Fermo. Le ricerche dell’università Federico II di Napoli e della soprintendenza hanno individuato un abitato dell’Età del Bronzo sul colle Girfalco

Tracce dell’abitato dell’Età del Bronzo scoperto sul colle Girfalco di Fermo (foto unina)
Nuove scoperte a Fermo: un abitato dell’Età del Bronzo. Dal 18 al 31 luglio 2022 si è svolta una campagna di scavo archeologico sul fianco orientale del colle Girfalco a Fermo, nei pressi dell’abside della cattedrale di S. Maria Assunta. Lo scavo è stato condotto in regime di concessione ministeriale dal dipartimento di Studi umanistici dell’università di Napoli “Federico II” – Monte Sant’Angelo, diretto da Marco Pacciarelli, in stretta collaborazione con la soprintendenza per le provincie di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata (funzionario responsabile Federica Grilli).

Frammento ceramico con la decorazione incisa o intagliata tipica della c.d. cultura appenninica (foto unina)
Le ricerche hanno permesso di mettere in luce e indagare una sezione stratigrafica in posto nella quale sono stati riconosciuti diversi strati, in prevalenza riferibili a un abitato della fase 3 della media Età del Bronzo (XIV secolo a.C.), e in parte forse al Neolitico (VI-inizi IV millennio a.C.). Gli strati hanno restituito molti frammenti ceramici, alcuni dei quali recanti la decorazione incisa o intagliata tipica della c.d. cultura appenninica, oltre a manufatti in selce e ossidiana, a resti di ossa animali, a carboncini, a semi, il cui studio permetterà, insieme all’analisi dei campioni pollinici e dei residui del contenuto organico dei vasi, di ottenere un’articolata ricostruzione dell’ambiente e delle attività economiche.

Lo scavo archeologico sul colle Girfalco di Fermo (foto unina)
Le indagini hanno consentito di accertare la presenza di un abitato stabile dell’Età del Bronzo (e forse del Neolitico) sul colle del Girfalco – sito strategico di eccezionale rilevanza dal quale è possibile controllare un territorio molto vasto – che finora era stata solo ipotizzata in base al rinvenimento, avvenuto in passato, di frammenti ceramici in giacitura secondaria.
Fiavè (Tn). Il museo delle Palafitte festeggia i primi 10 anni con un evento speciale: un pomeriggio di festa con ingresso e visite guidate gratuite, l’inaugurazione della mostra “Sulle palafitte: una storia che continua”

Il museo delle Palafitte di Fiavè (Tn) compie dieci anni: la locandina dell’evento
Domenica 10 aprile 2022 il museo delle Palafitte di Fiavé, in Trentino, festeggia alle 14.30 i primi 10 anni con un evento speciale. Un pomeriggio di festa con ingresso e visite guidate gratuite, l’inaugurazione della mostra “Sulle palafitte: una storia che continua” con fotografie di Anna Brenna e l’intervento del coro Cima Tosa. Nell’occasione il polo museale palafitticolo di Fiavé sarà intitolato a Renato Perini, cittadino onorario e scopritore delle palafitte fiavetane.

La ricostruzione del villaggio palafitticolo di Fiavè nel museo delle Palafitte di Fiavè (foto soprintendenza trento)
Il museo delle Palafitte racconta le vicende dei diversi abitati palafitticoli succedutisi lungo le sponde del lago Carera, bacino di origine glaciale, tra tardo Neolitico ed età del Bronzo. Gli scavi hanno portato alla luce resti di capanne costruite sulla sponda lacustre (3800 – 3600 a.C.), ma anche secondo il classico modello della palafitta in elevato sull’acqua (1800 – 1500 a.C. circa). Un’evoluzione di questa tipologia sono le capanne su pali ancorati ad una complessa struttura a reticolo adagiata lungo la sponda e sul fondo del lago (1500 – 1300 a.C.). Negli ultimi secoli del II millennio a.C. l’abitato si sposta sul vicino Dos Gustinaci, dove sono state rinvenute abitazioni con fondazioni in pietra. L’eccezionale stato di conservazione non solo dei pali, ma anche di molti altri materiali organici, rende queste palafitte particolarmente affascinanti, consentendo di penetrare in aspetti della vita delle comunità preistoriche generalmente sconosciuti alla ricerca archeologica.

Al museo delle Palafitte di Fiavè (Tn) esposti gli straordinari oggetti, rinvenuti dagli archeologi nel corso delle ricerche (foto soprintendenza trento)
Il museo espone una selezione degli straordinari oggetti, rinvenuti dagli archeologi nel corso delle ricerche, che suscitano stupore per la loro modernità. Sono migliaia i materiali caduti in acqua, accidentalmente o gettati al tempo delle palafitte, preziose testimonianze di notevoli conoscenze tecniche e costruttive e di abilità artigiana. Si tratta di vasi in ceramica, ma anche di monili in bronzo e – rarissimi all’epoca – in ambra baltica e in oro. Una collezione unica in Europa è quella costituita dai circa trecento esemplari di oggetti in legno: stoviglie e utensili da cucina, fra i quali tazze, mestoli, vassoi, strumenti da lavoro come secchi, mazze, falcetti, trapani, manici per ascia, oltre ad un arco e alcune frecce. Le particolari condizioni ambientali dei depositi lacustri hanno restituito persino derrate alimentari come spighe di grano, corniole, nocciole, mele, pere.

Locandina della mostra fotografa “Sulle palafitte: una storia che continua” di Anna Brenna al museo delle Palafitte a Fiavè

Il museo delle Palafitte di Fiavè (foto soprintendenza trento)
La mostra “Sulle palafitte: una storia che continua”. Saranno esposte le immagini realizzate dalla fotografa lombarda Anna Brenna sul lago Inle, nella parte centrale della penisola del Myanmar (ex Birmania). Il lago ospita sulle sue rive circa 70mila abitanti per i quali l’acqua costituisce un elemento essenziale che contraddistingue ogni aspetto della vita quotidiana: si vive in palafitte di legno, si coltivano ortaggi e fiori in orti galleggianti, ci si sposta in barca nei canali formati dal lago, con l’acqua del lago ci si lava e si fa il bucato, sull’acqua del lago vengono organizzati mercati e il lago è popolato da pescatori. Le palafitte sono costruite in legno e lo stesso materiale è utilizzato anche come rivestimento per gli interni decorati con tappeti, stuoie e tessuti. Una realtà contemporanea che agli occhi dell’autrice richiama la vita nei villaggi palafitticoli che costellavano il territorio subalpino 4000 anni fa.
Rovereto preistorica: la Fondazione Museo Civico Rovereto propone “Paolo Orsi e l’inizio dell’archeologia lagarina” per scoprire la Busa dell’Adamo, piccola grotta scoperta e scavata da Paolo Orsi, abitata fra la fine del Mesolitico e l’inizio del Neolitico (VI millennio a.C.)
Tornano le uscite alla scoperta della Rovereto preistorica, per conoscere storia e storie di Rovereto insieme agli archeologi della Fondazione Museo Civico di Rovereto. Sabato 5 settembre 2020, alle 10, con “Paolo Orsi e l’inizio dell’archeologia lagarina” per scoprire la Busa dell’Adamo. L’iniziativa è organizzata in collaborazione con il Comune di Rovereto ed è gratuita, ma con posti limitati per rispettare le normative legate all’emergenza Covid-19. Prenotazione consigliata. Punto di ritrovo al parcheggio in via Al Bersaglio a Lizzana di Rovereto. Gli archeologi del museo civico di Rovereto accompagnano i visitatori al sito, per riscoprire le origini dell’archeologia lagarina e il ruolo fondamentale di Orsi. In caso di pioggia l’iniziativa è annullata.

La grotta Busa dell’Adamo (Rovereto) scoperta e scavata da Paolo Orsi, frequentata tra Mesolitico e Neolitico (foto Fmcr)
Il sito archeologico “Busa dell’Adamo” è situato ai Lavini di Marco. Si tratta di una piccola grotta frequentata fra la fine del Mesolitico e l’inizio del Neolitico (VI millennio a.C.). Scoperta e scavata dall’archeologo roveretano Paolo Orsi nel 1882, ha restituito numerose schegge e strumenti in selce, alcuni strumenti in osso, alcuni frammenti ceramici e vari resti faunistici riferibili a maiale, capra, bue e cervo. Purtroppo la maggior parte di questo materiale è andata dispersa a causa degli stravolgimenti causati dalle due guerre mondiali. La “Busa dell’Adamo” è, in ogni caso, un sito archeologico di notevole rilevanza perché copre un arco cronologico molto importante: quello del passaggio da una società predatrice ad una società produttrice, ossia da bande semi-nomadi di cacciatori-raccoglitori a gruppi insediativi stabili ad economia agro-pastorale.
Donna o dea? Cosa rappresentavano le figure femminili preistoriche? La risposta nella mostra al museo Archeologico nazionale di Cagliari “Donna o dea. Le figure femminili nella preistoria e protostoria sarda”: 2^ parte, dal Neolitico al Ferro

Le vetrine con testimonianze del Neolitico nella mostra “Donna o dea. Le figure femminili nella preistoria e protostoria sarda” (foto Graziano Tavan)
Dalla fine del Paleolitico in poi le raffigurazioni femminili iniziano a essere presenti su larga scala. Continua così il nostro viaggio alla scoperta del ruolo della donna seguendo la seconda parte della mostra “Donna o dea. Le figure femminili nella preistoria e protostoria sarda”, con la validazione scientifica di Carlo Lugliè, aperta al museo Archeologico nazionale di Cagliari fino al 12 maggio 2019. Attraverso i millenni si può leggere una loro continuità icnografica, pur declinata in lente evoluzioni stilistiche. Il passaggio da un’economia di pura sussistenza, come quella paleolitica, a un’economia più strutturata e tecnologicamente progredita, contrassegna la più straordinaria avventura dell’uomo moderno: la grande rivoluzione neolitica. Avvenuta tra i 12mila e i 10mila anni fa, vede articolarsi la società secondo schemi e ruoli del tutto nuovi.
I betili. “Durante il VI millennio a.C.”, scrive Carlo Lugliè dell’università di Cagliari, “la Sardegna è interessata da un fenomeno di grande portata storica. L’isola entra infatti nel processo migratorio verso l’Occidente di gruppi di coloni neolitici, comunità portatrici della tecnologia di domesticazione di vegetali e animali utili per la sussistenza. In questa fase l’isola viene esplorata interamente e, in rapido progresso di tempo, occupata in ogni distretto geografico, come rivelato dalla densità del tessuto residenziale. L’introduzione delle specie domesticate prima ignote nell’isola (es., cereali quali il frumento, l’orzo; animali come la pecora, il maiale e il bue) è solo uno degli aspetti tra i più macroscopici di una profonda variazione degli assetti insediativi-organizzativi ma anche ideologici della società, che si riflette in produzioni materiali innovative quali quella dei contenitori vascolari in ceramica”. In tutto il bacino del Mediterraneo il Neolitico medio (VI millennio a.C.) è caratterizzato da statue di piccole e piccolissime dimensioni. Raramente ci vengono restituite sculture di dimensioni maggiori: una delle più importanti è un betilo rinvenuto in Sardegna, figura antropomorfa in granito databile al Neolitico medio (II metà del V millennio a.C.) proveniente da Sa Mandara Samassi (Medio Campitano). Interessante, sopra la linea di cintura, la particolare lavorazione a “Z”, che denota la presenza di una veste ornata.

La statuetta femminile del Neolitico medio proveniente dalla necropoli di Cuccuru is Arrius a Cabras (Or) (foto Graziano Tavan)
Le statuette femminili del Neolitico medio sono emerse da diversi contesti abitativi, funerari, cultuali. Numerose le “statuette steatopigiche”, ovvero caratterizzate dai glutei abbondanti. Alcune appaiono particolarmente raffinate, tutte sono caratterizzate da una significativa attenzione alla postura: in piedi, sedute, con le braccia lungo i fianchi o piegate sul grembo o flesse, con le mani che sorreggono i seni. Sono segni evocativi di fertilità e regalità. Come la figura antropomorfa con mani sul petto in calcare proveniente dalla necropoli di Cuccuru is Arrius (Cabras, Or). Il corpo è sagomato in due blocchi sferoidi sovrapposti e una linea sottile, visibile nel dorso, ne accentua la divisione. Il petto è staccato dal triangolo pubico dal quale si dipartono gli arti inferiori voluminosi. L’elevato livello di finitura delle superfici, incise e ben lisciate, si caratterizza nella resa naturalistica delle mani frangiate e portate al petto.
La donna nuragica. “Per quanto riguarda l’età del Bronzo e la prima età del Ferro, che coincidono con la gran parte della civiltà nuragica (XVII-VII sec. a.C.)”, scrive Anna Depalmas dell’università di Sassari, “la documentazione archeologica della componente femminile della società è esigua. L’assenza di rappresentazioni figurative umane caratterizza le espressioni artistiche delle comunità insediate nei nuraghi e nei piccoli gruppi di case circostanti durante il Bronzo medio e recente. Il profondo mutamento che investe la società nuragica dell’età del Bronzo finale si dovette riflettere anche nelle forme espressive con l’avvio di un processo che rivolse una crescente attenzione alla figura umana, che giunse a compimento nella fase successiva. Benché non siano note le tappe intermedie di questo percorso, sappiamo che all’inizio del IX sec. a.C. sono già diffuse le statuine di bronzo che rappresentano il più importante documento per la ricostruzione della società sarda della prima età del Ferro. Tra i soggetti rappresentati la figura femminile riappare, dopo più di un millennio di assenza, mostrandoci un’identità complessa costruitasi nel lungo processo che, lungi dall’estrema idealizzazione delle dee madri eneolitiche, ha portato alla raffigurazioni le donne reali, compiutamente inserite nelle società sarda della prima età del Ferro”.

La cosiddetta Madre con Infante dal complesso nuragico di Santa Vittoria di Serri (Ca) (foto Graziano Tavan)

La cosiddetta Madre dell’Ucciso dalla grotta di Sa Domu e S’Orku a Urzulei (Nu) (foto Graziano Tavan)
Con le età del Bronzo e del Ferro, la bronzistica nuragica si esprime anche in repertori di donne calate in ruoli terreni, verosimilmente complementari a una figura maschile egemone e divinizzata. I soggetti sono spesso domestici: mogli, sorelle, madri, talvolta sorprese nel dolore del lutto. Fortemente evocativa la Madre dell’ucciso, statuetta bronzea dalla grotta di Sa Domu e S’Orku (Urzulei, Nu) che rappresenta l’incontro con il dolore di una Donna e Madre dell’età nuragica. O la Donna con infante dal complesso nuragico di Santa Vittoria (Serri, Ca). “La rappresentazione di queste madri sedute su uno sgabello circolare a cinque piedi costituisce un’iconografia di particolare rilievo”, continua Depalmas, “che potrebbe rimandare alla commemorazione di un mito o di un racconto celebrativo nell’ambito del patrimonio narrativo delle comunità nuragiche. E proprio la ricorrente associazione della figura femminile con lo sgabello, evocato nelle riproduzioni in pietra delle capanne delle riunioni, rafforza l’ipotesi che le donne sarde della prima età del Ferro potessero rivestire ruoli sociali di rilievo”.
Sono le sepolture a restituire il maggior numero possibile di rappresentazioni femminili. I defunti accompagnati da queste statuine dei quali è stato possibile stabilire il genere erano tutti individui maschi. La presenza di queste sculture sembra affermare il loro status e, potenzialmente, la loro condizione di appartenenza a una specifica ascendenza ancestrale, forse mitizzata. Alla fine del Neolitico in Sardegna si affermano e tombe collettive, luoghi dove vengono progressivamente disposti i diversi membri delle comunità di appartenenza. Nelle fasi preistoriche e protostoriche sembra non ci fossero differenze di genere nei rituali di inumazione. Nell’età del Ferro riappaiono le sepolture individuali, come le tombe a pozzetto della necropoli di Monte e’Prama (Cabras, Or). Qui, fra gli individui finora ritrovati, è presente una sola femmina. Tutti gli altri sono maschi giovani e robusti, a indicare che la necropoli era riservata a una categoria specifica. Vecchi, bambini e donne venivano sepolti altrove, in tombe non ancora individuate.

Il caratteristico vaso a cestello del IV millennio a.C. dal villaggio di Puisteris di Mogoro (Or) (foto Graziano Tavan)
Nel Neolitico anche le attività di competenza femminile si articolano in diverse specializzazioni. Per esempio, alla cura della prole si affianca la produzione di contenitori ceramici, funzionali alla preparazione e alla conservazione dei cibi. L’attributo di madre e nutrice si estende così, dopo il tempo della gestazione e dell’allattamento, oltre il proprio corpo. E con nuova efficacia: la disponibilità di cibi bolliti, più facili da digerire, contribuirà notevolmente a incrementare le prospettive si sopravvivenza del bambino e la loro salute. La diffusione della cerealicoltura, introdotta anche in Sardegna a partire dal VI millennio a.C., è documentata dalle sottili analisi palinologiche e paleobotaniche su resti di semi e piante rinvenuti presso i diversi contesti abitativi. Ma sono testimoniate soprattutto dalle numerose macine e macinelli in pietra, utilizzati per la trasformazione del cereale in farina. Dal Neolitico in poi costituiranno una presenza costante nel focolare domestico. Alcune figure femminili in ginocchio sembrano compiere proprio il gesto del macinare. Ai ritratti familiari e alle donne con la cesta sul capo, intente al lavoro, si affiancano rappresentazioni di donne offerenti. Ampi mantelli, importanti copricapo, vesti accurate che talvolta sembrano paramenti. Posture fissate in un gesto ieratico, come di chi officiasse qualche rito.

La bellissima collana con vaghi di conchiglia del V millennio a.C. dalla necropoli di Cuccuru is Arrius (foto Graziano Tavan)
L’uso dei monili non è da intendersi qui in una dimensione puramente estetica, di semplice abbellimento. Rappresenta innanzitutto un contrassegno sociale: un codice che rende immediatamente riconoscibili i ruoli e le gerarchie vigenti in quelle comunità. “I monili preistorici, a differenza di quello che potremmo essere indotti a pensare dal confronto con i corrispettivi moderni”, interviene l’archeologa Valentina Puddu, “non avevano una connotazione di genere. Essi devono piuttosto essere intesi come prodotti culturali distintivi, tratti da un contesto di tradizione, di costumi e di valori che un individuo, sia esso uomo, donna o bambino, adottava sia in termini di unione che di divisione: l’ornamentazione personale dava una identità alla persona, definendola all’interno di un gruppo e contemporaneamente escludendola da altri”.
Una trasversalità tematica fa da cornice alla mostra: nel corso dell’apertura dell’esposizione sono stati previsti numerosi appuntamenti con contenuti dal taglio non soltanto archeologico e antropologico-etnografico, ma anche sociologici, con richiami all’attualità. Un mondo al femminile che nei millenni, attraversando le sfere del mito, del sacro, del religioso e del quotidiano, giunge fino a noi. Il trait d’union tra le prime comunità antropiche e i giorni nostri è il telaio di Maria Lai che, con la sua opera La Terra del 1968, rappresenta il simbolo narrativo della mostra. Le trame e l’ordito simbolicamente evidenziati dall’artista, narrano la storia di donne.
TourismA 2017. Alla scoperta del santuario megalitico di Pat in Valcamonica tra massi-menhir, stele istoriate, allineamenti, recinti sacri
Sulle orme dei nostri lontani antenati di 6-7mila anni fa. È stata una passeggiata alla scoperta dei santuari megalitici della Valcamonica quella che Raffaella Poggiani Keller, specialista in Preistoria, già soprintendente ai Beni archeologici della Lombardia, ha presentato a TourismA 2017, il salone internazionale dell’Archeologia, portando per mano il numeroso pubblico presente al palazzo dei congressi di Firenze alla scoperta di “Culti e cerimonie dell’età del Rame in Valcamonica”, e focalizzando l’attenzione sul santuario megalitico di Pat. “Per megaliti”, introduce l’archeologa preistorica, “si intendono le stele e i menhir che troviamo distribuiti pressoché contemporaneamente in molte regioni d’Europa, e con caratteristiche molto simili”. Particolarmente ricche le aree alpine. Famosi i siti megalitici di Sion, Aosta, Val d’Adige, Riva-Alto Garda, Valtellina e Valcamonica: queste ultime collegate tra loro attraverso il passo dell’Aprica. “Negli ultimi trent’anni”, ricorda, “sono stati catalogati una trentina si siti megalitici, 12 in Valtellina, 20 in Valcamonica, tra santuari e siti con singoli monoliti istoriati”. Tra i santuari, abbiamo quelli sugli altopiani (soprattutto in Valtellina) e quelli di fondovalle, spesso collegati ad abitati: questo si riscontra tra la fine del Neolitico (II metà del V millennio a.C.) e la romanizzazione (età del Ferro).

Un mosaico di immagini con il paesaggio in cui è stato fondato il santuario megalitico di Pat e dettagli dei circoli votivi a nord e dei tumuli a sud
Particolarmente interessante il santuario megalitico di Ossimo-Pat, una struttura molto articolata che si estende su una superficie di 4mila mq., frequentato dalla metà del IV millennio per tutto il III millennio, con una persistenza nel I millennio a.C. quando nei pressi sorge un abitato dei camuni che dialoga ancora con il santuario. Fu un appassionato del posto, Giancarlo Zerla, che nel 1994 individuò la prima stele istoriata, scivolata a valle tra gli alberi del bosco, dando il via alle ricerche che continuano tuttora. Il santuario di Ossimo-Pat fa parte di un singolare complesso di luoghi di culto dell’età del Rame (Pat, Anvòia, Passagròp e Ceresolo- Bagnolo), posti alla distanza di circa 400 m l’uno dall’altro e in relazione visiva tra di loro, ad una altezza di 800 metri. I pianori su cui si trovano i siti furono “ritagliati” tra i boschi con incendi, all’atto dell’impianto dei santuari calcolitici.
“Il sito”, spiega Poggiani Keller, “inserito in un paesaggio rituale di grande suggestione presenta due distinti contesti: un santuario calcolitico (metà IV-III-inizi II millennio a.C.) nel quale si rinnovano attività di culto sul finire dell’età del Bronzo e per tutto il I millennio a.C.; un abitato dei camuni, formato da sette case a pianta rettangolare, costruito nell’avanzata età del Ferro appena a monte. Il santuario, esteso per oltre 4000 mq all’estremità orientale del terrazzo di Pat affacciato sulla Valle dell’Inferno, comprende un’area con allineamenti di monoliti, posta al centro di due aree con tumuli e recinti. Il primo ciclo di vita (fondazione, frequentazione con varie fasi d’uso e di ristrutturazione, abbandono) inizia tra tardo Neolitico ed età del Rame, verso la metà del IV millennio a.C., e si conclude con il Bronzo Antico. Per ora si è raggiunto il livello di impianto del santuario solo nell’area cerimoniale posta a Sud dell’allineamento megalitico, dove si sono evidenziati tre tumuli circolari (diametro tra 5 e 6.40 m) in pietre originariamente coperte da terra e con perimetro in sassi, in alcuni tratti su più corsi”. Si tratta di tumuli-cenotafio perché, anche se all’interno si riproduce una struttura funeraria, non hanno mai ospitato sepolture ma solo offerte votive: collane, vasi, punte di freccia. In questi tumuli, databili 3700-3500 a.C. (età del Rame), erano poste delle stele incise, capovolte ritualmente, con cosiddette “figure topografiche”, vere e proprie raffigurazioni del territorio. “È proprio in questo periodo”, sottolinea l’ex soprintendente, “che l’uomo preistorico inizia a costruire il paesaggio”. L’area dei tumuli Sud fu abbandonata con il Bronzo Antico: il focolare, acceso tra piattaforma A e B, data la conclusione del primo ciclo di frequentazione al 1890-1520 a.C. L’area torna ad essere frequentata nel corso del I millennio a.C. quando sopra i tumuli calcolitici, ormai coperti dal colluvio, furono accesi piccoli fuochi. “Ne abbiamo scavato una trentina. La scansione cronologica di questa nuova frequentazione del santuario, sul finire della tarda età del Bronzo e per l’intera età del Ferro fino al II-I secolo a.C., è basata, oltre che su frammenti ceramici significativi, seppur rari, su una serie di datazioni radiometriche, effettuate sui carboni dei numerosi focolari accesi accanto e sopra monumenti e strutture. Lo studio paleobotanico chiarisce il contenuto di alcuni fuochi rituali e la stagione di accensione: piccoli fiori o boccioli fiorali di crataegus monogyna, misti a gusci e rami di corylus avellana e di coniferae (focolare acceso in primavera); bacche e semi di Rosa canina con rami di Fagus sylvatica e corylus avellana (fcoolare acceso sul finire dell’estate). Rituali che ricordano i floralia di epoca storica”.
A Nord dei tumuli-cenotafi c’è un allineamento di stele istoriate e massi-menhir, databili all’inizio del IV millennio, che si protrae per una cinquantina di metri: finora 27 monumenti, integri e frammentari, con andamento N-S in direzione della montagna Cimon della Bagozza, con le facce principali istoriate nella parte apicale con il motivo del sole e rivolte verso oriente. Sono contenuti in fosse con un alloggiamento di pietre o poggiano su piattaforme rettangolari, anch’esse con orientamento costante Nord-Sud. “Lo scavo ha raggiunto i livelli di frequentazione dell’avanzata età del Rame, ma non ancora quelli di impianto dell’allineamento, che risulta più volte ristrutturato; la stratigrafia mostra che il santuario è il risultato di più fasi di costruzione e di distruzione, con abbattimento di alcuni monumenti e innalzamento di nuovi, e che si sviluppa almeno in tre differenti fasi. Nella fase finale di frequentazione, tra tardo Calcolitico e Bronzo Antico, alcuni monumenti risultano ormai caduti a terra e parzialmente coperti, oppure spezzati. Dopo l’abbandono, strati di colluvio seppelliscono via via lentamente i pochi massi e stele ancora ritti nel terreno, senza che si perda nel tempo la cognizione del luogo sacro”.
A Nord dell’allineamento si estende un’area priva di monoliti e occupata da una tomba a cista e da recinti circolari. “La tomba a cista”, sottolinea Poggiani Keller, “conteneva le spoglie di un individuo adulto che, dopo 3-4 secoli dalla deposizione, vengono raccolte e ammucchiate per lasciar posto ai resti di un infante, che così è in collegamento con l’antenato. I due recinti finora scavati mostrano all’interno di un doppio cerchio concentrico di pietre (alcune delle quali sono frammenti di stele riutilizzati) una struttura rettangolare con perimetro in sassi, in forma di sepoltura, ma contenente solo offerte (in una, nove cuspidi di freccia in selce, nell’altra un vaso e una collana di perle, secondo un rituale già praticato nell’area Sud)”.

Le stele e i menhir del santuario megalitico di Pat allineati nel museo nazionale della Preistoria della Valcamonica (Mupre)
Antenati o dei? “Sono riconoscibili varie fasi di incisione nel corso dell’età del Rame, ben scandita, oltre che dalle sovrapposizioni, dalla tipologia delle armi raffigurate (asce, asce-martello; pugnali tipo Remedello, tipo Ciempozuelos; alabarde tipo Villafranca). La sequenza iconografica connessa alla sequenza stratigrafica ci fa intravvedere la possibilità di definire anche una articolazione molto più dettagliata delle fasi di istoriazione dei monumenti nel corso del IV e del III millennio a.C. Le raffigurazioni presenti sulle stele e sui massi-menhir suggeriscono che si possano distinguere due tipi di composizioni monumentali: una mostra attributi più propriamente antropomorfi, maschili e femminili, organizzati in schemi araldici; la seconda, in genere costituita da imponenti massi- menhir, presenta associazioni più complesse dove le incisioni sono fittamente distribuite su tutta la superficie, con frequenti interventi di sovrapposizione a indicare successive fasi di istoriazione. La presenza di tumuli e di circoli con offerte, induce ad attribuire al sito cerimoniale anche una valenza di culto degli antenati ed a considerare, perciò, alcuni dei monumenti incisi come raffigurazioni degli antenati”.
Le palafitte diventano patrimonio dell’Unesco: a Verona la mostra “PALAFITTE. Un viaggio nel passato per alimentare il futuro” celebra i siti dell’arco alpino e studia l’alimentazione nell’età del Bronzo (II millennio a.C.)
Sono per lo più invisibili, sepolte nei depositi torbosi di antichi laghetti o corsi fluviali, o sommerse lungo le coste degli specchi d’acqua: sono le palafitte dell’arco alpino, che offrono una visione unica della vita nei primi villaggi agricoli. Ma proprio per la loro peculiarità l’Unesco ha inserito le palafitte nel Patrimonio culturale dell’umanità: “momenti fondamentali per capire l’evoluzione delle comunità umane tra il Neolitico e l’età del Bronzo”. Grazie all’abbondante ricchezza di ritrovamenti le palafitte offrono un’immagine precisa e dettagliata di questi periodi preistorici in Europa, dove si sviluppa l’agricoltura, permettendo di fornire dettagli della vita quotidiana, delle pratiche agricole, dell’allevamento di animali e delle innovazioni tecnologiche. Inoltre la dendrocronologia (metodo di datazione che misura gli anelli di crescita degli alberi) permette di datare con precisione le strutture in legno (pali) che compongono le case dei villaggi e che possono raccontare l’evoluzione dell’occupazione dello spazio in intervalli cronologici anche molto lunghi. Questi siti palafitticoli sono la miglior fonte di informazione archeologica a nostra disposizione oggigiorno per approfondire le culture e le popolazioni preistoriche.
Proprio per far conoscere questi nuovi siti Unesco e al contempo rendere omaggio al tema di Expo 2015, il 2 ottobre 2015 apre a Verona, al museo civico di Storia naturale (dove rimarrà aperta fino al 10 aprile 2016) la mostra ideata e curata da Federica Gonzato, Claudia Mangani e Nicoletta Martinelli, e dedicata all’alimentazione nell’età del Bronzo (II millennio a.C.): “PALAFITTE. Un viaggio nel passato per alimentare il futuro”, promossa dalla soprintendenza Archeologia del Veneto, in collaborazione con le associazioni culturali Il Genio Italiano, Adige Nostro e il Comune di Verona col Museo Civico di Storia Naturale, e con il patrocinio di EXPO – Milano 2015. Scoperte a partire da un secolo e mezzo fa, le palafitte alpine hanno permesso agli specialisti di ricostruire la vita nelle società di agricoltori e allevatori degli ultimi cinque millenni prima di Cristo; hanno contributo ad approfondire il rapporto tra i popoli di cacciatori e raccoglitori della preistoria e le prime grandi civiltà europee. Fra gli oltre 1000 insediamenti conosciuti, 111 (distribuiti fra sei nazioni: Francia, Germania, Italia, Svizzera, Austria e Slovenia) sono stati selezionati per far parte del sito seriale transnazionale Unesco denominato “Siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino”. Fra questi, quattro siti si trovano in Veneto: due nella zona di Peschiera del Garda, cioè Belvedere e Frassino; uno nella Bassa veronese, a Tombola di Cerea; e l’ultimo nel Padovano: Laghetto della Costa, vicino ad Arquà Petrarca.
La mostra di Verona racconta, attraverso i reperti provenienti dai quattro siti Unesco e da altre palafitte scoperte in Veneto e Lombardia, gli aspetti più significativi del grande tema dell’alimentazione, dalle conoscenze agropastorali alle produzioni degli ingredienti, dalla preparazione dei cibi alla loro conservazione, con particolare attenzione anche ai prodotti secondari. Al visitatore è proposto un percorso che illustra, grazie ai dati scientifici provenienti dalle più aggiornate ricerche e all’osservazione diretta dei reperti esposti, cosa e come mangiavano i nostri antenati palafitticoli. Proprio le particolari condizioni di giacitura in ambiente umido di questi villaggi, infatti, ha permesso la conservazione anche delle materie organiche che hanno fornito agli studiosi molti dati. In mostra sarà così possibile osservare la spiga dal sito del Belvedere di Peschiera del Garda o il panino combusto da Lazise-La Quercia.
“Numerosi reperti”, spiegano le curatrici, “sono esposti al pubblico per la prima volta. Segnaliamo in particolare gli oggetti provenienti dal contesto del laghetto del Frassino. Non a caso, proprio un vaso dalla palafitta di Frassino, unico nella sua foggia con quattro versatoi verticali, è stato scelto come “simbolo” della mostra”. Obiettivo della mostra è far conoscere un particolare aspetto della preistoria delle regioni alpine, quando le capanne venivano realizzate su impalcati lignei in ambienti umidi. La mostra è anche occasione per esporre reperti solitamente conservati nei depositi della soprintendenza Archeologia-Nucleo Operativo di Verona, del museo civico di Storia naturale di Verona, del museo Archeologico nazionale Atestino e di alcuni musei civici: Legnago, Cavaion Veronese, Castelnuovo Bariano. “Valorizziamo il patrimonio archeologico, con un’idonea azione didattica a supporto: pannelli con testi originali e immagini aprono finestre di approfondimento immediate e di facile lettura per ogni pubblico”.
La mostra si articola in due sezioni. Nella prima c’è la presentazione del sito seriale transnazionale Unesco “Siti palafitticoli preistorici dell’Arco alpino”: un’alternanza di pannelli e vetrine sui siti Unesco e alcuni siti palafitticoli del Veneto. Nella seconda, l’alimentazione all’epoca delle palafitte. Introduzione alle strategie di sussistenza alimentare, con un focus particolare su agricoltura, caccia, pesca, allevamento, cottura e conservazione dei cibi, oltre alla lavorazione delle materiale prime fornite da queste attività primarie.
Ottomila anni fa l’Adriatico orientale crocevia di popoli: a Udine in mostra per la prima volta insieme il Neolitico di Italia, Slovenia e Croazia
Oggi le sue coste appartengono a tre Paesi diversi, Italia Slovenia e Croazia, ma 8mila anni fa l’Adriatico Orientale apparteneva a un’unica macro area la quale oggi, grazie alle ricerche archeologiche e allo scambio di informazioni tra studiosi, evidenzia notevoli analogie culturali che possiamo toccare con mano nella mostra “Adriatico senza confini: via di comunicazione e crocevia di popoli nel 6000 a.C.” aperta al Castello di Udine fino al 22 febbraio. Quindi ancora poche settimane di tempo per visitare questa importante mostra che raccoglie assieme, per la prima volta in assoluto, i materiali neolitici di tutto l’Adriatico orientale, da Dubrovnik (Ragusa) sino al Friuli, mostrando l’evidenza di una radice culturale comune in un periodo (tra 6000 e 4000 anni prima di Cristo) caratterizzato da grandi trasformazioni culturali ed economiche. Queste trasformazioni a Udine vengono tracciate pe la prima volta in maniera puntuale sia nei tempi che nei modi, grazie alla collaborazione tra gli studiosi di Italia, Slovenia e Croazia. L’obiettivo della mostra è dunque quello di offrire una rilettura complessiva della storia delle comunità neolitiche affacciate sulla costa orientale dell’Adriatico, la quale oggi diventa occasione di incontro e di reciproco arricchimento. “Questi siti geograficamente distanti”, spiegano i curatori, “a una attenta analisi, sono legati da rapporti intensi e ciò che complessivamente emerge è una comune radice culturale, che probabilmente è da ritenersi imprescindibile per aree costiere, più facilmente attraversate dal movimento costante di genti. Un momento di riflessione, quindi, sulle radici culturali del nostro territorio e sull’identità culturale e spirituale dell’Adriatico orientale”. Proprio il taglio di ampio respiro dato alla presentazione delle tematiche trattate e l’uso della multimedialità per la loro comunicazione (interviste, audiovisivi e video artistici), hanno reso particolarmente interessante la mostra che è stata già richiesta dal museo Archeologico di Pola e dall’Università di Firenze.

Conchiglie forate da stratificazioni neolitiche nell’Adriatico orientale: sono esposte alla mostra di Udine
“Adriatico senza confini” approfondisce il Neolitico in Adriatico, periodo caratterizzato da grandi cambiamenti economici, quali l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento, che condussero alla creazione di un nuovo legame tra l’uomo e l’ambiente. “L’uomo diviene un fattore ecologico determinante, capace di lasciare ovunque traccia del suo passaggio”, spiegano gli esperti: “i paesaggi naturali divengono lentamente spazi abitati e coltivati, le comunità umane si radicano nel territorio ed esprimono la loro identità culturale essenzialmente attraverso i materiali, in particolare nell’espressione decorativa dei manufatti ceramici. Ed è in base ai tratti decorativi di questi reperti che è possibile riconoscere ora i contatti tra le comunità e le loro differenze”. L’esposizione è introdotta da una sezione dedicata ai ritrovamenti effettuati dal museo Archeologico di Spalato all’isola di Pelagosa, l’isola più remota dell’Adriatico. “Il ritrovamento di frammenti di ceramica risalenti al 6000 a.C. in quest’isola prova in tutta la sua eccezionalità la pratica della navigazione in un momento storico così remoto”. Navigazione praticata in un mare che seppur piccolo è ancora oggi estremamente insidioso, come racconta il velista Andrea Stella nella video intervista proposta in mostra: difficile e pericoloso ora, figuriamoci allora, quando veniva attraversato con piroghe monossili dotate di stabilizzatori.
La sala introduttiva (sala I) è dedicata al processo di neolitizzazione dell’Adriatico orientale che, come in tutta Europa, vede il diffondersi dell’agricoltura molti millenni dopo la sua origine in Asia occidentale. Capre e pecore compaiono nel 6000 a.C. e così pure, anche se non contemporaneamente, accade per i cereali e l’orzo. A giudicare dall’improvvisa e radicale trasformazione nelle strategie di sussistenza e nel materiale culturale, la migrazione giocò un ruolo decisamente importante in questo cambiamento, anche se tale processo vedrà un’attiva partecipazione dei gruppi indigeni di cacciatori-raccoglitori che ne determineranno le caratteristiche sempre diverse da luogo a luogo. In questo territorio la neolitizzazione è contraddistinta dalla pratica della navigazione: l’isola di Pelagosa (Palagruza) rappresenta infatti il punto centrale e, insieme ad altre isole, un ponte naturale tra il Gargano e la Dalmazia e il ritrovamento, in questo luogo isolato e scarso di risorse, di frammenti di “Ceramica Impressa” risalenti al 6000 a.C. prova in tutta la sua eccezionalità l’esistenza di contatti via mare.
Il percorso continua (sala II) affrontando, attraverso l’evidenza della ceramica, il modello di neolitizzazione di questo territorio. Questo sembra articolarsi in una prima fase rapida e pionieristica, con l’arrivo nell’Adriatico meridionale di piccoli gruppi neolitici e dei loro animali, ed una seconda ondata di colonizzazione più lenta, che raggiunge l’Adriatico centro-settentrionale e dà luogo alla formazione di veri e propri insediamenti. I primi villaggi neolitici all’aperto dell’Adriatico orientale si trovano in Dalmazia dopo il 6000 a.C. (Pokrovnik, Tinj, Smilčić, Vrbica, Crno Vrilo), quindi in Istria verso il 5700 a.C. (Vizula, Kargadur) ed infine in Friuli nel 5600 a.C. (Piancada e Sammardenchia). Nel 5600 a.C. lo stile ceramico delle comunità neolitiche cambia. Alla ceramica decorata ad impressioni succede in Dalmazia uno stile molto più elaborato, articolato e variabile, conosciuto con il nome di Danilo (sala III). Sembra che lo questo stile non abbia avuto origine in un sol luogo, ma si sia diffuso contemporaneamente nell’Adriatico orientale anche se in modo poco omogeneo: scarsamente definito nella Dalmazia meridionale, diverso nella parte settentrionale di questo territorio, dove è stato ribattezzato “Vlaška”. Contatti ad ampio raggio, forse indicatori di scambi marittimi, sono documentati dalla presenza di manufatti in vetro vulcanico, l’ossidiana, la cui provenienza è per lo più riconducibile all’isola di Lipari (Sicilia nord-occidentale).
Nel 5600 a.C. il Friuli vede la comparsa di numerosi piccoli villaggi e conosce episodi di estesa frequentazione. Forme e decorazioni di alcuni reperti ceramici e alcuni elementi dell’industria litica mostrano sia contatti con l’area padana, in particolare con la Cultura di Fiorano, sia con l’Adriatico orientale (sala IV). Lievemente differente la situazione sul Carso triestino, caratterizzato dalla presenza di numerose grotte e rari ripari sottoroccia, utilizzati probabilmente come ricoveri temporanei, quali luoghi di sosta dei pastori e di stabulazione delle loro greggi. I materiali ceramici rappresentano un aspetto impoverito dello stile Danilo dell’Adriatico orientale, noto con il nome di “Gruppo di Vlaška” o dei “Vasi a Coppa” (sala IV).
Il 4900 a.C. è contrassegnato da un altro cambiamento nello stile ceramico, conosciuto sotto il nome di Hvar, che ha contraddistinto in modo diverso l’Adriatico orientale (sala V). Le decorazioni si limitano ora a fasce di motivi geometrici incisi e a volte dipinti e progressivamente i recipienti diventano sempre meno ornati. Lo stile di Hvar deve il suo nome ai materiali archeologici rinvenuti nella grotta Grapčeva sull’isola di Lesina (Hvar) in Dalmazia, ma alcune datazioni al radiocarbonio fanno supporre che questo stile abbia avuto invece origine nel cuore del territorio di Danilo. Forme e decorazioni dei recipienti compaiono anche nelle zone a nord-ovest di questo territorio, spingendosi fino al Friuli Venezia Giulia. Dopo questa fase il Friuli neolitico si rivolgerà all’area padana e al mondo nordalpino. Gli oggetti di culto possono essere considerati la testimonianza di un sistema ormai perduto di comunicazione, sono il riflesso nella cultura materiale di credenze e di ideologie e una forma non verbale di linguaggio. Sebbene sia difficile determinare in modo certo il significato che questi simboli avevano per chi li ha creati, la loro presenza nell’Adriatico orientale testimonia radici culturali comuni (sala VI).
Il progresso delle ricerche, il rinnovato contatto e scambio tra gli studiosi e una distensione dei rapporti politici tra i Paesi, permette ora di disegnare un quadro più accurato, seppur non definitivo, del Neolitico dell’Adriatico orientale. Questo può contare su ricostruzioni paleombientali, paleoeconomiche, cronologiche e naturalmente su una migliore comprensione degli aspetti culturali frutto di recenti scavi. Con successive e sempre più approfondite revisioni si è giunti ad un panorama articolato del Neolitico di questa macro area, che mostra aspetti culturali comuni e tematiche interessanti ancora da sviluppare. La mostra è anche un’opportunità per ammirare e confrontare materiali archeologici così antichi, ma già straordinariamente moderni nelle forme e nelle decorazioni e confrontarsi con una svolta epocale nella storia umana. È infatti in questo momento che l’uomo da cacciatore raccoglitore diviene agricoltore e allevatore e realizza i primi recipienti in terracotta, nel 6000 a.C. primitivi e decorati con il margine delle conchiglie e solo 400 anni dopo finemente ornati da motivi curvilinei, che ricordano le onde del mare.
L’esposizione, che sperimenta per la prima volta l’accessibilità, con soluzioni che favoriscono la visita a persone con disabilità, è bilingue, ma può essere visitata con un operatore didattico anche in inglese, tedesco e sloveno. Anche il catalogo che correda l’esposizione è bilingue e sarà presto affiancato da una guida breve in italiano. Per questo ultimo periodo di apertura sono state organizzate visite guidate tutte le domeniche dalle 11 alle 12. per partecipare è necessario prenotarsi al Servizio Didattico dei Civici Musei di Udine, telefonando entro il venerdì precedente (tel. 0432/414749, lun-mart-giov 9-13 e 14-17, merc-ven 9-13). Il Servizio Didattico organizza anche visite guidate per gruppi di adulti e per scolaresche, per le quali è prevista anche un’offerta laboratoriale. Per informazioni visitate il sito internet dedicato www.udinecultura.it e la pagina Facebook.
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