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#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 21.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco si sofferma sul sarcofago di Khonsumes, tipico sarcofago maschile del Terzo Periodo Intermedio

Col 21.mo appuntamento delle “Passeggiate del direttore” siamo ancora nel Terzo Periodo Intermedio. Il direttore Christian Greco ci presenta stavolta i sarcofagi maschili descrivendo il sarcofago di Khonsumes esposto nella galleria dei Sarcofagi del museo Egizio di Torino. Siamo ancora di fronte a un cosiddetto sarcofago giallo, coperto di decorazioni con l’horror vacui, e la presenza degli stessi elementi dell’unità solare osiriaca: la dea Nut al centro. Sopra la sua testa il simbolo del cielo, solcato da una barca con all’interno uno scarabeo alato con la testa d’ariete, sormontato da un disco solare, e ai due lati la rappresentazione del dio Osiride. Ma perché questo è sicuramente un sarcofago maschile? “Innanzitutto ha una parrucca striata e non decorata a falde larghe orizzontali come un sarcofago femminile, come quello di Tabekenkhonsu”, spiega Greco. “Poi vediamo che invece di avere due mani stese ha due pugni. E non c’è la decorazione di orecchini e né vediamo le rosette sotto le falde della parrucca a indicare i seni. Quindi questo è un sarcofago maschile: siamo all’epoca della XXI dinastia, ed è proprio ora che si vede la distinzione di genere nei sarcofagi. Il sarcofago in questo periodo diventa quell’elemento che raccoglie in sé tutti gli elementi fondamentali per la resurrezione del defunto. E se andiamo a vedere la cassa, vediamo, riconosciamo scene che eravamo abituati a vedere nei rilievi delle tombe tebane. La tomba è rappresentata sormontata da una piramide in mattoni crudi con la parte della cuspide resa in un altro colore perché quella era la parte in pietra dove vi era il pyramidion. La tomba è inserita poi all’interno della necropoli, della montagna tebana, custodita da uno sciacallo. E dalla montagna tebana esce la vacca hathorica, simbolo della dea Hathor, la dea dell’Occidente, custode della necropoli tebana. Anche qui c’è sulla campitura del sarcofago come uno squarcio, di colore diverso dal giallo, per mostrarci l’aldilà. E poi c’è la scena della teogenesi ovvero della dea Nut nuda, simbolo del cielo, ricurva che forma quasi una volta sostenuta da Shu, e a terra invece una divinità maschile verde che è il dio Geb. Dall’unione di Nut e Geb nasceranno le quattro divinità: Iside, Nefti, Osiride e Seth”.

La dea Hathor appare tra i rami del sicomoro: particolare della cassa del sarcofago di Tabekenkhonsu (foto museo Egizio)

Sulla cassa del sarcofago di Tabekenkhonsu ci sono alcune scene molto interessanti. “Innanzitutto, la rappresentazione della dea dell’Occidente, Hathor, che appare nell’albero sicomoro e versa, quasi facesse una libagione, dell’acqua al defunto che è qui in adorazione. L’albero si trova di fronte alla tomba, la tomba di nuovo resa con la sua facciata, sormontata dalla piramide e la parte alta, la cuspide, il pyramidion in pietra. E questa raffigurazione ci ricorda anche un inno delle tombe tebane in cui sappiamo che i familiari che fanno visita alla tomba vengono invitati a soffermarsi e a sedersi sotto i rami dell’albero sicomoro; e quando sentiranno il frusciare delle foglie non dovranno pensare che quello è il vento ma le anime dei defunti che vengono lì a sedersi. Di nuovo la tomba – sottolinea Greco – è quell’elemento liminale che permette l’incontro tra i viventi e i defunti. E poi al centro è rappresentata una scena importantissima che abbiamo visto nel papiro di Iuefankh: il capitolo 125 del Libro dei Morti. La defunta Tabekenkhonsu in abiti di viventi si trova all’interno di uno spazio architettonico definito. Dietro di lei vi è una divinità femminile con una testa un po’ strana, che per noi però è molto utile perché quella testa resa in quel modo è un geroglifico e di legge “imentet” e quindi è la dea dell’Occidente, Hathor. Tabekenkhonsu assieme alla dea dell’Occidente entra in questo spazio. Davanti a lei c’è il dio Thot, il dio della scrittura, il dio della sapienza, con in mano la paletta scrittoria, che è lì a scrivere. Perché? Perché questa è una versione molto compatta del capitolo 125 del Libro dei Morti. Non vediamo la scena della psicostasia, però sappiamo che siamo di fronte a Osiride che siede in trono seguito dalla dea Iside. E riconosciamo un altro elemento importante: il mostruoso Ammit, il divoratore, che qui è rappresentato con la testa di coccodrillo, la parte anteriore di leone, la parte posteriore di ippopotamo. È lì pronto a divorare il cuore nel caso risultasse più pesante della piuma. Anche se la scena della psicostasia qui non è resa, sappiamo che abbiamo a che fare con questa. C’è un altro elemento importante: la presenza del dio Horus, colui che deve vendicare il padre dopo che era stato ucciso da Seth. E lo vediamo qui con la corona dell’Alto e del Basso Egitto, quindi è colui che adesso ha saldamente il potere sull’Egitto ed è succeduto al padre Osiride”.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 20.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco si sofferma sul sarcofago di Tabekenkhonsu, tipico sarcofago femminile del Terzo Periodo Intermedio

Col 20.mo appuntamento delle “Passeggiate del direttore” siamo ancora nel Terzo Periodo Intermedio. Il direttore Christian Greco ci presenta i sarcofagi femminili descrivendo il sarcofago di Tabekenkhonsu esposto nella galleria dei Sarcofagi del museo Egizio di Torino. “Il nome della defunta – spiega Greco – è scritto su una colonna in geroglifico preceduto dagli appellativi “l’Osiride e la signora della casa”, “cantatrice di Amon-Ra signore degli dei”, seguito da “djed es” “ella dice” con alcune formule funerarie. La fattura di questo sarcofago molto raffinato si vede nella resa dei geroglifici e dei dettagli. Ad assicurarci che si tratta di un sarcofago femminile sono le due mani stese, anche se qui ne rimane solo una. E poi ci sono due orecchini che adornano i lobi delle orecchie. Sul davanti si vede una treccia finemente intrecciata che ci ricorda la parrucca di Merit. La parrucca è in blu egizio: pigmento artificiale ottenuto dalla malachite con l’aggiunta di natron che aveva un processo di doppia ossidazione e che gli egizi chiamavano “fatto come di lapislazzuli”. Il fatto che qui non sia più così brillante è dovuto non solo all’invecchiamento ma anche alla vernice che ne ha alterato la valenza cromatica. Questa capigliatura tipica femminile è decorata con due fasce orizzontali. Molto evidente è anche la resa dei seni. Al di sotto delle falde della parrucca vi sono quelle che sembrano due rosette e indicano i seni. Quindi mani stese, seni, orecchini, tutti elementi tipici femminili”.

Il sarcofago di Tabekenkhonsu al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

Come nel sarcofago di Butehamon c’è un collare a giorno “wsekh” con due teste di falco che rappresentano il dio Horus. “Evidente l’horror vacui con questa decorazione fittissima che deve trasferire al sarcofago tutti gli elementi indispensabili per la sopravvivenza del defunto nell’aldilà. Innanzitutto è interessante osservare nella parte centrale il succedersi di scarabei e dischi solari. Lo scarabeo è il simbolo del dio sole di giorno. Tra l’altro qui lo scarabeo è reso con la testa di ariete. L’ariete è invece la forma del dio sole di notte. Quindi qui le due “keperu”, le due manifestazioni del dio sole sono fuse assieme. Al centro di nuovo la dea Nut, la dea del cielo notturno e immediatamente sopra la testa della dea Nut vediamo il simbolo stellato del cielo stesso, anche questo reso in blu egizio. Una parte della superficie del simbolo del cielo è stata danneggiata permettendoci di cogliere la brillantezza del blu che non è stato alterato dallo strato di vernice. Interessante è la tecnica. Alcune figure come lo scarabeo, il simbolo stesso del cielo, ma anche le ali della dea Nut sono in rilievo. Quindi il blu egizio non veniva usato semplicemente come pigmento ma anche in rilievo quasi a rendere una tridimensionalità all’interno della decorazione stessa. E poi la parte immediatamente sopra il simbolo del cielo, dove al centro c’è lo scarabeo, ci ricorda anche un altro aspetto fondamentale della religione egizia: l’unità solare osiriaca, perché mentre al centro c’è lo scarabeo ai due lati troviamo seduto in trono il dio Osiride. Di nuovo il dio sole e il dio Osiride, che sono questo “necer aa”, questo grande dio, i quali devono fare in modo che non solo il corpo del defunto venga preservato ma che anche egli possa poi raggiungere la barca del dio sole e prendere parte al periplo eterno attorno alla terra assieme a lui”.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 19.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco ci fa conoscere l’Amduat, il viaggio notturno del sole col papiro dell’Amduat e i testi sul sarcofago dello scriba Butehamon

Il 19.mo appuntamento con le “Passeggiate con il direttore” è il secondo dedicato al Terzo Periodo Intermedio. Il direttore Christian Greco illustra “L’Amduat, il viaggio notturno del Dio Sole” ancora attraverso il magnifico sarcofago dello scriba Butehamon. L’Amduat è un testo che comincia a trovarsi decorato nelle pareti dei sovrani del Nuovo Regno nella Valle dei Re. E per tutto il Nuovo Regno questo testo riguarderà solo i sovrani. A partire dal Terzo Periodo Intermedio invece lo cominciamo a trovare nei papiri, lo cominciamo a trovare degli excerpta usati nei sarcofagi perché l’unità salda politica del Paese viene meno e quindi anche i privati possono ambire a avere degli excerpta di questo testo. Cosa ci racconta? “Ci racconta il periplo solare del sole durante la notte quando il sole tramonta a Occidente”, spiega Greco. “Gli egizi credevano che il sole viaggiasse per dodici ore nelle profondità della terra per poi risorgere di nuovo ad Oriente al mattino. E questo viaggio non era un viaggio che potesse lasciare il sovrano e il mondo indifferenti perché ogni notte vi era una lotta cosmica tra il dio Sole e Apophis, tra il bene e il male. Apophis tentava di impedire che il dio Sole potesse risorgere. Se questo avesse avuto seguito la vita nella terra sarebbe venuta a finire. Ed ecco quindi in questo papiro che ci narra il viaggio del dio Sole durante la notte, vediamo che il viaggio è scandito da delle pause, ci sono dodici ore nella notte. Ed è anche rappresentato in tre registri diversi. Nel registro principale si vede la barca del dio Sole. Qui il dio Sole si trova con la sua fattezza a testa di ariete, quindi il dio Sole criocefalo, contenuto all’interno del serpente Mehen, che è un serpente protettivo. E il dio Sole è accompagnato da altre persone di equipaggio all’interno della barca. Il suo viaggio continua finché alla fine del viaggio, al mattino, il dio Sole che adesso non ha più la testa di ariete ma ha la forma di scarabeo, arriva all’orizzonte orientale e tramite Shu il disco solare viene spinto sulla terra e il dio resuscita. Ecco quindi che la vita sulla terra può andare avanti ed ecco anche che avviene una separazione tra il dio Sole che torna sulla terra e Osiride che invece rimane nell’aldilà, dopo che durante le ore della notte Osiride e il dio Sole sono stati unificati, sono stati “necer aa”, dio grande”.

La parte posteriore del coperchio del sarcofago interno di Butehamon al museo Egizio di Torino con il testo dell’Amduat in ieratico (foto museo Egizio)

L’Amduat lo troviamo anche nei sarcofagi. Un esempio è il sarcofago di Butehamon. “La parte posteriore del coperchio del sarcofago interno e la cosiddetta copertura di mummia sono iscritti da un testo in ieratico, una forma corsiva di scrittura. E questo è il cosiddetto Libro delle Respirazioni e attiene ovviamente al rituale dell’apertura della bocca, che era il momento in cui prima che il defunto fosse messo all’interno della tomba, il sarcofago veniva messo in posizione verticale e veniva chiamato un sacerdote sem, che utilizzando uno strumento nelle sue mani, perpetrava questo rituale dell’apertura della bocca in modo che il defunto potesse tornare a respirare, a vivere, a fruire delle offerte nell’aldilà. Quindi l’Amduat adesso non è più rappresentato in una parete e quindi viene traslato all’interno del coperchio di modo che il defunto abbia tutte quelle informazioni di cui ha bisogno. Per quanto concerne la storia del nostro museo – ricorda Greco -, questo testo ha anche un’importanza fondamentale. Fu oggetto della tesi dottorale di Ernesto Schiaparelli quando andò a studiare a Parigi sotto la guisa di Gaston Maspero, che era segretario generale del Service des Antiquités, ed è colui che poi diede le concessioni di scavo a Ernesto Schiaparelli. Ebbene quando Schiaparelli va a perfezionare le sue conoscenze da egittologo a Parigi nel 1880, studia il Libro dell’Apertura della Bocca e pubblica questo testo che rimane un libro fondamentale per molti anni fino alla pubblicazione di Eberhard Otto”.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 18.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, con la Galleria dei Sarcofagi ci porta nel Terzo Periodo Intermedio illustrando il magnifico sarcofago dello scriba Butehamon

La Galleria dei Sarcofagi al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

Il 18.mo appuntamento con le “Passeggiate con il direttore” è il primo dedicato al Terzo Periodo Intermedio. Il direttore Christian Greco illustra il magnifico sarcofago dello scriba Butehamon che si trova all’inizio della Galleria dei Sarcofagi, ma che forse – precisa Greco – “andrebbe meglio definita come Galleria del Terzo Periodo Intermedio che ci fa capire cosa avviene alla fine del Nuovo Regno, all’epoca di Ramses XI”. Butehamon. è lo scriba della necropoli e probabilmente è lui ad abbandonare il villaggio di Deir el Medina e andare a vivere a Medinet Habu.

“Osservando il sarcofago di Butehamon”, spiega Greco, “colpiscono subito degli elementi di differenza rispetto ai sarcofagi visti in precedenza. Qui c’è un esplodere di colori e di decorazioni. Sembra quasi che ci sia un horror vacui, che ogni centimetro quadrato del coperchio sia coperto dalla decorazione. Perché? In questo momento non si costruiscono più tombe con decorazioni parietali come avevamo conosciuto nel Nuovo Regno. La crisi economica e politica dell’Egitto spinge quindi a cambiare il culto. Però tutti quei testi che decoravano le pareti sono fondamentali perché permettono la trasfigurazione del defunto, permettono al defunto di accedere alla vita dell’aldilà e allora vengono trasferiti nel sarcofago. Così il sarcofago sopperisce alla mancanza di decorazione della tomba e ne acquisisce tutti gli elementi”.

La parte superiore del sarcofago di Butehamon (foto museo Egizio)

Questo sarcofago ci introduce in quella tipologia dei “sarcofagi gialli”. Il termine è evidente e si vedrà bene con i sarcofagi di Tabakenkhonsu e di Khonsumes: questo colore giallo predominante va a sostituire l’oro che non viene più utilizzato. Il colore è ottenuto grazie all’orpimento, un pigmento a base di arsenico che dà appunto questa colorazione molto forte. “Osserviamo alcuni elementi: si vede che il coperchio esterno del sarcofago di Butehamon presenta nella parte superiore un collare wsekh sui cui lati c’è la testa di falco e di Horus; ha le braccia incrociate sul petto, con le mani chiuse a pugno, elemento tipico per definire il fatto che questo è un sarcofago di un uomo e non di una donna. Vedremo poi che le donne presentavano i sarcofagi con due mani distese. E poi al centro vi è un elemento importantissimo: la solarizzazione, il culto del dio Sole. C’è il simbolo dell’orizzonte con il disco solare sopra, e sotto vediamo il dio nella sua forma mattutina, nella sua forma di scarabeo khepri che spinge il disco solare. E poi la dea del cielo Nut che divide quasi in due il sarcofago.

“La cassa presenta elementi importantissimi legati al culto, legati proprio al fatto che il sarcofago sia un cosmogramma, che raccolga in sé in nuce tutti gli elementi fondamentali per la resurrezione del defunto. Ad esempio, su un lato, c’è una divinità maschile verde stesa, che è il dio Geb, la terra. Al di sopra, a fare quasi una volta, è la divinità femminile Nut, che è il cielo, sostenuta da Shu, dio dell’aria e dell’atmosfera. Bene questo è anche l’inizio di quella che noi potremmo chiamare teo-genesi ma anche antropogenesi. Non è solo la creazione degli dei ma anche la creazione degli uomini. Dall’unione del cielo e della terra, di Nut e Geb, nasceranno quattro divinità Iside, Nefti, Osiride e Seth, che rappresentano anche la lotta manichea tra il bene e il male. Osiride che entra poi in contrasto con Seth. Osiride è il primo sovrano dell’Egitto che viene combattuto e ucciso da Seth. Il bene però sappiamo vincerà perché Osiride, nonostante venga ucciso dal fratello, potrà poi resuscitare grazie all’opera di Iside e Nefti e diventare il sovrano dell’oltretomba. Qui in nuce quindi è rappresentato l’inizio di tutto, l’inizio della creazione degli dei, l’inizio della creazione del mondo. Il sarcofago però ci fa vedere dall’altra parte anche un qualcosa di estremamente interessante. Ci fa entrare, per quando gli umani lo possano fare, nel mondo dell’oltretomba. La campitura bianca a un certo punto si squarcia e dove il bianco non fa più da sottofondo vi sono delle scale che scendono nell’oltretomba. Questa è la Duat, l’oltretomba. Quindi possiamo aver uno sguardo nella Duat, nell’oltretomba, in quello che avverrà nell’aldilà. Ovviamente Osiride è ben presente e lo vediamo sul fondo della cassa con la rappresentazione del cosiddetto pilastro djed, che qui è quasi personificato perché ai lati le braccia del dio tengono in mano lo scettro e il flagello. I due occhi udjat e la corona atef sono sopra il pilastro djed. Il pilastro djed è esso stesso una rappresentazione di Osiride, rappresenta la sua colonna vertebrale. Quindi ancora una volta il sarcofago è il segno dell’unità solare osiriaca, di quello che l’Amduat, ovvero testo cosmografico dell’oltretomba che ci racconta del periplo solare nell’aldilà”.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 17.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, completa l’illustrazione della tomba di Kha e Merit soffermandosi sul corredo intatto, una straordinaria capsula del tempo che ci riporta al 1350 a.C.

Il 17.mo appuntamento con le “Passeggiate del direttore” è il terzo e ultimo dedicato alla tomba di Kha e Merit. Il direttore Christian Greco illustra “Il corredo di Kha e Merit”, corredo intatto, una straordinaria capsula del tempo che ci riporta al 1350 a.C. Ci sono i letti con poggiatesta di Kha e di Merit. E poi le giare ancora con residui di cibo all’interno, firmate con il nome del defunto. “Si legge en ka en kha cioè per lo spirito vitale di Kha e poi ankh wehem cioè possa egli vivere di nuovo”, spiega Greco. “E a volte c’è scritto en ka en imy-er kawt Kha, cioè per la forza vitale del responsabile delle opere Kha. Quindi tutto viene definito con il nome del proprietario. E queste sono le offerte funerarie che devono essere messe all’interno della tomba in modo che il defunto possa fruirne dopo la morte”.

Il beauty case di Merit, parte del corredo nella tomba di Kha e Merit al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

Ma all’interno della tomba sono stati posti anche oggetti che probabilmente erano stati usati dalla coppia, da Kha e Merit, durante la vita. A cominciare dal cosiddetto beauty case di Merit: una cassetta che conteneva una serie di oggetti in alabastro che contenevano gli unguenti, per il belletto di Merit. “Invece il contenitore a forma di palma serviva invece al kohl, al trucco per gli occhi. E c’è anche un oggetto eccezionale: una parrucca in capelli veri che era contenuta all’interno di un porta-parrucca meraviglioso, anche nella sua forma, nel suo design, direi quasi minimalista e contemporaneo. E dove un’iscrizione ci dice un’offerta che il sovrano e Osiride devono dare al ka, alla forza vitale di Merit. E non solo Merit aveva i suoi oggetti personali ma anche Kha. Kha era il capomastro, quindi doveva garantire che i lavori potessero andare avanti all’interno delle tombe, all’interno della necropoli”. Ecco spiegato la serie di oggetti che servivano a misurare, la paletta dello scriba, una bilancia, dei trapani. Ma anche lui ha oggetti per la cura della persona: “Un borsellino in cuoio che conteneva dei rasoi e un vaso di alabastro, dove di nuovo leggiamo per il ka, per la forza vitale di Kha, con all’interno c’era d’api che probabilmente veniva usata come emulsionante dopo la rasatura. E poi borracce per l’acqua che venivano utilizzate probabilmente al lavoro. Ci sono anche dei filtri che servivano per filtrare le impurità della birra, e i bastoni lavorati a intrecci con particolari in cui in cuoio, che indicano il ruolo che Kha poteva avere, un ruolo di rilievo nel dirigere le squadre di lavoratori”.

Le tuniche di Kha, parte del corredo nella tomba di Kha e Merit al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

Un altro oggetto di una valenza incredibile è il cubito. “Gli Egizi usavano il cubito per misurare: il cubito era la distanza tra il gomito e l’indice, calcolata in 48 centimetri. Questo cubito è un dono che il sovrano Amenofi II fa a Kha. Un cubito coperto da una foglia d’oro che indica quanto il sovrano abbia apprezzato Kha facendogli un dono così prezioso. Peraltro sappiamo, perché l’abbiamo visto nelle recenti ricerche sulla mummia, come all’interno della mummia sia contenuto anche lo “shebyu” o collare dorato. Ma la valenza del corredo è incredibile soprattutto se pensiamo che questi oggetti risalgono al 1350 a.C. e si sono conservati perfettamente come le tuniche di Kha. E deve essere stata davvero incredibile la sorpresa che Ernesto Schiaparelli e i suoi archeologi ebbero quando entrarono all’interno della camera sepolcrale e videro tutti questi tessuti, tutti firmati col nome di Kha o un suo anagramma. La tomba di Kha – conclude Greco – è quindi uno dei gioielli più importanti che abbiamo al museo Egizio: 467 reperti che ci fanno capire quale attenzione lui e la moglie abbiano messo al rituale perché il loro corpo potesse essere preservato, perché fosse seguito il rituale funerario e loro potessero vivere dopo la morte, ma che ci permettono al contempo anche di vedere quali fossero le loro abitudini di vita, di cosa si cibassero e di come si prendessero cura del corpo. È davvero quasi una capsula del tempo che ci permette di capire come avveniva la vita nel 1350 a.C.”.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 15.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, ci fa conoscere la tomba di Kha e Merit, il più famoso tesoro custodito nella collezione del museo Egizio di Torino

Il 15.mo appuntamento delle “Passeggiate del direttore” ci porta a conoscere la tomba di Kha e Merit, il più famoso tesoro custodito nella collezione del museo Egizio di Torino, l’unico corredo intatto del Nuovo Regno che sia preservato fuori dall’Egitto. “Forse è un tesoro che non tutti conoscono”, esordisce il direttore Christian Greco, “ma non avrò pace – l’ho detto più volte – finché tutti gli italiani, e speriamo tutto il mondo, non sapranno che al museo Egizio c’è questo corredo unico, che io ritengo valga una visita a Torino e valga una visita al museo Egizio. Vale programmare forse anche una visita in Italia per venire a vedere questo corredo funerario unico e che vi aspetta presto a Torino, quando potrete tornare, quando saremo di nuovo pronti ad accogliervi all’interno di questo museo”. La scoperta della tomba di Kha è un classico dell’archeologia. Nel 1905 gli operai, sotto la direzione di Ernesto Schiaparelli, stanno lavorando in una zona a Nord-Ovest del villaggio di Deir el Medina dove trovano una cappella, la cappella di Maya. E trovano anche la cappella di Kha. I dipinti, le pitture, della cappella di Maya vengono staccati e portati al museo Egizio mentre le pitture della cappella di Kha rimangono lì. Un anno dopo, facendo dei lavori in un terrazzamento dove c’è stato un crollo, gli operai improvvisamente trovano un pertugio. Questo pertugio che si allarga si scopre essere un pozzo, un pozzo che porta a delle stanze ipogee. Trovano una prima sala bloccata da delle pietre, una seconda anch’essa bloccata. Una volta tolte le pietre si trovano di fronte a una porta che era ancora sigillata: è il 15 febbraio 1906. Arthur Weigall, l’ispettore dell’antichità che era con Schiaparelli, annota nel suo diario “il momento della resurrezione è arrivato”. E una volta aperta questa porta gli archeologi si trovano davanti a un corredo intatto di 467 oggetti che oggi è preservato al museo Egizio di Torino.

Il sarcofago intermedio di Kha conservato al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

Il titolo di Kha era “responsabile delle opere del faraone”. “Da alcuni viene definito architetto, anche se sulla terminologia potremmo soffermarci”, spiega Greco. “Cosa significa essere l’architetto? Forse la definizione più giusta potrebbe essere quella di capomastro”. Il primo reperto che si vede esposto a Torino è il sarcofago esterno di Kha. “È dotato di slitta che ne permetteva il trasporto alla necropoli. Probabilmente vi erano dei portatori d’acqua che buttavano dell’acqua sulla sabbia e la rendevano una specie di terra battuta in modo che poi il sarcofago potesse essere trasportato. Questo ovviamente era il contenitore esterno, all’interno vi era il sarcofago intermedio di Kha, che presenta una parte nera in bitume alternata a delle fasce d’oro. Se osserviamo il sarcofago interno della moglie Merit, che significa “l’amata”, e che ha come titolo “signora della casa”, vediamo che cassa, alveo e coperchio sembrano appartenere a due tipologie diverse. Infatti l’alveo ha questa alternanza tra campitura nera e parte dorata, come il sarcofago intermedio di Kha, mentre il coperchio è coperto da una foglia d’oro, come il sarcofago interno di Kha. Perché questo? È difficile rispondere. Forse Merit è deceduta improvvisamente, e per lei non c’è stato il tempo per fare un corredo intero: si è dovuto intervenire in velocità e quindi alveo e cassa sembrano non appartenere alla stessa tipologia”.

La maschera funeraria di Merit conservata al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

Merit mummificata ebbe anche la possibilità di avere una maschera, coperta da foglia d’oro. “La maschera, che copriva la parte superiore della sua mummia, oggi la possiamo vedere in tutta la sua bellezza. Ma come mai questa foglia d’oro? Ricordiamoci che il Libro dei Morti ci dice che il defunto dopo la morte non è più di carne ed ossa, ma la sua carne è dorata e il suo sangue è di lapislazzuli. Il defunto adesso è trasfigurato e deve andare verso una vita diversa, una vita eterna in cui viene assimilato agli dei”. Quindi gli archeologi scoprirono sarcofago esterno per Kha, sarcofago esterno per Merit, sarcofago intermedio per Kha, sarcofago interno di Merit (nel suo corredo vi è un sarcofago in meno), e poi sarcofago interno di Kha. “E il sarcofago interno di Kha – conclude Greco – ha le stesse caratteristiche viste nel coperchio del sarcofago di Merit: legno coperto da questa foglia d’oro. Guardate ancora la bellezza del volto e della maschera. E poi incredibilmente si sono conservate le ghirlande di fiori, ne abbiamo due. Queste ghirlande di fiori erano poste sul petto del sarcofago e, al loro interno, piegato e non arrotolato, vi era il Libro dei Morti di Kha”.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 14.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, ci fa conoscere i “Culti locali a Deir el-Medina”: dalla dea Meretseger al dio Sole, dalla statua di Pandua e Nefertari alla celebrazione del funerale

Le “Passeggiate del Direttore”, giunte al 14.mo appuntamento, ci fanno scoprire i “Culti locali a Deir el-Medina”. Dopo aver conosciuto il villaggio degli operai del faraone, la loro vita quotidiana, l’organizzazione del loro lavoro, oggi il direttore Christian Greco ci fa conoscere anche quali fossero le paure dei suoi abitanti, attraverso i molti oggetti conservati nel museo Egizio di Torino. A cominciare dalla dea serpente Meretseger, colei che ama il silenzio. La troviamo raffigurata in varie fogge: in forma tridimensionale, in una stele, e su un ostrakon. Talvolta con il suo nome scritto per esteso: colei che ama il silenzio. “È questo un fenomeno tipico del mondo antico”, spiega Greco. “Si teme un animale, in questo il cobra, lo si eleva perciò a forza di vita, e lo si adora di modo che possa essere benevolo nei confronti di coloro che le prestano rispetto, e possa allontanare il pericolo. E queste forme di devozione a Meretseger vengono trovate all’interno del villaggio, ma anche all’interno di un tempio che sorgeva a metà strada tra Deir el Medina e la Valle delle Regine: il santuario dedicato a Meretseger che veniva pregata perché venisse allontanato ogni forma di pericolo da parte sua”. Invece su una serie di stele e nel pyramidion troviamo il culto ufficiale, cioè il culto solare. Si vede più volte la barca solare, con il dio Sole adorato nella sua barca che viaggia di giorno e di notte e garantisce il mantenimento dell’ordine in Egitto. “L’immagine del dio Sole è accompagnato da un testo, in genere il capitolo 15 del Libro dei Morti, in cui si invita ad adorare il Sole quando lui appare nell’orizzonte orientale. Ecco quindi come religione ufficiale e religione locale, devozione locale e devozione degli antenati, devozione ai fondatori, devozione a divinità locali si fondano ovviamente in quella unità solare osiriaca che è così fondamentale nel Nuovo Regno”.

Pendua e Nefertari, calcare da Deir el Medina, oggi al museo Egizio di Torino (foto museo Egizio)

Molti degli oggetti esposti al museo Egizio provengono dalla necropoli e raccontano anche di come gli abitanti facessero di tutto per preservare la vita nell’aldilà. Come la meravigliosa statua di Pendua e Nefertari, in calcare, in cui i due sposi si abbracciano. “Questa statua – continua Greco – diviene poi anche oggetto delle offerte che i familiari devono portare di modo che il ka, la forza vitale dei defunti, possa sopravvivere nell’Aldilà. E questo lo vediamo scritto in maniera molto chiara anche nella parte posteriore della statua in cui in maniera assolutamente simmetrica il testo è diviso in due spazi, metà dedicato a Pendua, metà dedicato a Nefertari, e al centro c’è un testo che è una formula magica che il sovrano e varie divinità devono dare, in modo che i defunti possano poi vivere in eterno”.

Pyramidion in pietra proveniente da Deir el Medina, oggi conservato al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

Cosa avveniva nel giorno del funerale? Cosa ci dicono i testi? Una scena comune sulle stele mostra dei sarcofagi (alcuni dicono delle mummie in verticale) davanti alla tomba, che si riconosce dalla facciata. Sopra la tomba vi è infatti una piramide fatta in mattoni crudi, con al centro il posto per la stele. Verso la parte apicale della piramide vi è una linea di divisione che indica l’inserimento del pyramidion; perché la piramide era in mattoni crudi e invece la cuspide era in pietra. “Siamo di fronte a un edificio che è l’edificio tombale”, riprende Greco. “Quindi è il giorno del funerale e il sarcofago viene portato nella tomba. Ebbene cosa avviene? Il corpo è stato mummificato, è stato messo all’interno del sarcofago, si sono preparate le offerte che devono essere portate all’interno della tomba, la processione verso la tomba va avanti, il sarcofago viene messo in verticale e lì il sacerdote “sem” procede con il cosiddetto rituale dell’apertura della bocca. Mentre la vedova in ginocchio si lamenta per la morte dei congiunti, il sacerdote “sem” deve fare in modo che il naso e la bocca siano ancora aperti, che il defunto una volta entrato all’interno della tomba possa proseguire la sua vita, che questa sia davvero una “nuova nascita” e che quindi lui all’interno della tomba possa tornare a respirare, possa tornare a fruire delle offerte che gli vengono date. È un elemento fondamentale: se questo non avesse luogo, la vita dopo la morte non sarebbe possibile. E tutto quello che si è fatto non porterebbe poi a buon fine”.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col tredicesimo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, ci fa conoscere i papiri scoperti a Deir el Medina, da quello famosissimo dello sciopero ai frammenti del giornale della necropoli

Le “Passeggiate del Direttore”, giunte al tredicesimo appuntamento, ci fanno scoprire quello che probabilmente è stato il più antico sciopero della storia. Ce lo racconta il direttore Christian Greco nel presentarci non solo il famosissimo “papiro dello sciopero” ma anche i frammenti del cosiddetto “giornale della necropoli”, che fanno parte della ricca collezione di papiri provenienti da Deir el Medina, il villaggio degli operai del faraone, e conservati al museo Egizio di Torino.

Il famosissimo papiro dello sciopero proveniente da Deir el Medina e conservato al museo Egizio di Torino (foto museo Egizio)

Il “papiro dello sciopero”. Siamo nell’anno 29 del regno di Ramses III e i lavoratori si rifiutano di continuare le loro operazioni. Dicono di smettere di lavorare e di andarsi a sedere fuori dal “tempio di milioni di anni” di Tutmosi III. Cos’è il “tempio di milioni di anni”? “Nel Nuovo Regno – spiega Greco – le sepolture regali vengono a trasformarsi: i sovrani non sono più sepolti nelle piramidi, che non erano solo la sepoltura del sovrano ma un insieme di luoghi che permettevano il proseguimento del culto: dal tempio della valle alla via processionale al tempio mortuario. Quindi la piramide non conservava solo il corpo del defunto ma permetteva che il suo culto potesse proseguire. Col Nuovo Regno le tombe vengono costruite nella Valle dei Re: luoghi sotterranei che vengono raggiunti attraverso un dromos. Ci si incunea nella cavità della terra per raggiungere, attraverso corridoi decorati con testi importanti, la camera sepolcrale. Ma quello è il luogo della trasfigurazione del corpo del sovrano, che può raggiungere le divinità e continuare a compiere un periplo attorno alla Terra assieme al dio Sole. Nel Nuovo Regno il culto funerario quindi subisce delle modificazioni: le tombe sono ipogei con corridoi decorati con testi che servono alla preservazione, alla trasfigurazione del corpo del sovrano, così il culto deve essere portato avanti in un altro luogo. Ecco quindi che sorgono i cosiddetti templi funerari o templi di milioni di anni. Di “milioni di anni” perché devono garantire per l’eternità che il culto del sovrano possa andare avanti. E questi templi sono situati sempre a Tebe Ovest, però distanti rispetto alla Valle dei Re”. Torniamo al papiro dello sciopero: gli operai decidono nel 29mo anno di Ramses III di smettere di lavorare. Se ne vanno dalla Valle dei Re e, dice il testo, vanno a sedersi fuori del tempio funerario di Tutmosi III. Dicono che non torneranno al lavoro, dicono di mettersi in contatto con il loro signore perfetto, con il faraone, perché da due mesi non ricevono unguenti, non ricevono panni, non ricevono cibo e finché non verranno pagati non proseguiranno con le loro attività. “Sappiamo”, ci fa sapere Greco, “anche se il testo questo non ce lo dice, che torneranno poi a lavorare, che la situazione si risolverà, ma capiamo anche in quale crisi economica profonda l’Egitto stia entrando. Di lì a poco, nell’età di Ramses XI, sarebbe finito il Nuovo Regno, e il Paese sarebbe entrato nel Terzo Periodo Intermedio. Un momento in cui il centro di potere non sarà più unico: il potere politico sarà diviso all’interno dell’Egitto, e il Paese conoscerà anche un momento di compressione economica. Non saranno più in grado – ad esempio – di andare in Libano per reperire il legno di cui avevano bisogno per costruire sarcofagi. Ecco quindi che questo è un documento storico importantissimo perché ci fa capire anche le trasformazioni che l’Egitto sta subendo”.

L’importante papiro da Deir el Medina con il disegno architettonico della tomba di Ramses IV conservato al museo Egizio di Torino (foto museo Egizio)

Il Giornale della necropoli. Di grandissima importanza sono anche i frammenti del cosiddetto “giornale della necropoli”, giornale che ci racconta quello che avveniva, chi andava al lavoro, chi non andava al lavoro, le motivazioni per cui non andava, e avvenimenti storici. “Un papiro – racconta il direttore – annuncia la morte di Ramses III e la salita al trono di Ramses IV. È bellissimo vedere in che modo questo viene detto: “il falco è volato in cielo”, e il nuovo sovrano adesso “è seduto sul trono di Horus”. Non si dice “il sovrano è morto” ma “il falco è volato in cielo” dove il falco rappresenta Horus, che è il figlio di Osiride, il vendicatore del padre, e che è il dio della regalità, che si incarna di sovrano in sovrano, vola in cielo per poi incarnarsi di nuovo nel sovrano successivo il giorno dopo. La linea dinastica è garantita. La continuità di Maat in Egitto è garantita. E questo è simbolo di stabilità e di continuità all’interno dell’Egitto”. In un altro frammento molto importante che risale all’epoca di Ramses IV, il sovrano dice di aumentare a 120 il numero degli operai che devono lavorare alla sua tomba. “Tra i compiti che il nuovo sovrano aveva era quello di garantire che la costruzione della propria tomba potesse andare avanti. Questo non ci deve stupire. Quando si arrivava all’apice del cursus honorum era ovviamente importante dare un’accelerazione alla costruzione della propria tomba che era la casa per l’eternità, il luogo in cui il sovrano sarebbe vissuto per sempre”. E proprio dello stesso sovrano Ramses IV il museo Egizio conserva uno dei documenti più importanti che ci siano pervenuti dall’antico Egitto che è la pianta della tomba stessa di Ramses IV: vi è il corridoio, una porta, un secondo corridoio, un’altra porta, una stanza, e un’altra porta che dà accesso alla camera sepolcrale dove al centro si trova il sarcofago di Ramses IV, di cui si vede il coperchio. “È un documento importantissimo perché presenta un progetto architettonico in cui non solo c’è la pianta, ma in ieratico, la scrittura corsiva, vengono anche indicati che tipo di ambienti sono e le loro dimensioni. Questo ci attesta in che modo si potesse costruire. Il fatto di avere un disegno architettonico ci fa capire anche quale fosse la capacità di pensare in astratto e di progettare in astratto di modo che poi gli operai potessero lavorare all’interno della Valle dei Re”.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: con il dodicesimo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, ci fa conoscere gli artisti e gli artigiani del villaggio di Deir el Medina fondato da Amenhotep I, e la ricca collezione dagli scavi di Schiaparelli e della MAI

Le “Passeggiate del Direttore”, giunte al dodicesimo appuntamento, ci portano a tu per tu con gli artigiani e gli artisti che realizzarono le tombe dei faraoni e delle regine. Questi vivevano nel villaggio di Deir el Medina. Ed è proprio dalle sale dedicate alla cultura materiale di questo villaggio che parte la “passeggiata” del direttore Christian Greco. La pianta mostra chiaramente il nucleo abitativo con le necropoli a occidente e a oriente. “Il villaggio – ricorda Greco – era già stato investigato dagli agenti di Drovetti. E a Torino ci sono molti oggetti della collezione Drovetti. Ma fu oggetto di indagini specifiche a partire dal 1903 da parte di Ernesto Schiaparelli e della Missione Archeologica Italiana in Egitto”. Ma perché questo villaggio è così importante? “Deir el Medina fu fondato all’inizio del Nuovo Regno (XVI sec. a.C.) per insediare gli artigiani, i lavoratori, gli artisti che dovevano poi costruire e portare a compimento le tombe nella Valle dei Re e nella Valle delle Regine. Si tratta di una comunità di circa 120 famiglie che ha una sua evoluzione dall’inizio del Nuovo Regno all’età ramesside: quindi una comunità che per più di 500 anni continuerà ad abitare in questo villaggio e a costruire le tombe regali”.

La statua cultuale in calcare bianco del faraone Amenhotep I proveniente da Deir el Medina e conservata al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

Il museo Egizio di Torino possiede una delle collezioni più importanti che ci parlano degli abitanti di Deir el Medina. “Una statua in calcare bianco ci ricorda uno dei fondatori del villaggio, il faraone Amenhotep I, oggetto di un culto privato e personale proprio all’interno del villaggio. Sulla statua – tra l’altro – si legge “Sa Ra” cioè “figlio del dio Sole”, che mostra ancora una volta la relazione molto stretta tra il sovrano e la divinità solare. Nella IV dinastia si aggiunse questo epiteto a quello regale e la solennizzazione del culto divenne molto importante. Il sovrano – ricordiamolo – non è solo colui che regge le sorti politiche, economiche e militari del Paese, ma è davvero colui che fa in modo che Maat (“l’ordine”) in Egitto possa essere portato avanti. La sua connessione con il divino quindi è fondamentale. Ma non c’è solo il culto del faraone. Anche la madre, Amhose Nefertari, viene vista come una divinità protettrice del sito di Deir el Medina. Di lei il museo Egizio di Torino possiede una serie di statue lignee importantissime, in cui a volte viene anche rappresentata con un colore nero. Probabilmente è un aspetto simbolico-rituale. Il nero è un colore importantissimo per l’antico Egitto. Lo stesso Egitto veniva chiamato Kemet “terra nera”, che altro non è che il limo che si deposita sulle sponde del Nilo quando vi è l’inondazione del dio Hapi, che fa diventare la terra molto fertile. Ecco quindi che il nero simboleggia la fertilità e la rinascita del Paese. Faraone e regina vengono continuamente rappresentati in vari oggetti che sono stati ritrovati a Deir el Medina: in stele dove i proprietari fanno delle offerte, ma anche in intarsi lignei che facevano parte del mobilio e a volte addirittura in un piccolo ostracon. Tantissimi e svariati gli oggetti provenienti da Deir el medina. Tra questi, un piccolo modellino di cappella: proprio quello dipinto in un quadro di Lorenzo Delleani, dove si vedeva Ariodante Fabretti, l’allora direttore del museo, insieme a Lanzone in una sala mentre studiavano gli oggetti e proprio sul pavimento era posizionato questo oggetto molto importante che si vede nella sezione di Deir el Medina”.

Deir el-Medina, il villaggio degli artigiani dei faraoni cintato da mura

Il museo egizio ha avito un ruolo fondamentale nel determinare chi fossero questi lavoratori nel villaggio di Deir el Medina. Ed è stato possibile non solo grazie alla cultura materiale che era qui preservata, ma agli studi che proprio in questo museo vennero portati avanti, soprattutto da Černý, uno studioso che proveniva da quella che allora era la Cecoslovacchia e che nell’immediato dopoguerra cominciò a fare visite regolari in museo a Torino, a studiare i documenti qui preservati, scrivendo un libro fondamentale, “The Workman Village”, ancora oggi di importanza vitale per chiunque si voglia dedicare agli studi di Deir el Medina.

#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: con l’undicesimo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, ci fa conoscere la cosiddetta Unità Solare Osiriaca, attraverso l’esame di sarcofagi antropomorfi in legno e in pietra

mibact_iorestoacasaL’undicesimo appuntamento con le “Passeggiate del direttore” ci fa conoscere la cosiddetta Unità Solare Osiriaca, un concetto, come ben spiega il direttore del museo Egizio di Torino Christian Greco, si sviluppa nel Nuovo Regno. Per introdurre l’argomento Greco ci ricorda come veniva definita una persona nell’Antico Egitto e quindi perché erano state elaborate per fare in modo di garantire al defunto di vivere e sopravvivere nell’Aldilà. C’era il ba, “l’anima”, che veniva rappresentato come un uccello con testa antropomorfa e poteva viaggiare da una parte all’altra della falsa porta. C’era il ka, la “forza vitale”, l’alter ego. C’era il corpo, che doveva essere preservato e trasfigurato con la mummificazione. E poi vi era il nome, che aveva una valenza molto importante: bisognava che il nome venisse ricordato, bisognava anzi che i passanti che si trovavano davanti alla tomba leggessero ad alta voce il nome per farlo vivere per sempre. E si arriva così, con il Nuovo Regno, con la definizione di Unità Solare Osiraca. Proprio quando cambia anche la forma dei sarcofagi che diventano antropomorfi. Nella cassa si evidenzia tutta la valenza di Osiride, sovrano d’Egitto, morto e risuscitato, ora sovrano dell’Oltretomba al quale il defunto vuole essere accomunato. “Osiride – e colui che vuole essere accomunato a Osiride –“, spiega Greco, “deve innanzitutto fare in modo che il proprio corpo venga conservato. Ecco quindi non solo la presenza di Osiride ma anche le divinità canopiche, Hapi e Qebehsenuf, Imset e Duamutef, che sono i quattro figli di Horus, e poi c’è Anubi, il dio Sciacallo che deve portare il defunto nell’Aldilà. Quindi il sarcofago è un cosmogramma, quel luogo in cui tutti gli elementi fondamentali della religione antico-egizia trovano spazio e, grazie ai testi che sono scritti, si fa in modo che il corpo venga preservato. Perché solo se il corpo è preservato, come è scritto nel capitolo 151 del Libro dei Morti, il defunto può sopravvivere nell’Aldilà”. Una volta che l’obiettivo è stato raggiunto, cioè che la cassa e il sarcofago riescono a preservare il defunto, arrivati sul coperchio il defunto deve avere la forza di essere trasfigurato e di poter viaggiare con il dio Sole e prendere parte al periplo solare. Le due divinità, Osiride e Ra, hanno un ruolo fondamentale nel determinare la vita dell’Antico Egitto. Osiride garantirà la sopravvivenza nell’Aldilà, il Sole con il suo periplo continuo garantisce che sulla terra ci sia maat “ordine” e che la terra possa continuare a vivere. Ecco quindi che il sarcofago con elementi osiriaci ed elementi solari garantisce che con la “nuova nascita” il defunto possa continuare a vivere: è l’Unità Solare Osiriaca”.

Il sarcofago di Djehutymes in granito rosa di Assuan al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)

I sarcofagi antropomorfi compaiono dalla XVII dinastia. E non sono solo in legno ma anche in pietra. Al museo Egizio di Torino ci sono due esemplari meravigliosi in granito rosa di Assuan. Il sarcofago di Djehutymes, intendente del tempio di Amon a Karnak durante l’epoca di Ramses II, circa il 1250 a.C., e, di fronte a lui, il sarcofago della moglie, Isis, che ha il titolo di cantatrice di Amon, come dimostra il sistro che tiene in mano, titolo di una sacerdotessa molto comune in questo periodo”, descrive Greco. “Qui si vedono solo i due coperchi, dove si capisce che la policromia doveva rendere questi sarcofagi ancora più spettacolari. Sono imponenti e maestosi. Ma sono anche una testimonianza importante per quanto riguarda il collezionismo e la formazione della nostra collezione”. Questi due sarcofagi – ricorda il direttore – furono ritrovati da Antonio Lebolo, un piemontese nel 1819, e Lebolo penetrò probabilmente all’interno della tomba tebana TT32 che Djehutymes aveva fatto preparare per sé e la sua famiglia. “Lebolo dentro questa tomba non trovò solo questi sarcofagi di età ramesside, ma scoprì anche che la tomba fu riutilizzata in età romana, tra Traiano e Adriano. La tomba e il suo corredo venne suddiviso tra vari collezionisti, così oggi al museo Egizio vediamo reperti che appartengono alla prima occupazione di età ramesside, ma anche un sarcofago di età adrianea, che appartiene al piccolo Petamenofi. Ma i sarcofagi della famiglia di Petamenofi e le mummie della sua famiglia sono sparse per tutta Europa: i nonni al British Museum, i genitori a Parigi, cugini e fratelli a Berlino, e la zia al museo nazionale di Antichità di Leida”.