, spiega il direttore Mercuri, “dove l’imperatore Tiberio, uomo colto e raffinato, aveva voluto costruire la sua villa d’ozio in un luogo che per i romani era particolarmente importante perché collegato al mondo dell’antica Grecia ma anche al mito della fondazione di Roma. Il museo di Sperlonga è un museo molto amato, quindi la prima azione che è stata fatta nel momento in cui l’emergenza sanitaria ha imposto la chiusura del museo è stata quella di mantenere il contatto con il territorio. Si è puntato molto sulla parte del racconto, quindi presentare i personaggi come Polifemo, Ulisse, Scilla. Il grande successo dell’iniziativa tenuta sul profilo social di Sperlonga ci ha fatto capire ancora di più quanto effettivamente il pubblico abbia bisogno di questi sistemi di fruizione integrata. Il nostro obiettivo principale è quello di creare un’unione più forte tra l’area archeologica e il museo. Quello che noi vogliamo fare è inserire dei calchi delle sculture che decoravano la grotta al suo interno, ma anche un progetto di illuminotecnica che consentirà anche soltanto attraverso l’uso della luce sia di rendere la grotta banalmente più bella e più suggestiva per i visitatori, ma anche dare proprio delle indicazioni, illuminando i punti in cui le sculture più famose si trovavano originariamente. La villa è nota, però ci sono delle parti che non sono ancora state scavate o altre che sono state scavate solo parzialmente. Quindi attraverso la collaborazione con le università e con la soprintendenza del nostro ministero sarà possibile dare il via a delle campagne di scavo che potranno essere in qualche modo collegate alla fruizione del monumento perché si potrà dare ai visitatori anche un’immagine diversa di un sito la cui conoscenza è ancora  in progress, vedere come i nostri luoghi della cultura non sono dei luoghi cristallizzati nel tempo, ma la cui conoscenza continua a progredire con ulteriori attività”.

Veduta dei resti della villa di Tiberio prospiciente il mar Tirreno (foto drm-lazio)
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Suggestivi scorci dalla grotta di Tiberio (foto drm-lazio)

La storia degli scavi. Nel 1957 i costruttori della strada litoranea fra Terracina e Gaeta furono protagonisti di una scoperta eccezionale. A poche centinaia di metri dalla cittadina di Sperlonga, lungo l’antica via Flacca Valeria, s’imbatterono in una serie di resti archeologici, che nel giro di breve tempo furono identificati con la villa di Tiberio (imperatore dal 14 al 37 d.C.), più volte citata dalle fonti antiche ma la cui collocazione era sconosciuta. La villa, il cui primo nucleo risale all’età tardo repubblicana, era costituita da una serie di terrazze rivolte sul mare. In quanto residenza imperiale era inoltre impreziosita da una ragguardevole collezione di oggetti d’arte che includeva teste, busti, statue e gruppi marmorei. Alcuni di questi oggetti vennero alla luce nel corso degli scavi e recuperati, sebbene ridotti allo stato di frammenti minuti. I loro temi richiamano sovente la leggenda di Ulisse, come per esempio una statua dell’eroe, il Gruppo di Scilla e il Gruppo del Polifemo accecato: gli ultimi due possono riferirsi agli scultori Athanodoros, Hagesandros e Polydoros di Rodi, gli stessi maestri che realizzarono il celebre Gruppo del Laocoonte scoperto nel 1506 ed esposto nei Musei Vaticani. L’attenzione su Ulisse è in accordo con la storia e le leggende che ancora oggi avvolgono il luogo. Fin dall’età romana si credeva infatti che il grande promontorio a nord fosse l’isola della maga Circe.

Il gruppo di Ulisse e Polifemo al centro del museo Archeologico nazionale di Sperlonga (foto drm-lazio)

Il museo fu appositamente edificato per ospitare i monumentali gruppi scultorei rinvenuti in migliaia di frammenti alla fine degli anni Cinquanta nella celebre Grotta che si apre sul mare, elemento caratterizzante di un vasto complesso residenziale solitamente identificato con il praetorium, cioè palazzo, posseduto dall’imperatore Tiberio. La raccolta comprende altri pregevoli reperti, in massima parte scultorei, riferibili all’apparato ornamentale della villa: accanto a opere di intento celebrativo della Gens Iulia (rilievo di Venere Genitrice, erma del cd. Enea), figurano immagini di divinità (Dioniso, Athena, Salus), esemplari di ritrattistica (testa di Traiano e di un imperatore di età tetrarchica) ed elementi prettamente decorativi (statua di fanciulla panneggiata identificabile forse con Circe, putti, satirelli, maschere teatrali), databili soprattutto al I sec. d.C. Si tratta in genere di repliche o rielaborazioni in marmo di archetipi, spesso bronzei, del periodo classico ed ellenistico (V-VI e III-I sec. a.C.), anche se non mancano creazioni di carattere arcaicizzante o di sapore eclettico.

Forlì. La mostra ”Ulisse. L’arte e il mito” è candidata alla settima edizione del Global Fine Art Awards (GFAA) in competizione con le esposizioni di British, Paul Getty, Metropolitan. A una settimana dalla chiusura ripercorriamo il viaggio di Ulisse dall’Odissea ai nostri giorni

La presentazione delle mostre in nomination nella sezione “Best ancient” del premio GFAA con “Ulisse. L’arte e il mito” di Forlì

La mostra ”Ulisse. L’arte e il mito” è candidata alla settima edizione del Global Fine Art Awards (GFAA). L’annuncio della nomination è arrivato nella serata del 18 ottobre 2020 in diretta Facebook da Parigi e New York, durante la quale sono stati presentati i 118 eventi artistici selezionati in rappresentanza di 6 continenti, 31 paesi e 68 città di tutto il mondo (vedi il video dell’annuncio https://www.facebook.com/watch/?v=790005045109144). L’esposizione forlivese, allestita fino al 31 ottobre 2020 ai musei San Domenico di Forlì, a cura della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, è stata nominata nella categoria ”Best Ancient”, al pari del British Museum di Londra (“Troy: Myth and reality”), del J. Paul Getty Museum di Los Angeles (“Mesopotamia: Civilization Begins”), del Metropolitan Museum di New York (“Crossroads”), del Museu d’Arqueologia de Catalunya di Barcellona (“Art primer. Artistes de la prehistoria”) e del Louvre di Abu Dhabi (“Furusiyya: The Art of Chivalry between East and West”), anch’essi in corsa per la stessa sezione. Il Global Fine Art Awards è il concorso internazionale d’arte che dal 2014 premia le mostre e le rassegne culturali più innovative e rilevanti dell’anno, attraverso una giuria internazionale di curatori e storici dell’arte. Il principio e l’obiettivo del programma GFAA è quello di sviluppare interesse e passione per le belle arti e di promuoverne il ruolo educativo nella società.

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La locandina della mostra “Ulisse. L’arte e il mito” a Forlì dal 19 maggio al 31 ottobre 2020

Ancora una settimana per visitare la mostra “Ulisse. L’arte e il mito” che chiude il 31 ottobre 2020 (e data la grande affluenza di pubblico, l’ultimo giorno la mostra sarà visitabile fino alle 23). Per chi non ce la farà ad andare a Forlì, e per chi – pur avendola vista – vuole ripercorrerla idealmente, ecco una piccola visita guidata nelle diverse sezioni in cui si articola l’esposizione forlivese: un grande viaggio dell’arte, non solo nell’arte. Una grande storia che gli artisti hanno raccontato in meravigliose opere. La mostra narra un itinerario senza precedenti, attraverso capolavori di ogni tempo: dall’antichità al Novecento, dal Medioevo al Rinascimento, dal naturalismo al neo-classicismo, dal Romanticismo al Simbolismo, fino alla Film art contemporanea. Il protagonista dell’Odissea è il più antico e il più moderno personaggio della letteratura occidentale. Egli getta un’ombra lunga sull’immaginario dell’uomo, in ogni tempo. L’arte ne ha espresso e reinterpretato costantemente il mito. Raccontare di Ulisse ha significato raccontare di sé, da ogni riva del tempo e raccontarlo utilizzando i propri alfabeti simbolici, la propria forma artistica, attribuendogli il significato del momento storico e del proprio sistema di valori.

Sezione: L’antefatto. Il Concilio degli dei. Troia è distrutta. Dopo dieci anni di guerra si cantano i nòstoi (i ritorni) degli eroi greci superstiti. Ogni re, ogni principe salpa con i suoi soldati verso il ritorno. L’Odissea è l’unico poema del ciclo dei ritorni che rimane. E conserva al suo interno le tracce di altri racconti. Nestore racconta a Telemaco, giunto a Pilo alla ricerca di notizie del padre, da dieci anni disperso, degli eroi cui gli dei e la guerra negarono il ritorno. Giacciono sulla piana di Troia Achille, Aiace, Patroclo, Antiloco. Felice ritorno hanno fatto Idomeneo, Filottete, Neottolemo (figlio di Achille), Menelao con Elena, sua sposa. Tragico il ritorno di Agamennone, ucciso nella casa da Clitennestra, sua sposa, e dal rivale Egisto. Di Ulisse (Odisseo) non si sa. La sua fama di distruttore di Troia è giunta ovunque. Egli è ripartito. È disperso. “Un dolce ritorno tu cerchi, glorioso Odisseo; amaro invece te lo farà un Dio”. Così gli ha profetizzato l’indovino Tiresia nell’Ade. Dopo l’ultimo naufragio, perduti tutti i compagni, Ulisse è da lungo tempo nell’isola di Ogigia, trattenuto dall’amore della ninfa Calipso. Atena, al Concilio degli dei, implora Zeus di farlo tornare, poiché il suo cuore piange il ritorno e la casa. Del Concilio degli dei si dice due volte nell’Odissea, all’avvio del libro primo e del quinto. Il dibattito attiene in primo luogo alla questio se sia lecito attribuire agli dei il destino nefasto degli uomini o se essi, protagonisti fondamentali del loro destino, non attribuiscano alla volontà degli dei una sventura colpevole. L’esempio è quello della sorte di Agamennone. Ma Atena solleva la causa di Ulisse e del suo ritorno. In quella terra incognita che è il mito si incontrano uomini e dei.

Il Concilio degli dei, oggi al castello di Praga, realizzato da Rubens per i Gonzaga, apre la mostra “Ulisse. L’arte e il mito” (foto Graziano Tavan)

L’arte si è occupata fin dall’antico del tema, sia in riferimento all’episodio omerico, sia come illustrazione delle principali divinità dell’Olimpo. L’occasione della mostra forlivese ha così consentito di mostrare alcuni capolavori tra le sculture dell’antichità: dall’Atena partenopea (copia romana da un originale greco del V secolo a.C.), raffigurata con l’elmo in testa e l’egida sul petto con gorgoneion centrale; alla Venere di Venafro; al Marte e alla Demetra in marmo nero (oggi agli Uffizi), copia romana di stupenda fattura di età imperiale; alla Era dei Capitolini; alla Venere callipigia del museo Archeologico di Napoli. E di particolare pregio è il Dodekatheon. Si tratta di un’ara circolare raffigurante le dodici divinità racchiuse tra due kymation. L’opera del I sec. a.C. è derivata da un originale di Prassitele. Dialoga con queste opere dell’antico la grande tela, realizzata da Rubens nei primi anni del soggiorno mantovano, presso la corte di Vincenzo I Gonzaga (oggi al castello di Praga). Rubens rielabora il Concilio degli dei dipinto da Raffaello sulla volta della loggia di Psiche a villa Farnesina.

Sezione: la nave e il viaggio. I Greci furono dei grandi viaggiatori, tutta la loro vita è proiettata sul mare, e Ulisse nell’immaginario collettivo di tradizione umanistica, incarna il viaggiatore per eccellenza. La sua peregrinazione è tutta sul mare. Quando lascia l’isola di Calipso lo fa su una zattera che costruisce lui stesso. E naviga seguendo in mare le vie indicategli dagli astri. Le fonti storiche e archeologiche per la ricostruzione degli aspetti e delle conquiste compiute dall’ars nautica nell’antichità non sono poche; e tuttavia, il loro reperimento è privo di sistematicità. Non disponendo per la nautica antica di un trattato tecnico al pari di quelli per l’agricoltura (Varrone e Columella) e per l’architettura (Vitruvio). I relitti – una parte irrisoria rispetto alle imbarcazioni realizzate – ne sono la fonte privilegiata. La Sicilia, per la sua posizione privilegiata, fu partecipe sin dalla preistoria delle principali rotte che attraversano il Mediterraneo. Le fonti letterarie, a partire da Omero, tramandano di figure mitologiche che segnano le tappe di questi primi viaggi pioneristici nel continente nesiotico siceliota: dai ciclopi ai Lestrigoni, a Eracle, a Minosse in cerca della reggia di Cocalo sulle tracce di Dedalo…

La nave greca arcaica di Gela, eccezionale reperto, tra i più antichi, qui in mostra per la prima volta grazie alla generosa collaborazione della Regione Siciliana, attesta sia l’intensità politico- commerciale dei rapporti, sia la qualità tecnica di realizzazione di una imbarcazione di 17 metri. Se i relitti rinvenuti nelle acque di Lilibeo (la nave punica e quella romana di Marausa di cui in mostra sono esposti i rostra), Camarina e Gela forniscono puntuali indicazioni circa i carichi e, quindi, i commerci e le rotte e la vita di bordo.

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Omero tipo “cieco ellenistico”, busto del II sec. d.C., conservato ai musei Capitolini di Roma (foto Graziano Tavan)

Sezione: Omero e l’elaborazione del mito nell’antichità. Sin dal primo verso dell’Odissea Ulisse è definito polytropos, cioè versatile. La sua figura sfugge a quella ristretta casistica di virtù guerriere nella quale sono incasellati tutti gli eroi greci venuti a combattere sotto le mura di Troia. Anche il suo fisico, minuto, ma imponente e largo di spalle, sembra rispecchiare il carattere contraddittorio di un uomo goffo e incerto nell’andare che però “quando faceva uscire dal petto la voce profonda / e le parole come fiocchi di neve d’inverno” (Il., 3, 221-223) non era secondo a nessuno. Ulisse sa essere un guerriero forte sul campo di battaglia, ma al suo carattere sono di gran lunga più congeniali le azioni compiute in notturna insieme a Diomede, come, ad esempio, il ratto del palladio. Il suo ruolo diventa indispensabile solo nel caso di ambasciate, riconciliazioni e mediazioni, occasioni nelle quali all’Ulisse aristocratico si sostituiva l’Ulisse politico che, nell’arte retorica, aveva la sua arma migliore. Se restituire in immagini le gesta di un guerriero è un’impresa relativamente facile, fare lo stesso con un eroe signore degli inganni e dell’arte della parola è assai più complesso. Non fu un caso che la prima impresa del re di Itaca a essere rappresentata nell’arte greca sia stata l’accecamento del ciclope. Seconda, in termini cronologici e di diffusione, fu la fuga di Ulisse e dei compagni legati sotto il vello degli arieti di Polifemo. La produzione ceramica attica a figure nere e rosse del VI e V secolo a.C. dette vita, infatti, a una produzione seriale di vasi ornati con questo motivo. Nella tradizione pittorica arcaica tanto l’episodio del ciclope che quello della fuga dall’antro sono un’azione corale nella quale la figura di Ulisse non è riconoscibile con certezza. Sarà, infatti, solo nella prima metà del V secolo a.C. che comincerà a definirsi un’iconografia di Ulisse costruita con attributi e caratteristiche fisionomiche ricorrenti: un aspetto maturo e barbato, una capigliatura mossa da riccioli, in testa un pileo, il berretto usato dai marinai e viaggiatori, e, come veste, l’exomide, una semplice tunica corta.

Sezione: la ripresa dei modelli antichi e l’eredità romana. La fortuna di Ulisse e del suo mito nella cultura romana coincide con la nascita stessa della letteratura latina. Il primo poema epico latino di cui si abbia notizia certa è infatti l’Odusia di Livio Andronico. Perché, sul finire del III secolo a.C., questo tarantino naturalizzato romano, abbia deciso di realizzare una traduzione d’autore proprio delle vicende di Ulisse, non è semplice spiegarlo. Forse una società come quella romana di quegli anni, in piena espansione commerciale e militare nel Mediterraneo centrale e orientale, era istintivamente propensa a identificarsi con un eroe che quelle terre e quei mari aveva attraversato affrontando ogni genere di pericoli e sfide. Sarà soprattutto l’episodio di Polifemo a suggestionare gli artisti che, forse già in età tardo-ellenistica, dettero vita a un modello figurativo destinato a influenzare profondamente il gusto di età successiva. Ad esempio, nella villa di Sperlonga, buen retiro dell’imperatore Tiberio, l’accecamento del ciclope era parte di una vera e propria antologia in scultura delle imprese di Ulisse, di cui faceva parte il gruppo detto del Pasquino, in questo contesto interpretato come Ulisse con il corpo di Achille, il ratto del palladio e la lotta dell’eroe contro i mostri marini Scilla e Cariddi. Il re di Itaca fu il primo motore di quella concatenazione dei tragici eventi troiani (i fatalia troiana) grazie ai quali Enea fu costretto ad abbandonare la sua patria e a dar inizio a quella stirpe Iulia di cui Tiberio era membro adottivo. Nella figura dell’imperatore sembravano confluire due destini strettamente legati fin dalla notte dei tempi: quello di Ulisse, il cui figlio Telegono avrebbe appunto fondato la città d’origine della gens claudia, e quello di Enea, ai cui discendenti era stato affidato lo scettro di Roma.

Sezione: le sirene del Medioevo. Cosa cantano le sirene? E come sono? Omero non lo dice. Né lo dice, l’altra grande tradizione, quella ebraica, Isaia: “Le sirene e i demoni staranno in Babilonia” (Is 13,21). Per i Greci erano donne-uccello. Donne seducenti con zampe e code d’uccello. Così sono raffigurate nell’antichità. L’analogia con gli uccelli deriva forse dalla melodia del canto. Nella mitologia, esse sono il risultato di una metamorfosi punitiva occorsa alle ninfe, distratte giovani ancelle, che vegliavano su Persefone il giorno che Plutone la rapì. Di certo, da Omero in poi esse cantano la morte. Una precisa menzione delle donne-pesce la troviamo nel Liber monstrorum de diversis generibus, un repertorio mitografico composto tra il VII e l’VIII secolo d.C., forse da Aldelmo di Malmesbury: donne-pesce bellissime che seducono i marinai. Molti bestiari si sono incaricati di tramandarne il mito: dal Physiologus alessandrino del II secolo d.C., a quello latino, appena successivo al Liber monstrorum, al Bestiaire di Gervaise, al Bestiaire d’Amours, fino ai componimenti di Brunetto Latini e Cecco d’Ascoli. Siamo nella visione medievale. Seduzione sessuale e minaccia mortale. Nell’arte romanica sono riprodotte ovunque, dai capitelli delle chiese, ai bassorilievi, ai mosaici, ai sarcofagi. Di solito sono bicaudate. I capelli sciolti, con la doppia coda aperta, alzata ai lati del corpo, in un atteggiamento sensuale. Di quella secolare visione del fantastico e del mostruoso che minaccia gli uomini si fa carico ancora Dante, che nel XIX canto del Purgatorio (vv. 19-24) ne mantiene la simbologia: “‘Io son’, cantava, ‘io son dolce serena / che’ marinai in mezzo mar dismago; / tanto son di piacere a sentir piena! / Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio; e qual meco s’aùsa, / rado sen parte; sì tutto l’appago”.

Sezione: Dante, Inferno – XXVI Canto. Dante, che scrive duemila anni dopo il cosiddetto Omero, non usa direttamente la tradizione greca, ma quella latina (Cicerone, Stazio, Virgilio, Orazio, Ovidio), che a differenza dei post-omerici ha rivalutato le qualità umane di Ulisse. Nel canto XXVI dell’Inferno, Dante può conferire per questo a Ulisse una nuova e diversa centralità. Fino a sovrapporre il suo Ulisse a quello di Omero. Il suo Ulisse non appartiene più al ciclo dei nostoi, dei ritorni da Troia. Egli è semmai una figura aperta al nuovo mondo. Il suo protagonista non è spinto dalla nostalgia del ritorno, né, come l’Enea virgiliano, da una missione; egli è un viandante, spinto dall’ardore “a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”, e si lancia “per l’alto mare aperto”, verso il “folle volo”. Storia potente e controversa la versione dantesca di Ulisse, nella quale i due destini (Dante e Ulisse) si incontrano e si sovrappongono, poiché anche la Commedia è un viaggio – che coinvolge la visione cristiana del destino dell’uomo proprio nel confronto con l’etica antica. L’influsso di Dante e del suo Ulisse sull’arte è strettamente legato alla realizzazione dei cicli illustrati (tra manoscritti e prime edizioni a stampa) della Commedia. È inizialmente un interesse testuale, legato al corredo illustrativo, ma col passare del tempo si fa interpretativo. I capolavori illustrativi di Mariotto di Nardo e Guglielmo Giraldi della Biblioteca Apostolica Vaticana, o il Miniatore della Marciana, fino al Dante istoriato e illustrato di Botticelli e poi di Zuccari, segnano un influsso che autonomamente la pittura si incaricherà dapprima di accompagnare e in seguito, soprattutto nell’Ottocento (il vero secolo di Dante nell’arte), di sviluppare autonomamente, facendo vivere i singoli personaggi di storia propria, in una vicenda quasi staccata dal poema dantesco.

Il Trionfo della Castità, dipinto quattrocentesco su tela incollata su tavola, di Liberale da Verona, conservato al museo di Castelvecchio di Verona (foto Graziano Tavan)

Sezione: la visione moralizzata del Quattrocento. Nella vastità degli intrecci culturali e delle stratificazioni simboliche che l’arte e la cultura di ogni tempo hanno legato alla figura iconica di Ulisse, non si potevano non mostrare le narrazioni omeriche dipinte sui cassoni del Quattrocento. Essi appartengono in molta parte ancora al gusto di una letteratura tardo-gotica ed epi-cocortese, assai prossima ai poemi cavallereschi destinati a una fruizione d’evasione, e intenti a celebrare eventi nuziali di ricche famiglie mercantili (si tratta infatti per lo più di cassoni dotali), menzionati dallo stesso Huizinga nel suo Autunno del Medioevo. Se il Medioevo sedimenta nel Cristianesimo quella cultura di imitazione dei modelli classici, quali archetipi già avviati dalla letteratura e dall’arte della tarda latinità pagana, il Quattrocento porta a compimento un percorso integrativo e rinnovativo dei medesimi. Qui le storie di Ulisse, la figura di Penelope, la partenza e il ritorno dalla guerra di Troia, l’attesa fedele della sposa assurgono a modelli di una vicenda che è proposta, a un tempo, come familiare e sociale: la virtù d’amore e le responsabilità civiche, assieme.

Il giudizio di Paride e il Ratto di Elena nei due olii su tavola cinquecenteschi di Lambert Sustris conservati nel Musei Reali di Torino (foto Graziano Tavan)

Sezione: la virtù del Principe. Ulisse e l’ideale rinascimentale. Nella variegata tradizione interpretativa che i secoli hanno costruito intorno alla figura di Ulisse, l’arte nel Cinquecento – confortata dalla ripresa della lettura diretta di Omero, dal riaccostarsi alle fonti latine (Ovidio sopra tutti), dal permanere dell’esegesi dantesca e dalla stagione porfiriana del neoplatonismo – ne riscopre la figura come allegoria morale e politica. La sua odissea è una vasta prova che insegna a evitare il vizio e conduce alla virtù. Se il debito con la letteratura, quella antica e i revival contemporanei, rimane, gli artisti vedono in Ulisse, così come in Ercole, un simbolo affine alla loro arte: quello della faticosa ricerca della verità. La sapienza, la prudenza, l’astuzia vengo assurte a virtù generali, ma sono i tratti ideali della formazione del principe e del suo operare, in una corrispondenza inedita. Francesco I ed Enrico II di Francia, Cosimo de’ Medici, Ercole II d’Este e i Farnese, scienziati come l’Aldrovandi o cardinali come il Poggi: tutti si rispecchiano nel mito di Ulisse. Mitografia classica e mitologizzazione del proprio destino. Le storie di Ulisse divengono veri e propri programmi iconografici nelle realizzazioni di cicli pittorici delle loro dimore.

Laocoonte a confronto nella mostra di Folrì: davanti quello di Vincenzo De Rossi che si ispira al gruppo scultoreo del I sec. d.C. (qui un calco in gesso dell’originale ai Musei Vaticani) ritrovato a Roma nel

All’avvio del secolo, il ritrovamento a Roma (1506) del gruppo del Laocoonte – copia in marmo di un originale ellenistico in bronzo del 140 a.C., voluta da Tiberio prima del 31 d.C., legato al mito di Ulisse e all’inganno del cavallo, alla distruzione di Troia e alla nascita di Roma – rivoluzionerà le forme della scultura e influenzerà profondamente la pittura successiva. Il confronto tra il calco vaticano e l’opera di Vincenzo De Rossi, i disegni di Filippino Lippi e di Parmigianino ci portano a intendere la profondità che in alcuni passaggi storici ha avuto il rapporto tra l’arte e il mito ulissiaco. In questo caso la fortuna iconografica e l’ispirazione formale attraversano i secoli fino a percorrere il Novecento. Ma oltre alla rivoluzione formale che esso innesca (le versioni nuove di Bandinelli e De Rossi, il calco in bronzo di Primaticcio per Fontainebleau), il gruppo vaticano attesta anche il legame diretto col passato, in particolare attraverso i suoi autori – Atanadoro, Agesandro e Polidoro di Rodi –, che furono anche gli autori delle sculture del gruppo di Scilla della grotta di Tiberio a Sperlonga, presente in mostra con il volto di Ulisse.

La sala nella mostra “Ulisse. L’arte e il mito” dedicata al mito di Ulisse nell’arte del Seicento (foto Graziano Tavan)

Sezione: umane passioni e natura ideale nel mito seicentesco. Con il passaggio dal Cinquecento al Seicento e alla temperie barocca l’interesse per i testi omerici crebbe notevolmente, in particolar modo per l’Odissea e i suoi protagonisti. Anche sulla scorta della fortuna della moderna epica cavalleresca dell’Orlando furioso e della Gerusalemme liberata, le trame avvincenti del viaggio di Ulisse tornarono a sollecitare fortemente l’immaginazione degli artisti. Come nella pittura da cavalletto, anche nell’affresco le vicende dell’Odissea trovarono un certo successo. Nella grande decorazione l’atto d’inizio di questa moda rinnovata, al passaggio dal vecchio al nuovo secolo, è rappresentato dagli affreschi del camerino di palazzo Farnese a Roma, realizzati da Annibale Carracci tra 1595 e 1597 per volere del cardinale Odoardo. Nelle intenzioni di Fulvio Orsini, bibliotecario di casa Farnese artefice del programma iconografico, le due lunette dedicate a Ulisse (al suo incontro con le sirene e con Circe) si intrecciavano al tema di Ercole in una fitta rete di rimandi allegorici che alludevano alle virtù del committente. Sulla scorta dei Carracci e del camerino Farnese le Storie di Ulisse furono affrescate anche in terra emiliana, dal Guercino in casa Pannini a Cento. I temi ulissiaci riscontrarono molta popolarità anche nel mondo fiammingo. Nelle Fiandre fu Pietro Paolo Rubens a inaugurare la mania di Ulisse con una serie di dipinti a soggetto omerico, tra cui l’Ulisse nell’isola dei Feaci. Ripercorrendo la fortuna dell’Odissea nel corso del Seicento si resta però davvero colpiti dalla quantità di opere che hanno trattato la figura di Circe. È come se il secolo delle scienze – il secolo di Galileo – avesse paradossalmente riscoperto il potere avvincente, misterioso e iniziatico del mondo della magia.

Sezione: dei ed eroi. le forme neoclassiche del mito. Il Parnaso, affrescato nel 1761 da Mengs su una volta di villa Albani a Roma, è considerato il manifesto del Neoclassicismo sia per il suo programmatico rigore formale, ispirato all’antico, nell’evidente ripresa dell’Apollo del Belvedere, sia perché la celebrazione delle Muse appare come l’invito a esplorare con un nuovo impegno morale i territori del mito e della storia in polemica con il disimpegno della pittura Rococò. I poemi omerici hanno rappresentato una inesauribile fonte di ispirazione per lo stile, la forza e la nobiltà dei loro contenuti. Ancora prima della diffusione della riforma neoclassica, un artista che la ha anticipata come Batoni ha esaltato, rappresentandone la fuga da Troia, la pietà filiale di Enea che porta in salvo il padre. Rispetto ai tradizionali temi dell’Odissea emergono quelli relativi al recupero dei legami familiari con il ritorno di Ulisse a Itaca. Un grande rilievo assumono le vicende di Telemaco. Rispetto alle peripezie del viaggio, relative a personaggi antagonisti come Circe che viene progressivamente a perdere dell’interesse goduto nei secoli precedenti, prevale il faticoso travaglio anche morale del ritorno a Itaca. Ma a questo punto entra in scena la figura di Penelope, che, individuata come esempio di fedeltà e virtù, diventa la “deuteragonista”. Pure la commovente vicenda della nutrice Euriclea che riconosce il padrone ha conosciuto una certa fortuna. Ma a questo Neoclassicismo sentimentale, basato sull’esaltazione degli affetti familiari attraverso un registro formale caratterizzato dalla grazia, si contrappone quella ricerca del sublime. I personaggi e le vicende dell’Odissea diventano occasione per esplorare i territori dell’irrazionale, specchio di un’umanità tormentata che si interroga sul proprio destino come nell’episodio privilegiato di Ulisse nell’Ade che chiede a Tiresia il suo futuro. Un altro grande interprete del mondo omerico è stato Hayez, quando ha rappresentato l’atroce ed eroica fine di Laocoonte o di Ajace, o quando ha preferito rendere la commozione di Ulisse alla narrazione di Demodoco sulla guerra di Troia.

La Sirena, olio su tela (1900) di John William Waterhouse conservata alla Royal Academy of Arts di LOndra (foto Graziano Tavan)

Sezione: il canto delle sirene. seduzione e morte. Nel mondo simbolista le sirene per metà donna e per metà pesce – una evoluzione dell’originario ibrido donna-uccello della Grecia antica – divennero le figure più popolari di una serie di creature femminili marine (nereidi, ondine, oceanine) in cui l’arretramento verso l’elemento acquatico rispondeva al nostalgico desiderio di una simbiosi totale tra l’uomo, liberato dalle costrizioni borghesi, e una natura rigeneratrice e immemorabile, ancorata ai miti semplici delle origini. Era poi nell’acqua, in cui Freud avrebbe visto una metafora dell’inconscio, che l’estetica simbolista individuava l’elemento in cui potevano concentrarsi traslati allegorici profondi, in bilico tra la vita e la morte. C’è un altro aspetto da considerare. Svincolate dalle trame narrative del mito, isolate in contesti enigmatici, alle soglie della modernità le sirene pisciformi, ma anche gli altri ibridi marini femminili, si fecero portatrici della multiforme complessità di un nuovo universo femminile in cui coesistevano il desiderio sessuale, la potenza dell’eros, la seduzione ingannevole, l’attrazione e la repulsione, l’elemento materno, la fierezza – talvolta crudele – della donna moderna, in grado di amare con libertà e consapevolezza e di soggiogare l’uomo.

Calypso, marmo del 1853 di Célestin-Anatole Calmels conservato al Musées d’Amiens

Sezione: dal Romanticismo alle inquietudini simboliste. Per quanto riguarda i temi privilegiati dell’Odissea esiste una continuità tra la grande stagione neoclassica e il nuovo clima del Romanticismo che impone in realtà nuove tematiche estranee al patrimonio figurativo e letterario dell’antichità. Per trovare un nuovo naturalismo romantico bisogna confrontarsi con un episodio, già molto rappresentato nel secolo precedente ma ora oggetto di un rinnovato e sempre più vivo interesse, che è il drammatico e commovente riconoscimento di Ulisse da parte della sua vecchia nutrice Euriclea. Un altro ricongiungimento fatale è quello tra Ulisse e Telemaco che ritroviamo tra i temi riproposti sino agli anni ottanta dell’Ottocento dall’École des Beaux-Arts di Parigi per il prestigioso Prix de Rome. Ma gli esiti più convincenti si devono alla scultura, che esalta il fascino di alcuni personaggi come la Calipso di Calmels rappresentata seduta sulla riva del mare, mentre esprime come una sorta di incarnazione romantica della malinconia tutto il suo struggimento per l’abbandono da parte di Ulisse; o che ferma nel bronzo di Grandi il protagonista nella tensione eroica della incipiente vendetta da cui sarà coronato il ritorno a Itaca e compiuto il suo riscatto. Ma nel clima decadente di fine secolo è inevitabile che ritrovi una prepotente attualità la figura di Circe destinata a diventare un tema emblematico della poetica e dell’ideologia del Simbolismo proprio per quanto riguarda la concezione della donna e la sua emancipazione. La Circe di Chalon, evocata in un dipinto che risente del linguaggio visionario e dell’atmosfera senza tempo di Moreau, appare come un idolo crudele e distante capace di annientare ogni volontà con la forza terribile della sua seduzione.

La grotta delle ninfe della tempesta, olio su tela del 1902 di Edward John Poynter conservato all’Hermitage Museum di Norfolk (foto Graziano Tavan)

Sezione: illustrare il mito. La cultura grafica europea a partire dal Neoclassicismo aveva distillato grandi interpreti dei poemi omerici, primo fra tutti John Flaxman le cui illustrazioni, dal contorno quasi cesellato e privo di volume e di profondità, determinarono fra la fine del Settecento e i primi del XIX secolo una rivoluzione dell’incisione e del disegno. La suggestione della tecnica flaxmaniana, senza chiaroscuri, avrà una rapida diffusione in tutta Europa stimolando ulteriori versioni incise dei poemi omerici, specialmente in ambito tedesco, la cui eco è riscontrabile in alcune incisioni del principale protagonista della grafica simbolista europea: Max Klinger. La maggior parte degli artisti europei tra Ottocento e Novecento perseguì però un approccio rabdomantico alle fonti classiche traducendo graficamente la narrazione omerica in una immagine stereotipata della grecità. Tracciando una sorta di geografia iconografica le avventure di Ulisse rivestirono infatti un ruolo relativamente defilato, suscitando una serie di reazioni profondamente individuali basate sull’eco della ricezione di Omero nelle diverse aree nazionali. In area francese emerse, ad esempio, un considerevole caleidoscopio di immagini collegate ad alcune mitiche figure femminili dell’Odissea che ben si adattavano al nuovo ideale di donna e la cui raffigurazione divenne il pretesto per l’identificazione con la femme fatale, sanguinaria e passionale: Circe e le sirene furono le portavoci di un’idea di femminilità ferina, crudele e malvagia, consentendo altresì di permeare i versi omerici di un’aurea di sottile e raffinato erotismo.

Sezione: narrami, o musa. Durante il XX secolo la rivisitazione del personaggio di Ulisse da parte di artisti e intellettuali si sviluppa lungo diverse trame, allineandosi perfettamente con lo spirito irrequieto tempi. Grazie al forte richiamo esercitato dall’ambiente artistico monacense, e alla presenza sul territorio italiano di molti artisti di area germanica, le letture tedesche del mito di Odisseo non faticano a diffondersi tra gli artisti italiani. Sono però i fratelli De Chirico, Giorgio e Alberto Savinio, a rinnovare considerevolmente tali modelli, con numerose opere a tema odisseico, spesso costruite d’après le invenzioni di Arnold Böcklin ma aggiornate sulla loro ricerca stilistica, e caricate di un tono fortemente autobiografico. La continua fascinazione per i personaggi femminili dell’Odissea più oscuri, poi, come Circe o le sirene, testimonia il perdurare dei modelli decadentisti della femme fatale, seducente e distruttiva, a fianco di esempi muliebri più malinconici e lirici, come Nausicaa, allusione all’amore sofferto e non detto. Ulisse sarà eletto a metafora della propria inquietudine esistenziale e artistica da molti artisti durante il Novecento. Nel 1922 l’Ulysses di Joyce fornirà un esempio cardinale di come un grande classico possa essere riformato con un linguaggio stilisticamente nuovo e audace, e calato nella quotidianità più contemporanea. Esiste nel Novecento una cultura, quella che si è riconosciuta sotto le insegne del cosiddetto “ritorno all’ordine”, che non si identifica e anzi rifugge dalle seduzioni della modernità e si proietta in un’antichità nostalgica, dove le antiche Muse e il canto di Omero diventano una guida nel faticoso viaggio dell’uomo contemporaneo, dopo lo smarrimento della Grande Guerra, alla ricerca della propria identità. Le silenziose divinità della pittura metafisica, le Muse inquietanti di De Chirico che si affacciano con i loro paludamenti classici su un palcoscenico in bilico, sullo sfondo delle torri del Castello Estense di Ferrara e delle ciminiere industriali, e la Musa borghese, anch’essa senza volto, di Carrà ci invitano, moderni Ulisse, a un nuovo viaggio di cui non appare ancora la meta. Il suo approdo non può essere che una terra desolata, quella che circonda la Solitudine di Sironi, intenta a fissare un punto lontano, al di là delle mitiche Colonne d’Ercole violate dall’eroe troppo umano, quello che ci appare nella antica testa di Sperlonga, la più iconica delle sue multiformi apparizioni. Lo sguardo che emerge potente dalle orbite incavate e la bocca socchiusa appaiono come una invocazione tremendamente attuale verso un recupero del senso della vita in un momento in cui sembra irrimediabilmente smarrito.

“Passaggi e permanenze ad Altino dall’Antichità alla Grande Guerra”: quattro week-end per conoscere Altino e i popoli che qui hanno interagito: greci, celti, romani, soldati della Grande Guerra. Il sabato incontri e visite guidate a tema con archeologi, preceduti dall’archeoaperitivo a cura di Companatiche. Si inizia con “I greci ad Altino” e le ricette di 2500 anni fa

Tra settembre e ottobre quattro week-end al museo Archeologico di Altino con visite guidate, archeoaperitivo, laboratori e percorsi tematici

Conoscere Altino per piccoli assaggi. Nel vero senso della parola. Ecco “Passaggi e permanenze ad Altino dall’Antichità alla Grande Guerra”, il nuovo ciclo di incontri in programma tra settembre e ottobre al museo Archeologico nazionale di Altino promosso nell’ambito del progetto “Tutti al museo” in collaborazione con l’associazione Companatiche. In calendario quattro week-end: al sabato, un archeologo affronta un popolo sempre diverso, greci, celti, romani, soldati della Grande Guerra, ma che nei secoli ha avuto un rapporto con Altino e il suo territorio, introdotto da un “archeoaperitivo” ispirato al tema del giorno e realizzato da Companatiche. Alla domenica, invece, sono previsti laboratori didattici sempre ispirati al popolo protagonista del week-end. L’ingresso al museo costa 3 euro (salvo riduzioni). Per i laboratori 6 euro a persona; mentre il biglietto dei percorsi tematici è di 3 euro a  persona o 6 euro a famiglia (gratuito domenica 24 settembre). Infine l’archeoaperitivo è su prenotazione con contributo liberale a scopi associativi di 10 euro (info e prenotazioni: companatiche@gmail.com – cell.: 389 818 6533)

Il nuovo museo archeologico nazionale di Altino

Il logo dell’associazione Companatiche

Il programma. Si inizia sabato 2 settembre 2017 con “I greci ad Altino”: alle 19.30,  archeoaperitivo greco a cura dell’associazione Companatiche; alle 21, dialogo e visita tematica con Margherita Tirelli, già direttrice del museo Archeologico nazionale di Altino. Domenica 3 settembre 2017, dalle 16, “Tutti al museo”, laboratorio di archeologia sperimentale “Archeonauti scambiano le merci con i greci” a cura di Street Archaeology e percorso tematico-interattivo “Altino: oggetti Stra-Vaganti” a cura di Studio D. Secondo week-end in occasione delle “Giornate europee del patrimonio 2017”. Sabato 23 settembre 2017, “I celti ad Altino”: 19.30, archeoaperitivo celtico a cura dell’associazione Companatiche; 21, dialogo e visita tematica con Mariolina Gamba, già direttrice del museo Archeologico nazionale di Altino. Domenica 24 settembre 2017, dalle 16, “Tutti al museo”, laboratorio di archeologia sperimentale “Scopriamo che cos’è la natura per gli archeonauti” a cura di Street Archaeology e percorso tematico-interattivo “Altino: oggetti Stra-Vaganti” a cura di Studio D. Terzo week-end con i romani. Sabato 7 ottobre 2017, “I romani ad Altino”: 19.30, archeoaperitivo romano a cura dell’associazione Companatiche; 21, dialogo e visita tematica con Giovannella Cresci Marrone dell’università Ca’ Foscari di Venezia. Domenica 8 ottobre 2017, dalle 16, “Tutti al museo”, laboratorio di archeologia sperimentale “Archeonauti costruiscono una casa romana” a cura di Street Archaeology e percorso tematico-interattivo “Altino: oggetti Stra-Vaganti” a cura di Studio D. L’ultimo week-end fa i conti con la Grande Guerra. Sabato 14 ottobre 2017, “I soldati della Grande Guerra ad Altino”: 19.30, archeoaperitivo militare a cura dell’associazione Companatiche; 21, dialogo e visita tematica con lo storico Sergio Sbalchiero e Francesca Ballestrin del museo di Altino. Domenica 15 ottobre 2017, dalle 16, “Tutti al museo”, laboratorio di archeologia sperimentale “Le trincee della Grande Guerra piene di mosaici, sistemiamole!” a cura di Street Archaeology e percorso tematico-interattivo “Altino: oggetti Stra-Vaganti”  di Studio D.

Scena di symposium, il banchetto greco, da una pittura vascolare

Marta Sperandio e Francesca Lamon

Un piatto dei caratteristici “dolmades”

Una fetta di melopita, dolce a base di miele e ricotta

Si inizia dunque con “I greci ad Altino” sabato 2 settembre 2017. E, come spiegano le esperte di Companatiche, Francesca Lamon e Marta Sperandio, “l’Antichità va gustata”. Con una brochure che sarà data ai partecipanti si farà un viaggio enogastronomico tra gli antichi greci. E subito alcune “perle” di due padri della medicina greca: per Ippocrate, “È preferibile un cibo un po’ nocivo ma gradevole, a un cibo indiscutibilmente sano ma sgradevole” e “Lasciate che il cibo sia la vostra medicina e la vostra medicina sia il cibo”;  mentre per Galeno “La dieta è l’arma più potente della medicina”. Proprio Ippocrate, ricorda Francesca Lamon, “quindi ben 2500 anni fa, si occupa in modo scientifico di alimentazione e salute, studia gli effetti del cibo sull’organismo nella convinzione che ciò che si introduce nel corpo attraverso il cibo possa portare salute o malattia”. Sulle tavole greche, continua Marta Sperandio, “troviamo quindi zuppe di cereali e di pane, accompagnate da olio di oliva, ortaggi, pesci o crostacei, vino e formaggio di pecora e di capra. Selvaggina o carne durante le cene più sontuose e le festività, anche per i sacrifici animali dedicati agli dei. Poi ancora fave, piselli, ceci, lenticchie o vecce, semi di lino, sesamo, cartamo e papavero”. Ippocrate, concludono, “consiglia di bere vino rosso, a suo avviso il migliore tra le bevande. Vengono poi gli ortaggi: al primo posto troviamo l’aglio, la cipolla e le erbe aromatiche”. Per la serata di Altino l’associazione Companatiche propone alcune ricette “greche” che prevedono mezedes, cioè antipasti misti, che possono essere semplici sottaceti, sottoli e olivi, oppure piatti più ricchi e complessi che si distinguono dalle portate più importanti solo per le loro dimensioni. “Seguono la tradizione dell’antipasto”, precisano  Lamon e Sperandio, “e non si presentano molto diversamente da ciò che oggi è definito finger food, ovvero cibo da mangiare con le mani”. Nel “menù” di Companatiche troviamo l’Apanthrakis, tipo di pane greco simile ai pidè turchi, leggero e sottile, menzionato da Aristofane nella commedia “Le donne in parlamento”, e ad Alessandria era consacrato al dio Crono. Seguono i Dolmades, fagottini di pesce e carne avvolti da foglie di fico (oggi sostituite da quelle di vite), antenati di quelli giunti fino a noi, ben descritti da Ateneo nel libro “Deipnosophisti”. Dal menù non poteva mancare il Tiropita, probabilmente la feta, il più famoso formaggio greco, discendente del formaggio preparato da Polifemo nell’Odissea. Tipici dei mezedes sono i Tzakiki e lo Skordalia, cioè i cetrioli e l’aglio. Il cetriolo, in greco sikyòs, ricordato dal proverbio “quando mangi un cetriolo, donna tessi il mantello”: probabilmente significa che quando si consumano i cetrioli, cioè d’estate, è tempo di preparare gli abiti pesanti per l’inverno. L’aglio, invece, molto usato nella cucina antica, era una pianta considerata molto utile contro il malocchio. In alcune feste religiose, come le Tesmoforie e le Sciroforie, durante le quali le donne erano tenute a rispettare l’assoluta castità, era usanza che esse grandi quantità di aglio. Un menù non può non chiudere con il dessert. Ecco quindi i melopita, dolci a base di miele e ricotta. I primi dolci di cui si ha notizia nella storia greca sono quelli offerti ai ghiottissimi dei. I cosiddetti popana polyomphala, il più antico dolce greco, erano in stretto rapporto con la dea Madre primigenia. La ricotta fa la sua comparsa nei dolci in epoca classica.