Santa Severa (Roma). Al castello conferenza e proiezione del film “Campo della fiera e il pozzo del tempo” di Massimo D’Alessandro
Venerdì 9 maggio 2025, alle 18, al museo del Mare e della Navigazione antica nel Castello di Santa Severa a Santa Marinella (Roma) proiezione del film “Campo della fiera e il pozzo del tempo” di Massimo D’Alessandro, Premio del pubblico e Menzione speciale della giuria all’edizione 2025 del Firenze Archeofilm. La proiezione sarà preceduta da una introduzione storica a cura di Mario Mazzoli, general manager A.S.S.O. e Massimo D’Alessandro, autore e regista del documentario. Un viaggio nella storia millenaria di Campo della Fiera e un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati di archeologia, storia e avventura. La proiezione è organizzata dal GATC – Gruppo Archeologico del Territorio Cerite e dal Polo Museale Civico del Comune di Santa Marinella e fa parte del programma delle manifestazioni culturali estive organizzate al castello. Ingresso libero senza prenotazione.
IL FILM. Nel cuore dell’Italia centrale, ai piedi della rupe di Orvieto, si trova Campo della Fiera, un luogo straordinario in cui sacralità e storia si intrecciano da oltre duemila anni. Identificato come la sede del leggendario Fanum Voltumnae, santuario federale degli Etruschi. Il sito ha poi visto passare le diverse epoche diventando un centro spirituale e amministrativo dei Romani e successivamente un insediamento francescano. Le indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni hanno portato alla luce manufatti di inestimabile valore: antichi templi, mosaici, ceramiche pregiate e un profondo pozzo mai esplorato, custode di tesori dimenticati. Attraverso ricostruzioni storiche, interviste esclusive e riprese spettacolari, “Campo della Fiera e il pozzo del tempo” accompagna il pubblico in un affascinante viaggio alla scoperta della vita, del declino e della rinascita di questo sito unico. Uno dei reperti rinvenuti nel pozzo, inoltre, apre uno squarcio nel velo di mistero che avvolge i Templari e un possibile intrigo storico. Consulenza scientifica: Marco Cruciani, Danilo Leone, Mario Mazzoli, Silvia Simonetti, Simonetta Stopponi, Vincenzo Valenzano. Una produzione A.S.S.O. ETS in collaborazione con l’associazione Campo della Fiera e il dipartimento di Studi umanistici dell’università di Foggia, soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio dell’Umbria, soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio della Provincia di Viterbo e dell’Etruria Meridionale.
Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco i primi tre episodi: la Grande Etruria, Ulisse ed Eracle, Caere/Pyrgi e Delfi

Locandina della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia dal 10 novembre 2023 al 7 aprile 2024
Il progetto era di pubblicare la serie video contestualmente al periodo di apertura della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma fino al 7 aprile 2024. Poi una serie di imprevisti ha prolungato l’attesa. Ma da qualche settimana è iniziata la pubblicazione on line di “Rasna. Una serie etrusca”, 19 video, lanciati con trailer sulle pagine Facebook e Instagram del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, e in forma integrale sul canale YouTube ufficiale MuseoEtruTv. I video, a cura e con Valentino Nizzo, fino a dicembre 2023 direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, sono lunghi mediamente intorno ai 10 minuti ciascuno. In occasione del Centenario della scoperta di Spina, questo video-racconto per capitoli che parte dalla celebre città portuale nel delta del Po allargando poi lo sguardo dalla pianura padana e dall’Adriatico fino al Tirreno e all’intero Mediterraneo, è un modo per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, anche una parte fondamentale della nostra attuale storia.

Valentino Nizzo, già direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, docente all’università L’Orientale di Napoli (foto etru)
“I video sono stati girati in un pugno di giorni (potrei dire ore) dello scorso mese di ottobre”, ricorda Nizzo, “tra Roma, Pyrgi, Ferrara e Comacchio, nel pieno dell’allestimento della mostra e quando ancora non sapevo che presto l’esperienza di Villa Giulia sarebbe finita. L’intento è stato quello di produrre una serie di contenuti didattici che andassero oltre l’effimera durata dell’esposizione”. Tutti i video sono integralmente sottotitolati in Italiano e in inglese in modo da garantirne la massima accessibilità. “Molte istituzioni e persone hanno contribuito con grande disponibilità alla realizzazione del progetto e sono ricordate alla fine di ciascun video. Mi piace menzionare la mia prima casa, il museo Archeologico nazionale di Ferrara, il museo del Delta antico di Comacchio e lo splendido Parco del Delta, il Comune di Comacchio, il Castello di Santa Severa e il museo del Mare e della Navigazione antica. Oltre al personale tutto del Museo di Villa Giulia (in particolare Anna Tanzarella che ha mantenuto le redini del progetto) e delle altre istituzioni coinvolte, devo ringraziare Tiziano Trocchi, Marco Bruni e Flavio Enei per la loro squisita ospitalità. I video sono stati prodotti dalla Michbold di MIchele Boldi e realizzati con grande competenza e sensibilità artistica da Nicola Nottoli che ha sapientemente valorizzato le riprese effettuate da Maurizio Cinti e una parte dei contenuti elaborati per la mostra. Prezioso e instancabile – conclude Nizzo – è stato il supporto di Alessandra Felletti e Flavia Amato”. E allora iniziamo a guardare “Rasna. Una serie etrusca” con i primi tre episodi.
“1. LA GRANDE ETRURIA”. L’Italia fu un tempo etrusca. Parte da qui il racconto di “Rasna. Una serie etrusca”, la narrazione pensata per incorniciare i grandi temi entro cui si muove la mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”, ultima tappa delle celebrazioni per il Centenario della scoperta di Spina. Quanto era estesa la Grande Etruria? Quale eredità ci resta della cultura etrusca? Dalla Villa di papa Giulio III, Valentino Nizzo, curatore della mostra e già direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, inaugura la serie di 19 approfondimenti tematici che raccontano la storia pre-romana della nostra Penisola, quella in cui si è formata la nostra identità culturale e sociale.

Mappa dei territori etruschi in Italia (foto etru)
“Prima della dominazione romana, la potenza etrusca si estendeva ampiamente per terra e per mare. I nomi dei due mari, superiore e inferiore, da cui l’Italia è cinta a guisa di un’isola, offrono una testimonianza della loro potenza, perché l’uno le popolazioni italiche chiamarono mare Tosco, nome comune all’intera gente, e l’altro Adriatico dalla colonia etrusca di Adria. I Greci li chiamano pure Tirreno e Adriatico. Si stabilirono tra le terre che si estendono tra entrambi i mari, fondando dapprima dodici città nella regione, tra l’Appennino e il mar Tirreno, e poi mandando al di là dell’Appennino altrettante colonie quante erano le città di origine. Occuparono così tuta la regione al di là del Po, fino alle Alpi, eccettuato l’angolo abitato dai Veneti all’estremità del mare Adriatico. Così Tito Livio nel I sec. a.C. all’epoca di Augusto, testimonia quella che era la Grande Etruria. Quasi tutta l’Italia fu un tempo sotto il dominio degli Etruschi, ricordava Catone nelle Origini, nel II secolo a.C., e Polibio nello stesso periodo ricordava che per conoscere la potenza che un tempo ebbero gli Etruschi, bisogna guardare alle due grandi pianure che essi dominarono; la padana e la campana. Queste testimonianze ci servono a ricordare quello che l’archeologia ha dimostrato da tempo essere una realtà, cioè quanto la presenza degli Etruschi, o come li chiamavano i Greci Tirreni, sia stata pervasiva in tutta la nostra penisola, lasciando un’eredità inestimabile sia dal punto di vista materiale, come attestano gli straordinari capolavori esposti qui nel museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, sia dal punto di vista immateriale, poiché attraverso i romani molto della cultura degli Etruschi è arrivato fino ai nostri giorni. E poi c’è un altro tema immateriale importante: il fascino che gli Etruschi hanno esercitato dal Rinascimento fino all’epoca contemporanea, inducendo in più fasi della nostra storia molti artisti a ispirarsi alla loro arte.

Villa Giulia a Roma vista da drone (foto etru)
“Negli anni in cui veniva realizzata Villa Giulia, tra il 1550 e il 1555 da papa Giulio III Ciocchi del Monte, originario di Arezzo, venivano alla luce capolavori dell’arte etrusca come la Chimera e la Minerva di Arezzo e l’Arringatore di Perugia, che stupirono per la loro qualità artistica, estetica, e per la presenza di iscrizioni etrusche. Lo stesso vale per Cosimo I de’ Medici che istituì il Granducato di Etruria, nominando se stesso Magnus dux Etruriae. Probabilmente anche Giulio III era orgoglioso del passato etrusco da cui proveniva e di cui era idealmente erede, essendo aretino. Alle mie spalle, nel celebre Ninfeo di Villa Giulia, realizzato dall’Ammannati sotto la supervisione di Vasari e Michelangelo, due fontane descrivono altrettanti fiumi. A sinistra il Tevere, caratterizzato dalla lupa capitolina, indicava la sede dove il pontefice aveva assunto il soglio di San Pietro, e l’altra, l’Arno, caratterizzato da un leone, indicava la sua terra di origine in prossimità del fiume che segna quelli che sono i due confini ideali dell’Etruria propria, l’Arno e il Tevere. Etruria che però, come testimonia Livio, nel passo che ho citato, andava ben oltre. Andava fino alla pianura Padana e, come sappiamo, fino anche a quella campana, fino agli estremi limiti meridionali della Campania, ai confini con l’attuale Calabria, dove poi sarebbe stata fondata Poseidonia e ancor prima era sorta Pontecagnano nell’agro picentino. L’Italia dunque fu un tempo etrusca e la mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto del Mediterraneo” ci consente di approfondire la storia attraverso quello che è il racconto del porto più importante fondato dagli Etruschi sull’Adriatico intorno al 520 a.C.
“Spina, una città che ha vissuto tre, quattro secoli, collocandosi in una posizione strategica alla foce del Po, su quel mare Adriatico che Tito Livio riteneva avesse preso il nome di una colonia etrusca, Adria, che però i Greci come Spina ritenevano una città greca, al punto che veniva ammessa, Spina, come poche altre città quali Cerveteri, in quel santuario delfico che agli occhi dei Greci indicava il luogo dove soltanto la grecità poteva trovare ospitalità.

Locandina della mostra “Spina 100. Dal mito alla scoperta” al museo del Delta antico dal 1° giugno al 16 ottobre 2022
“Questo racconto espositivo, iniziato a Comacchio, per il centenario della scoperta di Spina nel 1922, e proseguito poi presso il museo Archeologico nazionale di Ferrara, si conclude qui al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, allargando lo sguardo dalla pianura Padana e da Spina e dall’Adriatico anche al Tirreno e all’intero Mediterraneo. Un modo per raccontare la storia dell’Italia preromana, quella nella quale le identità etniche che ancora oggi caratterizzano le nostre peculiarità regionali hanno cominciato a formarsi. Un modo quindi per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, un pezzo della nostra attuale storia”.
“Con l’entrata in scena dei Greci il gioco si fa serio e la storia si tinge dei colori del mito”, spiega Valentino Nizzo. “O, almeno, la storia come la intendevano i Greci che si attribuivano attraverso le imprese di Eracle e Ulisse il merito di aver civilizzato un Occidente selvaggio di nome e di fatto, come attesta il mitico fratello di Latino, Agrio il Selvaggio, nato dall’amore fugace di Ulisse con Circe. Ma questo è solo l’inizio…”.
“2. LA SCOPERTA DELL’OCCIDENTE: ULISSE ED ERACLE”. Il secondo episodio di “Rasna. Una serie etrusca” ci descrive il mondo occidentale con gli occhi dei Greci. Un mondo ancora nebuloso, barbaro, che possiamo leggere attraverso la lente di ingrandimento del racconto mitologico. Sono gli episodi delle peregrinazioni di Ulisse e quelli dei viaggi di Eracle per il compimento delle sue celebri fatiche, narrati dalle fonti e cristallizzati nelle raffigurazioni dei vasi, ad offrire lo spunto per raccontare la visione, all’epoca condivisa, del mondo occidentale.

L’itinerario di Ulisse da Troia a Itaca (foto etru)
“Circe, figlia di Helios, figlio di Hyperion, partorì in unione a Odisseo, paziente, Agrios e Latino perfetto e forte. Telegono generò grazie ad Afrodite d’oro. Essi molto lontani nel recesso delle isole sacre su tutti i Tirreni illustrissimi regnavano”. Esiodo nella Teogonia, alcuni versi finali, descrive quello che è il mondo occidentale. Siamo probabilmente prima della colonizzazione che Omero farà nell’Odissea delle peregrinazioni di Ulisse in Occidente. O almeno siamo in un momento in cui cominciano a definirsi quegli orizzonti occidentali che diventeranno celebri in letteratura grazie all’Odissea di Omero. Il mondo che descrive Esiodo, se appunto può essere riferito alla sua epoca, cioè la fine dell’VIII secolo a.C., quel brano è il primo momento dei contatti tra il mondo greco e quello occidentale. È un mondo ancora nebuloso, in cui si può dire che Latino e Agrios, il selvaggio, figli di Circe e Ulisse, regnano sui Tirreni nelle isole sacre dell’estremo Occidente. C’era quindi una fusione tra il mondo latino, quello tirrenico. Almeno questo è il modo in cui i Greci interpretavano popoli che vivevano molto lontani. Alcuni ritengono questo brano un po’ più recente e lo spostano al 600 a.C., ma questi sono dettagli di un mondo nel quale si comincia a ragionare su la discendenza, le parentele, quelle relazioni genetiche che agli occhi dei Greci erano fondamentali per intessere rapporti politici, commerciali ed economici.

Vaso per attingere l’acqua con Ulisse che acceca Polifemo, proveniente dalla necropoli della Banditaccia di Cerveteri, e conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)
“Un altro aspetto che era fondamentale agli occhi dei Greci era la civilizzazione di un Occidente che era di loro grande interesse economico, ma che appariva barbaro, barbaro come un ciclope poteva apparire: un essere mostruoso da un occhio solo in quell’isola, sacra volendo, come l’Eea di Circe, che la Sicilia, dove viveva in una grotta, non aveva mai conosciuto Polifemo il piacere del vino, e Ulisse, imprigionato nella grotta, glielo farà conoscere, e questo è l’espediente che lo renderà celebre per la sua intelligenza, offrendogli del vino e inducendolo a bere, farà sì che Polifemo rimarrà ebbro, ubriaco, perché non sapeva che il vino dovesse essere bevuto, come facevano i greci, allungato con l’acqua. Il gigante, ebbro, addormentato, fa in tempo poco prima a dire a Ulisse che lo mangerà per ultimo come premio. Ma Ulisse aveva già previsto tutto: con un palo arroventato acceca il suo unico occhio, ma lo lascia vivo in modo che nei giorni seguenti, facendo uscire le pecore dalla grotta, possa dare a Ulisse e ai suoi compagni superstiti l’espediente per scappare. Aggrappati, nascosti sotto le pecore, come si vede nella pisside dalla Tomba della Pania (Chiusi). Questo vaso, quindi, rappresenta quell’idea di civiltà attraverso il vino che è un elemento che ricorre in tutti i miti dei Greci in rapporto con questo mondo occidentale da civilizzare.

Collezione Castellani: vaso con le fatiche di Ercole conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)
“Ma non è solo Ulisse l’esploratore dell’Occidente, i cui figli diventano addirittura i fondatori di città importanti. Telegono si dice avesse fondato Cerveteri, e altri eroi discendenti più o meno diretti di Ulisse furono fondatori di città in Italia. Un altro eroe civilizzatore, il semidio per eccellenza, è Eracle. In alcune sue imprese aveva attraversato l’Occidente e l’aveva civilizzato. Nella più famosa, quella contro Gerione, il mostro tricorpore e tricefalo, lo aveva portato verso quelle colonne d’Eracle che segnavano il limite estremo d’Occidente: in Spagna, dove oggi è Gibilterra e non lontano Cadice. Lì viene mandato per rapire le mandrie di Gerione e sconfiggere questo essere, sì mostruoso, ma eroico quanto lui. Qui lo si vede in due vasi databili tra il 560 a.C. e il 520. C’è una generazione che li distanzia. C’è un’evoluzione stilistica. Qui Eracle combatte con l’arco, qui combatte con la tradizionale clava. In entrambi i casi si vede l’inizio del soccombere di Gerione, colpito in un occhio da una freccia qui, colpito dalla clava in quest’altro vaso. Eracle poi porterà con sé le mandrie attraverso la nostra penisola. Il primo a descrivere in modo completo questi miti è Stesicoro, un poeta di Imera, un poeta lirico di cui si conservano molti frammenti ma la cui importanza era maggiore di quanto oggi noi immaginiamo, soprattutto in un Occidente indigeno che conosceva molto bene i miti dei greci e li utilizzava anche per i propri scopi. Stesicoro descriveva la Gerioneide e descriveva evidentemente il passaggio di Eracle in Italia lungo la nostra penisola, prima tra i Liguri e poi nell’Etruria. Probabilmente già nella Gerioneide si descrive anche il passaggio di Eracle nel territorio di Cerveteri, dove avrebbe fatto scaturire delle sorgenti d’acqua, perché questa è una delle caratteristiche ricorrenti nel mito di Eracle in Occidente. Proprio dalle parti di Pyrgi, tra Pyrgi e Cerveteri. E poi a Roma, altri miti collocavano appunto l’impresa di Eracle, che portò alla fondazione del suo culto presso l’ara massima. Descritto da Virgilio nell’Eneide il suo incontro appunto con l’essere mostruoso Caco, che viveva in una grotta ai piedi dell’Aventino. Eracle, in un’altra fatica, l’undicesima rispetto alla decima di Gerione, doveva di nuovo tornare in Occidente per recuperare i pomi delle Esperidi. Il mito è controverso. Ricordiamo che un altro autore greco, Pisandro, è quello che ha codificato le dodici fatiche di Eracle facendocele conoscere come oggi sono celebri. Ma ci fu un lungo lavorio per codificarle. L’undicesima fatica infatti ha delle varianti. Una di queste dice che prima di arrivare presso le Esperidi, collocate nell’Africa settentrionale dove Atlante reggeva sul proprio capo la volta celeste, si sarebbe fermato in un luogo emblematico per l’Occidente greco: le foci del Po, dove avrebbe dovuto affrontare un essere mostruoso che, come tutte le divinità connesse all’acqua, aveva la caratteristica di modificarsi, di avere delle repentine metamorfosi. Qui in questa anforetta è raffigurato Triton, ma potrebbe trattarsi di Nereo, e quel Nereo che diciamo costituisce una tappa mostruosa lungo il percorso di civilizzazione di Eracle verso i pomi delle Esperidi. Eracle però era venerato, ammirato agli occhi soprattutto del mondo aristocratico di VI secolo, perché era il dio, l’uomo che era riuscito a diventare dio, superando le dodici fatiche e aiutando gli dei dell’Olimpo contro i giganti nello scontro avvenuto nella piana di Flegra, i Campi Flegrei. Così come venne localizzato in una seconda fase dello sviluppo del suo mito.

Hydria Ricci (530 a.C.), scoperta nella necropoli della Banditaccia a Cerveteri, e conservata al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia: dettaglio con il rito di sacrificio nei confronti di una divinità, probabilmente Dioniso (foto etru)
“E qui vediamo invece nell’Hydria Ricci, uno dei vasi più belli tra quelli prodotti da maestranze della Grecia ionica in Etruria, il premio ricevuto da Eracle: l’eterna giovinezza e l’eterna vita tra gli dei dell’Olimpo. Qui lo si vede mentre sale sul carro trionfale guidato dalla sua sposa per l’eternità. Ebe, l’incarnazione della giovinezza, lo sta letteralmente portando tra gli dei dell’Olimpo come premio per le sue fatiche, lui che in terra non aveva avuto una fine gloriosa. E in questo stesso vaso, si chiude il cerchio con quello che abbiamo visto rappresentato nel mito di Polifemo, una straordinaria scena che mostra come i Greci ritenevano dovessero essere compiuti i rituali di offerta delle carni e del vino. Vi è un Dioniso, o un sacerdote, che indica un poderoso grappolo d’uva e tutta una serie di adepti al culto che stanno preparando le carni per il sacrificio. Saper bere vino, saper sacrificare, erano agli occhi dei Greci degli elementi fondamentali di civiltà. Gli Etruschi li avevano recepiti, erano idealmente ancor più greci dei Greci nella loro vita quotidiana. E lo affermano in un vaso prodotto da greci, ma per le loro esigenze, nel quale probabilmente una delle possibili interpretazioni in questa scena di sacrificio è coinvolto anche Icario o Malleus, uno dei pirati Tirreni che avevano rapito Dioniso. Ma è anche quello che lo aveva riconosciuto nel famoso mito della trasformazione dei pirati Tirreni in delfini. E colui il quale Dioniso decide di salvare e colui al quale probabilmente Dioniso insegna tutta quella sapienza che renderà gli Etruschi meritevoli di avere thesauroi a Delfi e di dialogare alla pari con i Greci”.
“L’etnocentrismo, anzi, potremmo forse dire impropriamente attualizzando, lo “snobismo” dei Greci è un dato ben noto che non si preoccuparono mai di nascondere più di tanto”, spiega Valentino Nizzo. “Eppure, nonostante questo e l’inevitabile conflittualità che spesso caratterizzò i loro rapporti, fecero alcune rare eccezioni, proprio con gli Etruschi di Cerveteri e con quelli di Spina. Tanto straordinarie quanto significative se si riflette con attenzione sulla documentazione disponibile, seppure tormentata dallo stato lacunoso e frammentario che la caratterizza. Perché Pyrgi venne definita da Servio metropolis degli Etruschi? Quale ruolo ebbero i thesauroi etruschi a Delfi? In che modo questi temi si intrecciano col più ampio dibattito sull’origine degli Etruschi? Questo ed altro potete trovarlo nel terzo episodio”.
“3. CAERE/PYRGI. LA METROPOLIS DEGLI ETRUSCHI E DELFI”. Siamo giunti alla terza puntata di “Rasna. Una serie etrusca” ed entriamo nel vivo dei rapporti fra Greci ed Etruschi. Al centro troviamo la dibattuta questione sull’origine degli Etruschi con tesi diversificate e complesse sulle quali si è andata costruendo la tradizione di questo popolo, a metà tra narrazione del mito e trasmissione della storia condivisa. I Greci hanno certamente contribuito alla costruzione dell’immagine degli Etruschi: da barbari pirati a popolo degno di essere ammesso al santuario di Delfi. Di queste e altre storie ci racconta Valentino Nizzo direttamente dal museo Archeologico nazionale di Ferrara. Il viaggio verso la conoscenza del mondo etrusco è cominciato e ci porterà nel cuore del Mediterraneo dove le relazioni commerciali e culturali ne hanno decretato fama e grandezza.

Ipotesi di ricostruzione dell’area santuariale di Pyrgi con i templi A e B (foto sabap vt)
“Il più importante commentatore antico dell’Eneide, Servio, nello spiegare un passaggio di Virgilio “Pyrgi Veteres”, aggiunge una frase molto interessante sulla quale si è soffermata la critica. “Questa fortezza fu nobilissima al tempo in cui gli Etruschi esercitavano la pirateria. Infatti fu la loro metropoli. L’uso della parola metropoli non è mai fatto a caso nel mondo antico: indica la città madre, il punto di origine di un intero popolo. Quindi questa affermazione collega direttamente Pyrgi, il santuario portuale di Cerveteri, con le tradizioni sulle origini degli Etruschi che sappiamo sono molto diversificate. Giovanni Colonna ha spiegato l’uso del termine collegandolo a due possibili versioni di questa tradizione. La prima è quella di ascendenza erodotea che ricollegava l’origine degli Etruschi alla Lidia e alla loro emigrazione forzata in seguito a una carestia, verso Occidente. Tuttavia Erodoto li faceva approdare nel paese degli Umbri, quindi sull’Adriatico, dove sorgeva già al suo tempo la città di Spina. Alla fine del V secolo e nel corso del IV, però, questa tradizione viene spostata dall’Adriatico al Tirreno: il punto di approdo dei profughi Tirreni dalla Lidia diventa appunto la spiaggia di Cerveteri. Questa è una sorta di occidentalizzazione del mito originario, della provenienza orientale degli Etruschi, che pone l’accento su una città particolarmente rilevante, non solo a quel tempo o anche prima, ma agli occhi dei Siracusani che potrebbero aver elaborato questa versione, Pyrgi e Cerveteri risultavano senza dubbio importanti. E questa tradizione continuava dicendo che questo Tirreni, approdati nelle spiagge di Cerveteri, avrebbero poi conquistato Cerveteri, che si chiamava Agilla ed era stata precedentemente fondata dai Pelasgi. In questo modo la tradizione si collegava con la versione di Ellanico, quella delle migrazioni, questa volta dei Pelasgi: dalla Grecia, prima a Spina, poi nel centro Italia a Cortona, chiamata Croton erroneamente, e poi la loro irradiazione nell’Etruria propria.

Il santuario di Apollo a Delfi in Grecia (foto graziano tavan)
“C’è un’altra però versione del mito un po’ più complessa, che dà agli Etruschi un’origine autoctona, dice che sono originari della nostra penisola e il luogo di origine sarebbe proprio l’area di Cerveteri. Anche se forse, questa è la tesi di Colonna, sarebbero arrivati lì dalla Sardegna, ma il discorso è lungo e complesso. A noi interessa evidenziare un aspetto importante della costruzione delle tradizioni, legato all’importanza che agli occhi dei Greci gli Etruschi assumono all’indomani della battaglia di Aleria, nel mare sardo, quando compiono un atto indegno di un popolo civile, quello della lapidazione dei prigionieri focei superstiti alla sconfitta che gli Etruschi avrebbero subito di fronte ad Aleria, in Corsica. Nel luogo dove vennero lapidati, Erodoto infatti dice che più tardi tutti gli esseri che passavano per quel luogo in cui giacevano i Focei divenivano storpi monchi e invalidi. Ugualmente le greggi, gli animali da tiro e gli uomini. Gli Agilei allora mandarono a interrogare l’oracolo di Delfi volendo riparare il fallo, e la Pizia ordinò loro di far compiere quelle cerimonie che gli Agilei compiono ancora oggi. Essi infatti offrono sacrifici funebri grandiosi e celebrano in onore dei morti un agone ginnico ed equestre. Nascono quindi in seguito a questo atto indegno dei giochi, dei sacrifici, evidentemente in onore di divinità che sono probabilmente le stesse collegate a quell’Apollo che aveva espresso il suo parere. Infatti noi sappiamo che anche in un settore del santuario di Pyrgi era venerato un Apollo con funzione oracolare, anche se era un Apollo etrusco, Suri, un Apollo infero, legato anche all’idea che il sole tramonta proprio in quel mare, sul quale Pyrgi si affaccia. Il santuario di Delfi era certamente il santuario più importante della Grecia. Era il luogo dove si andava a consultare la divinità per tramite della Pizia, prima di imprese come la fondazione di una colonia. Lo sappiamo fin dalla fine dell’VIII secolo e questo faceva sì che i sacerdoti di Delfi esercitassero un’influenza molto importante, alla quale corrispondevano anche doni e decime rilevanti. Tuttavia non si andava soltanto a consultare Apollo per la fondazione di città, ma anche in seguito ad atti negativi come la lapidazione dei Focei o, la tradizione ci ricorda e lo mostra uno splendido vaso di Spina da Valle Pega, anche Oreste, dopo l’uccisione di Clitennestra, sua madre, andò a consultare l’oracolo di Delfi per conoscere il modo in cui poteva espiare quel terribile peccato.

Cratere a volute attico a figure rosse della Tomba 57C di Valle Pega, conservato nel museo Archeologico nazionale di Ferrara, attribuito al Pittore di Kleophon, 430 a.C.. Nel registro superiore: sacrificio in onore di Apollo. Nel registro inferiore: danza orgiastica di satiri e menadi forniti di tirso e fiaccole e alcune con nebrls (foto drm-er)
“Qui vediamo in un altro monumentale cratere da Valle Pega, la scena di una processione, la consacrazione di un toro offerto ad Apollo che attende, seduto idealmente all’interno del tempio, cinto da due grandi tripodi. Il tripode era l’oggetto più caratteristico del santuario di Delfi, e ai piedi di uno di questi tripodi scorgiamo una pietra rotonda che potrebbe essere il celebre omphalos, l’ombelico che “apriva” una porta verso la terra dalla quale uscivano i vapori che consentivano alla Pizia di entrare in contatto con la divinità. Questi due vasi quindi ci mostrano uno scenario fatto di rituali, fatto di dialoghi con la divinità. Ci consentono di entrare nei luoghi più sacri della grecità. E il fatto che un popolo che per una parte della loro storia i Greci considerarono barbaro, fatto di pirati senza scrupoli, sia ammesso a consultare la Pizia e per suo tramite Apollo, indica l’assoluta rilevanza che agli occhi dei Greci avevano almeno a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C. gli Etruschi, grazie al pagamento di cospicue decime dovute anche alle ricchezze che accumulavano con il commercio e forse anche con la pirateria. Gli Etruschi, infatti, si erano potuti comprare uno spazio sacro, un thesauròs a Delfi, nel quale offrire le proprie le proprie decime alla divinità e avere una sorta di precedenza nella consultazione di Apollo. Un onore unico tra i cosiddetti barbari che ebbero città come Cerveteri, e poi anche Spina. E questo la dice lunga quindi dei rapporti tra i Greci e i Tirreni, della loro evoluzione e del significato che questi popoli e queste città dovettero avere agli occhi dei Greci, al punto da indurli a riflettere sulle loro origini e sul perché, in epoche evidentemente anche molto lontane e precoci, tutto ciò era stato possibile. E questi vasi ci offrono uno squarcio di quel mondo greco. Sono vasi prodotti ad Atene che raccontano di una Grecia che per gli Etruschi evidentemente era molto vicina, al punto da volerli con sé nelle loro tombe e ancor prima nelle loro case”.
Roma. Presentate e illustrate per la prima volta al pubblico le quattro lastre dipinte etrusche di terracotta, del VI sec. a.C., recuperate a Cerveteri nel 2019 dalla Guardia di Finanza. Saranno esposte nel Castello di Santa Severa

Lastra dipinta etrusca arcaica da Cerveteri: il combattimento tra Achille e Pentesilea, in cui la regina delle Amazzoni si lancia, contro l’eroe greco che la sconfiggerà (foto sabap vt-em)
A tre anni dal loro recupero a Cerveteri, nel 2019, da parte della Guardia di Finanza nel corso di un’operazione contro il mercato illecito delle opere d’arte, le quattro lastre dipinte etrusche di epoca arcaica sono state restaurate, in un complesso intervento di conservazione a cura di Antonio Giglio. Attualmente sono ancora conservate presso i laboratori della Soprintendenza, ma la loro destinazione definitiva sarà nell’esposizione permanente dell’Antiquarium del Castello di Santa Severa, in una apposita sezione dedicata alle lastre dipinte dell’antica Caere. Ciò permetterà di valorizzarle meglio con un percorso espositivo più ‘mirato’. Di sicuro questo straordinario evento ricorda che, se è possibile ammirare le quattro lastre, è solo grazie al grande lavoro in sinergia e in collaborazione fra la Soprintendenza e le forze dell’ordine.
E ora le quattro lastre dipinte etrusche di terracotta del VI sec. a.C. cominciano a svelare le loro “storie”. È successo nell’incontro promosso dalla soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio di Viterbo e dell’Etruria meridionale in occasione delle Giornate europee dell’archeologia con la loro presentazione in anteprima al pubblico nella sede della Sabap a Palazzo Patrizi Clementi di Roma. A introdurre sono stati il soprintendente, arch. Margherita Eichberg (nel video) e il ten. Col. della Guardia di Finanza, Alberto Franceschin.

Lastra dipinta etrusca del VI sec. a.C. da Cerveteri: un’eroina armata di arco (foto sabap vt-em)
A raccontare quelle storie che hanno danno il titolo all’incontro (“Nuove storie per immagini dall’Etruria meridionale”) sono state le scene dipinte su quattro lastre etrusche di terracotta risalenti al VI secolo a.C., esposte per la prima volta in quest’occasione e presentate in anteprima al pubblico. A spiegare il tutto sono stati gli archeologi della Sabap VT-EM Rossella Zaccagnini (nel video) e Daniele Maras, assieme al collega Leonardo Bochicchio, della Sabap per le provincie di Pisa e Livorno, e ad Antonio Giglio, del Consorzio Cavaklik Restauro.
Scene inedite di natura rituale e mitologica, che ne mostrano l’eccezionale valore storico e archeologico, in quanto opera di eccellenti maestri della pittura antica, come è possibile riscontrare nei particolari del volto di alcuni personaggi. E poi si sono potute apprezzare le tonalità dei colori particolarmente vivaci, esaltati proprio dal grande intervento di restauro eseguito a cura della Soprintendenza (nel video Antonio Giglio, del Consorzio Cavaklik Restauro).

Lastra dipinta etrusca del VI sec. a.C. da Cerveteri: il messaggero degli dei Hermes, l’etrusco Turms, dalle ricche ali (foto sabap vt-em)
I soggetti sono stati spiegati dal funzionario archeologo Daniele Maras (nel video). Fra le scene figurate mitologiche e rituali del tutto inedite, notiamo: il combattimento tra Achille e Pentesilea, in cui la regina delle Amazzoni si lancia, bella e terribile, contro l’eroe greco che la sconfiggerà, racchiuso nella sua armatura; un’eroina armata di arco, impegnata in una gara di corsa contro un avversario biondo, che brandisce un ramo (forse la sfida tra la cacciatrice Atalanta e il suo futuro marito Melanione); il messaggero degli dei Hermes, l’etrusco Turms, dalle ricche ali, che scorta una donna in atto di svelarsi (forse parte di un quadro del giudizio di Paride); una coppia di aruspici al lavoro.

Lastra dipinta etrusca del VI secolo a.C. da Cerveteri: coppia di aruspici al lavoro (foto sabap vt-em)
“L’analisi della tecnica usata rivela informazioni utili”, precisa l’archeologo Leonardo Bochicchio. “Le lastre sarebbero opera di almeno due artisti, forse un maestro e il suo allievo. Il primo, infatti, mostra una mano più raffinata e specializzata proprio in scene mitologiche, in grado di dare particolare rilievo alla luminosità e all’espressività dei volti. Il suo ‘discepolo’, invece, potrebbe proprio aver lavorato anche nell’officina delle lastre ‘Campana’, oggi al Louvre. Ricordiamo che queste ultime, insieme a quelle ‘Boccanera’ attualmente al British Museum di Londra, sono gli unici esemplari (rinvenuti nel XIX secolo sempre a Cerveteri) simili alle lastre esposte per la prima volta a Palazzo Patrizi Clementi (via Cavalletti 2), risalenti al VI sec. a.C.”.
Nasce il museo Navigante: ben 58 musei del Mare e della Marineria d’Italia fanno rete. E ora salpa con la goletta Oloferne alla scoperta del patrimonio culturale marittimo italiano. Molti sono i musei archeologici: conosciamoli meglio

Il logo del museo Navigante nato nel dicembre 2017 mettendo in rete 58 musei italiani del Mare e della Marineria
Nasce la rete dei musei del Mare e della Marineria d’Italia. Cinquantotto musei del mare e della marineria insieme in un comune progetto per valorizzare il patrimonio culturale marittimo italiano. È nato così il museo Navigante – una iniziativa promossa dal Mu.MA-Galata di Genova, il museo della Marineria di Cesenatico, l’associazione La Nave di Carta della Spezia e l’AMMM-Associazione Musei marittimi del Mediterraneo – che ha riunito musei, pubblici e privati. E il 9 gennaio 2018, con l’inizio dell’Anno del patrimonio culturale Europeo, il museo Navigante salpa, a bordo della goletta Oloferne, per far rotta dall’Adriatico al Tirreno, con tappe in tutte le regioni costiere, e arrivare infine a Sète (Francia) in occasione della manifestazione Escale à Sète in rappresentanza dei musei italiani. “Finalmente abbiamo un primo censimento dei musei del Mare e della Marineria italiani, privati e pubblici, ad arricchire la rete dei musei Marittimi del Mediterraneo e le reti regionali che si stanno costituendo, dalla Catalana alla Ligure, dal Golfo del Leone alla Campania”, interviene Maria Paola Profumo, presidente dell’AMMM di cui il Galata è capofila. “Sono stati catalogati per quattro grandi categorie: storico-navale, archeologico, naturalistico ed etnografico. Ne è emerso un panorama molto ricco, diversificato e molto attivo. Il nostro obiettivo è far scoprire e promuovere il patrimonio marinaro, materiale e immateriale: barche, reperti, cimeli ma anche, e soprattutto, memorie di lavoro, di migrazioni, di comunità che di mare hanno vissuto e vivono”.
La goletta Oloferne dell’associazione La Nave di Carta della Spezia, una sorta di museo vivente e galleggiante, è una imbarcazione a due alberi che diventa così un prolungamento del museo del Navigante e collegherà tutte le realtà italiane. La goletta – come si diceva – prenderà il mare il 9 gennaio, salpando da Cesenatico, facendo prima rotta su Trieste per poi discendere tutto l’Adriatico e risalire il Tirreno, facendo tappi nei porti dei musei per approdare poi a marzo a Genova, al Galata, che della rete è capofila. “Quello che vogliamo evidenziare con il museo Navigante”, spiega Davide Gnola, direttore del museo della Marineria di Cesenatico, premiato nel 2017 tra i migliori musei italiani (Premio ICOM-Italia), “è che i musei marittimi sono fattori di sviluppo nei territori. Se vogliamo migliorare la nostra offerta di turismo culturale, in un Paese che ha 8mila chilometri di coste e una tradizione marittima secolare, non possiamo trascurare i nostri musei e le nostre barche storiche”. Passato, presente e futuro si fondono nel museo Navigante che, in attesa di mollare gli ormeggi, è anche sui social network: su FB, su Twitter, su Instagram e su Youtube. @museonavigante.it
Dei 58 musei entrati in rete con il museo Navigante, che verranno toccati dalla goletta Oloferne, molti sono archeologici o comunque espongono preziosi reperti archeologici. Scopriamoli un po’ meglio, seguendo idealmente la rotta della goletta dal Nord Adriatico, allo Ionio, al Tirreno, per finire nel canale di Sicilia. Il primo che incontriamo, il museo nazionale di Archeologia Subacquea a Grado (Gorizia), in realtà è ancora un cantiere: progettato nel 1987 dopo il ritrovamento del relitto di una nave romana del III secolo d. C. naufragata con il suo carico di anfore per il trasporto di olio, vino e pesce, il museo aprirà quest’anno, 2018. Al piano terra è previsto l’alloggio per il relitto della nave, al primo piano la mostra permanente dei reperti del carico. Tra i pezzi più importanti la statua di Poseidone e il contrappeso della stadera con Minerva. Anche più a sud, a Caorle (Venezia), il museo nazionale dell’Archeologia del mare, è ancora in allestimento e aprirà nei primi mesi del 2018. Nelle quattro sale espositive per complessivi 560 mq saranno raccolti reperti archeologici rinvenuti al largo di Caorle, tra i quali il relitto di una nave romana, anfore, vasellame e frammenti di ancora in piombo. Il primo museo aperto lo troviamo a Chioggia (Venezia). Nell’ex convento di San Francesco fuori le mura (XIV sec.) è allestito il museo della Laguna Sud. Inaugurato nel maggio 1997, si sviluppa su tre piani. Anfore, vasellame e monete testimoniano i commerci in età preromana; mentre una riproduzione della mappa del Sabbadino, ingegnere della Serenissima, riproduce gli squeri, ossia gli antichi cantieri navali chioggiotti, e le saline medievali dove si raccoglieva il prezioso sal Clugiae.
Il museo della Regina, a Cattolica (Rimini), è stato istituito nel 2000 in un antico Hospitale per pellegrini. Composto da due sezioni, una archeologica dove sono esposti reperti recuperati durante gli scavi della Nuova Darsena e una di marineria organizzata per percorsi tematici: imbarcazioni e la loro costruzione, modi e forme del navigare, aspetti etno-antropologici della tradizione marinaresca della città. Ci sono modelli di grandi dimensioni dei principali tipi di barche della marineria tradizionale adriatica, che nei cantieri cattolichini raggiunse alcune delle sue vette più alte. Il museo del Mare di San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) raccoglie in un unico polo cinque musei, nati in decenni diversi, a partire dal 1956. Quattro delle cinque sezioni trovano ospitalità nel complesso del Mercato Ittico all’ingrosso, risalente al 1935, alla radice del molo nord mentre la pinacoteca del mare con quadri, dipinti, fotografie della civiltà marinara è ospitata a Palazzo Piacentini. L’antiquarium Truentinum (il museo archeologico) racconta lo sviluppo del territorio sambenedettese dal neolitico al fenomeno dell’incastellamento. Nel museo delle Anfore sono esposti per tipologia e in ordine cronologico gli antichi “contenitori” recuperati lungo tutto il Mediterraneo dalle reti della marineria locale.
Il museo del Mare Antico di Nardò (Lecce) nasce dopo il ritrovamento, nel 1982, in località Santa Caterina, a pochi metri di profondità, del relitto di una nave oneraria romana datata, in base al carico di anfore, al II sec. a.C., affondata contro la scogliera di Punta dell’Aspide, a 300 metri dalla costa. Il museo ha una sezione di archeologia subacquea, incentrato proprio sul relitto di S. Caterina, con settori che mettono in evidenza i rapporti commerciali marittimi e terrestri dell’antica Neretum in età ellenistica. Sempre a Nardò, ma nella frazione di Santa Maria al Bagno, nei locali di un ex asilo, è stato istituito nel 2015 il museo Acquario del Salento, che apre una finestra sulle profondità della costa salentina, sia dal punto naturalistico sia archeologico. Ben 17 vasche di acqua marina organizzate in quattro ambienti tematici: la grotta sommersa; la sala della costa; la sala del mare aperto con il relitto di una nave oneraria di epoca romana; la sala del mare profondo con relitti di due navi e un aereo della Seconda guerra mondiale.
Al museo Archeologico nazionale di Capo Colonna (Crotone) c’è anche una sezione di archeologia subacquea. Realizzato a seguito delle campagne di scavo effettuate dalla soprintendenza Archeologia negli anni 1999-2001 che hanno messo in luce i resti di età romana e le fondamenta del tempio greco di età classica dedicato al culto di Hera Lacinia, il museo espone contesti archeologici relativi al grande santuario che si sviluppò sul promontorio di Capo Colonna tra VII secolo a.C. e VI secolo d.C. Il santuario si trovava sul lembo estremo del promontorio dagli antichi greci denominato Lacinio, posto in uno dei tratti più frastagliati e frequentati della costa jonica calabrese. Numerosi relitti (databili tra il VI sec. a.C. e il III sec.d.C.) sono presentanti all’interno di una sezione appositamente dedicata all’archeologia subacquea con esposizione open space di circa 200 mq. Qui si trova una parte del carico di marmi trasportati dalla nave naufragata presso Punta Scifo e databile al III sec. d.C., oltre ad altre suppellettili rinvenute durante lo scavo del relitto e oggetti prelevati da altri contesti sottomarini. Anche il museo Archeologico dell’antica Kaulon a Monasterace (Reggio Calabria) ha una ricca sezione dedicata all’archeologia subacquea. Nel percorso espositivo la storia della colonia magno-greca di Kaulonia è illustrata dall’età di fondazione fino ad età ellenistico-romana. Numerosi i reperti subacquei tra cui, ancore e resti di colonne lavorate da aree limitrofe all’odierno museo situato a poca distanza dalla costa nei pressi di Punta Stilo dove c’è il faro.
Risalendo il Tirreno, sulle coste laziali, si incontra il museo della Navi romane di Fiumicino (Roma) al momento purtroppo chiuso. Dovrebbe riaprire nel 2019 per ospitare cinque relitti di imbarcazioni di età romana, rinvenuti durante i lavori di costruzione dell’aeroporto Leonardo da Vinci, fra il 1958 e il 1965, oltre a una serie di materiali relativi alle tecniche di costruzioni navali, le rotte, i porti, la vita di bordo e a tutta la rete commerciale del Mediterraneo. Un po’ più a nord, a Castello di Santa Severa (Roma), c’è il nuovissimo museo del Mare e della navigazione antica, che nel 2017 ha rinnovato negli spazi e nell’allestimento l’antiquarium Navale, istituito 23 anni prima. Ben sette nuove sale ospitano oltre cento reperti distribuiti lungo un percorso espositivo e didattico che introduce il visitatore al tema dell’archeologia subacquea e della navigazione antica illustrando i diversi aspetti della “vita sul mare e per il mare”. Il museo è destinato a conservare e valorizzare le testimonianze archeologiche provenienti dai fondali del litorale cerite compreso tra Alsium e Centumcellae, con particolare riferimento al porto di Pyrgi. La prima sala, “Dal fondo del mare la storia degli uomini”, con una ricca collezione di anfore romane introduce, tramite diorami, alla vita antica sul mare e per il mare. La seconda sala, “Gli antichi sugli oceani”, è dedicata alle esplorazioni e alle scoperte geografiche degli antichi uomini del Mediterraneo. La terza, “Le navi e le navigazioni più antiche” introduce alla marineria etrusca, fenicia e greca illustrando i principali relitti del Mediterraneo e le tecniche costruttive delle imbarcazioni. “Idraulica e navigazione” è il tema della quarta sala che ospita gli apparati di sentina delle navi romane con specifico riferimento alle pompe idrauliche. Vi si trova la ricostruzione di una pompa di sentina del tipo a bindolo funzionante. Nella quinta sala si affronta il tema “Nel porto e sulle navi a vela” con approfondimenti sulle manovre e sulle andature delle navi “a vela quadra” in funzione dei venti e delle correnti. La vita a bordo della navi romane è l’argomento della sesta sala (“La vita sul mare e per il mare”) che ospita una ricca collezione di ceppi di ancora originali provenienti dai fondali del litorale cerite e dal porto di Pyrgi. Di grande qualità ed interesse la ricostruzione in scala al vero della stiva di una nave oneraria del I secolo a.C., di medio tonnellaggio, con carico di anfore e vasellame. Nell’ultima sala, “Pyrgi sommersa”, sono illustrate le ricerche in corso sul fondale pyrgense e il progetto “Pyrgi Sommersa” curato dal museo civico in collaborazione con la soprintendenza e il centro studi Marittimi del gruppo archeologico del Territorio Cerite.
Una delle scoperte più importanti dell’ultimo scorcio del Novecento, le antiche navi di Pisa, costituiscono il cuore del museo delle Navi agli Arsenali medicei di Pisa. Il museo che ospiterà 30 navi romane con il loro carico di anfore, ceramiche, vetri, metalli, strumenti di bordo, scavate e restaurate in oltre 16 anni di lavori, è ancora in allestimento, ma il cantiere dal dicembre 2016 è visitabile su prenotazione. Era infatti il 1998 quando, poco fuori l’antica cerchia delle mura di Pisa, verso il mare, le Ferrovie iniziarono lavori di scavo a fianco della stazione di Pisa San Rossore. Immediatamente emersero oggetti di legno di cui gli archeologi compresero l’eccezionale importanza. Il Mibact, in accordo con la Rete Ferroviaria Italiana, iniziò subito una indagine archeologica nell’area. A circa tre metri di profondità emerse un’impressionante serie di relitti di navi. Nel 1999 RFI decise, necessariamente, di spostare altrove l’edificio. Si aprì quindi un grande cantiere di scavo, concluso nel 2016, che ha restituito circa trenta imbarcazioni di epoca romana e con esse importantissime testimonianze sui commerci, sulle tecniche di navigazione antica.
Il nostro viaggio virtuale a bordo della goletta Oloferne si chiude sulle coste siciliane. A Licata (Agrigento) c’è il museo del Mare, nato per iniziativa del locale gruppo archeologico Finziade che, dal 2012, si è dotato di un nucleo subacqueo. I lavori di recupero, condotti sotto la supervisione della soprintendenza del Mare, presso il sito dell’isolotto San Nicola e della Secca Poliscia (tuttora in corso) hanno riportato a galla reperti archeologici databili tra il periodo protostorico e l’età medievale che ora sono musealizzati nei locali comunali del chiostro di Sant’Angelo. La collezione più importante è quella delle ancore: due ancore a gravità a un foro, tre a gravità a tre fori, due ceppi litici, sei ceppi in piombo e una contrammarra plumbea. Tra le ancore in ferro, una di epoca romana del tipo a freccia, una bizantina, un’ancora Trotman (XIX secolo) e un ammiragliato (XX secolo). Tra gli oggetti restituiti dal mare una delicata gemma in pasta vitrea con incisa una figura umana sdraiata. Seguendo la costa, verso Ovest, c’è Sciacca (Agrigento) che dall’aprile 2017 ospita un nuovo museo del Mare in cui si incrociano storie di legalità ripristinata, archeologia subacquea, ricerca storica. Il museo di Sciacca, che ancora non è stato intitolato, è un esempio di allestimento lineare ed elegante che valorizza le collezioni che provengono in parte da reperti recuperati dalla Guardia di Finanza e, in parte, dalle ricerche subacquee coordinate dalla soprintendenza del Mare. Il pezzo più antico è una rarissima tazza in terracotta del II millennio a. C., scoperta nel mare di Sciacca. Nella prima delle due sale (sala delle anfore) le testimonianze della vivacità dei traffici marittimi dell’antichità: anfore puniche, tardo repubblicane e imperiali, olearie africane grandi, vinarie greco-italiche, romane dell’adriatico e bizantine. Nella seconda sala otto cannoni in bronzo e ferro della seconda metà del XVI sec., oltre a diverse parti strutturali della nave, stoviglie, strumenti di bordo. Prima di doppiare capo Boeo, si getta l’ancora a Marsala (Trapani), che fu potente colonia fenicia chiamata Lilibeo. In un edificio storico, il Baglio Anselmi, stabilimento vinicolo del XIX secolo, è allestito il museo Archeologico regionale di Lilibeo – Marsala (Trapani) che si trova all’interno del Parco archeologico di Lilibeo. I locali furono acquisiti al Demanio regionale e adibiti a museo nel 1986 per esporre il relitto della Nave punica (III sec. a.C) e illustrare la storia della città antica. Nel marzo del 2017 è stato inaugurato il nuovo percorso espositivo, completamente rimodulato e arricchito di reperti provenienti da recenti scavi e del relitto della nave tardo-romana di Marausa (IV sec. d. C). Il percorso dedicato alle collezioni subacquee comprende la saletta Porti di Lilibeo, sala Nave Punica, sala Nave di Marausa. Terra e mare si fondono in queste sale che custodiscono oggetti del passato strappati al mare come la statua di guerriero, di epoca romano-imperiale, e un tesoretto aureo recuperati dal mare di capo Boeo, le anfore dal porto o gli elmi in bronzo, dal mare di capo San Vito. L’ultimo tratto di navigazione ci porta a Favignana, nelle isole Egadi, dove nell’ex stabilimento Florio, costruito nella seconda metà dell’Ottocento per iniziativa del senatore Ignazio Florio, all’epoca il più importante e moderno stabilimento industriale per la lavorazione del tonno, oggi è il museo del Mare più grande d’Italia con una superficie di quasi 20mila mq e 18 sale espositive. Alcune sale conservano le antiche imbarcazioni usate per la pesca del tonno, altre reperti archeologici, altre ancora testimonianze della famiglia Florio. Nell’Antiquarium reperti archeologici provenienti dalle acquee delle Egadi, due sale dedicate a testimonianze della Battaglia delle Egadi del 241 a.C, con rostri romani ed elmi di tipo Montefortino.

Alla scoperta di Ulisse, del suo viaggio, dell’Occidente. Appuntamento il 1° giugno 2022, alle 18, al Castello di Santa Severa (Rm), sede del museo del Mare e della Navigazione antica, per la presentazione del libro di Angelo Pellegrino “Sulle rotte di Ulisse. Da Troia a Itaca tra mito e realtà” (Valtrend), in libreria dal 26 maggio 2022. Dopo i saluti del direttore del polo museale civico del castello di Santa Severa, Flavio Enei, la presentazione di Massimo Cutraro, dirigente di ricerca al Cnr e docente all’università di Palermo, che ha curato la prefazione (“Una rilettura avvincente e solida sul piano archeologico – scrive – intorno al tema dei contatti tra mondo egeo- miceneo e penisola italiana nell’età del Bronzo. Una visione intelligente ed equilibrata di leggere i processi storici al di là dei rumorosi clamori di certi musicanti erranti del metodo storico”). Seguono gli interventi di Barbara Davidde, soprintendente nazionale per il Patrimonio culturale subacqueo e Roberto Pietraggi, direttore della rivista Archeologia marittima mediterranea.










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