Roma, Percorsi fuori dal PArCo. Nel quattordicesimo e penultimo appuntamento il viaggio parte dalla Loggia Mattei sul Palatino e arriva alla Loggia di Galatea nella Villa Farnesina oltre Tevere, alla scoperta di Muse e Segni zodiacali

Quattordicesimo, e penultimo, appuntamento col progetto “Percorsi fuori dal PArCo – Distanti ma uniti dalla storia” che vuole portare i cittadini romani e tutti i visitatori a scoprire i legami profondi e ricchi di interesse, ma non sempre valorizzati, tra i monumenti del Parco e quelli del territorio circostante, raccontando, con testi e immagini, il nesso antico che unisce la storia di un monumento o di un reperto del parco archeologico del Colosseo con un suo “gemello”, situato nel Lazio. Dopo aver raggiunto il Comune di Cori (tempio dei Dioscuri), il parco archeologico di Ostia Antica (tempio della Magna Mater), Prima Porta (villa di Livia Drusilla), il parco archeologico dell’Appia Antica (tenuta di Santa Maria Nova), piazza Navona (stadio di Domiziano), villa di Tiberio a Sperlonga (Lt), Palazzo Barberini al Quirinale, il parco archeologico di Priverno (residenze private), il parco archeologico di Ostia Antica (Sinagoga), Santa Maria Maggiore a Ninfa (Lt), il complesso di Massenzio sulla via Appia, Palazzo Farnese a Caprarola (Vt), le gallerie nazionali Barberini Corsini, il viaggio virtuale – ma ricco di spunti per organizzare visite reali – promosso dal parco archeologico del Colosseo riparte ancora una volta dal Palatino, precisamente dalla Loggia Mattei, per giungere ad ammirare un’altra Loggia, quella di Galatea nella Villa Farnesina, tra Muse e Segni zodiacali.

Il colle Palatino viene ricordato soprattutto per lo splendore dell’epoca dei Cesari ma anche nei secoli successivi fu scelto come dimora da importanti famiglie. In questa penultima tappa del percorso proposto dal parco archeologico del Colosseo si parte dalla Loggia Stati-Mattei costruita nei primi anni del Cinquecento proprio sul colle sfruttando spazi esistenti della Domus Augustana, parte della residenza imperiale. La Loggia è ciò che resta della Villa fatta erigere dalla famiglia Stati sul colle Palatino e doveva affacciarsi sul giardino, secondo lo schema tipico delle abitazioni romane extraurbane della fine del Quattrocento. “Ancora oggi possiamo ammirarla con le forme di un tempo”, spiegano gli archeologi del PArCo: “un portico con tre colonne ioniche di reimpiego su cui si impostano quattro archi a tutto sesto, decorata con grottesche su fondo bianco chiaramente ispirate al mondo classico ed alle decorazioni della Domus Aurea (vedi la mostra “Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche” Roma. Il ministro Franceschini ha aperto ufficialmente la Domus Aurea e la mostra multimediale “Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche”. L’intervento dei curatori. Via libera al pubblico dal 23 giugno | archeologiavocidalpassato).

“La composizione pittorica, geometricamente scompartita per il necessario adattamento ad uno spazio già esistente”, continuano gli archeologi del PArCo, “adottò soluzioni prospettiche ben studiate: nelle lunette troviamo raffigurazioni di Apollo, Atena e delle Muse, mentre nelle vele sono inseriti medaglioni con i dodici segni zodiacali su fondo blu. Staccati e venduti intorno al 1856-1860, essi furono ricollocati in situ solo nel 1989 grazie ad un accordo con il Metropolitan Museum of Art di New York. Le pareti della Loggia erano ornate da otto scene mitologiche che riprendevano racconti delle Metamorfosi di Ovidio e narravano il mito di Venere: esse furono asportate a partire dal 1846 e vendute all’Ermitage di San Pietroburgo dove si trovano tuttora”.

“Gli affreschi risalgono con molta probabilità al 1520, momento in cui Cristoforo Stati si interessò alla costruzione e decorazione della Loggia affidandola, come testimoniano diverse fonti scritte, a Baldassarre Peruzzi che, all’inizio della sua carriera, fu collaboratore di Raffaello. Dal maestro colse il linguaggio utilizzato nella stufetta vaticana del cardinal Bibbiena, realizzata pochi anni prima dalla scuola di Raffaello, come risulta particolarmente evidente nelle scene raffiguranti Venere. La famiglia Mattei entra nella storia della Loggia nel 1560 dopo aver acquistato dagli Stati la vigna, con lo scopo di formare un unico grande possedimento. Il passaggio di proprietà determinò modifiche strutturali anche agli affreschi della Loggia come testimonia la sostituzione dello stemma Stati con quello dei nuovi proprietari Mattei”.

“Curiosamente Peruzzi, circa un decennio prima, era già stato incaricato di progettare l’architettura e la decorazione ad affresco”, ricordano gli archeologi del PArCo, “di un’altra Loggia non lontana da qui, sull’altra sponda del Tevere: la Loggia di Galatea a Villa Farnesina. Commissionata agli inizi del Cinquecento dal banchiere di origine senese Agostino Chigi, essa rappresenta una delle più nobili e armoniose realizzazioni del Rinascimento italiano”.

“Nella Loggia di Galatea il committente volle amplificare la sua immagine realizzando una ideale autobiografia: così il Peruzzi raffigurò sulla volta l’oroscopo di Agostino Chigi e il suo tema natale con divinità planetarie e costellazioni extra-zodiacali, lasciando intuire il fausto destino del committente nella favorevole congiuntura degli astri. Le lunette con sfondo blu e scene mitologiche furono invece affrescate da Sebastiano del Piombo e i motivi decorativi tratti in prevalenza dalle Metamorfosi di Ovidio; un altro punto in comune con la Loggia Palatina che, nelle scene raffiguranti Venere, si ispirava alla stessa fonte antica”.

“L’augurio di un nuovo amore, invece, si ritrova nella scena con ciclope Polifemo innamorato della bella Galatea – che dà anche il nome alla Loggia – rispettivamente realizzati da Sebastiano del Piombo e Raffaello”.

“I legami storico culturali che già nel Cinquecento intercorrevano tra le due Logge sono stati oggi ulteriormente valorizzati dall’accordo firmato tra il PArCo e l’Accademia nazionale dei Lincei. Le due istituzioni si sono impegnate a collaborare per 4 anni per la ricerca, la promozione e la fruizione del proprio patrimonio con progetti condivisi. Una delle prime iniziative, già in corso, è proprio la digitalizzazione ad alta risoluzione delle due Logge. Per informazioni sulla Accademia Nazionale dei Lincei vi invitiamo a visitare il sito ufficiale https://www.lincei.it/it.
Roma. Archeologi e restauratori del parco archeologico del Colosseo raccontano il cantiere di restauro del Tempio di Vesta nel Foro romano. E a primavera giornata di studi internazionali sull’Aedes Vestae

Un arcobaleno ha salutato la fine dei lavori di restauro del Tempio di Vesta nel Foro Romano. “Mentre si smontano i ponteggi e il monumento torna pian piano completamente visibile”, raccontano archeologi e restauratori del parco archeologico del Colosseo che hanno seguito i tre mesi di lavori, e annunciano una buona notizia: “Stiamo organizzando una giornata internazionale di studi dedicata proprio all’Aedes Vestae che, con i buoni auspici della Dea (leggi Covid permettendo), sì terra il 1º Marzo 2021”.

Il tempio di Vesta, nel Foro romano, è il fulcro del complesso monumentale legato al culto di Vesta, culto antichissimo e risalente già al secondo re di Roma Numa Pompilio, più volte ricostruito a causa dei numerosi incendi e infine restaurato, nelle forme visibili ancora oggi, dall’imperatrice Giulia Domna verso la fine del II secolo d.C. Dal podio circolare in opera cementizia rivestito in marmo, si innalzavano colonne con capitelli corinzi. L’interno accoglieva il braciere con il fuoco sacro, che non doveva mai spegnersi, simbolo dell’eternità di Roma e del suo destino di impero universale. La forma circolare era forse ispirata a quella delle capanne di epoca arcaica, con un foro al centro del tetto conico per far uscire il fumo. All’interno del tempio era anche conservato il Palladio, piccolo simulacro di Atena-Minerva, portato a Roma, secondo la leggenda, da Enea e simbolo della nobiltà della stirpe romana. Accanto al tempio è la casa delle Vestali, sacerdotesse dedicate al culto di Vesta e alla sorveglianza del fuoco sacro, l’unico sacerdozio femminile di Roma. In numero di sei e provenienti da famiglie patrizie, dovevano osservare il loro servizio per 30 anni, conservando la verginità, pena la morte. In cambio godevano di molti privilegi (si spostavano in carro in città e disponevano di posti riservati negli spettacoli).
Tutto è iniziato il 30 settembre 2020. E non è stato un caso. Il 30 settembre 1930 a seguito dei numerosi incendi, crolli e spoliazioni che ne avevano compromesso l’intera struttura, Alfonso Bartoli, direttore dell’Ufficio Scavi del Palatino e del Foro Romano, ordinò la ricostruzione del Tempio sulla base di un modello in gesso al vero, poi smontato. A distanza di 90 anni, il 30 settembre 2020, l’archeologa Federica Rinaldi insieme a tutto lo staff del cantiere inizia il racconto dei lavori di restauro avviati alla riapertura, in giugno 2020, del parco archeologico del Colosseo dopo il lockdown.

Immagini d’archivio dei restauri e ricostruzione per anastilosi del Tempio di Vesta negli anni 1929-30 (foto PArCo)
La funzionaria archeologa del PArCo Giulia Giovanetti e Dimosthenis Kosmopoulos, archeologo e collaboratore del PArCo, ci raccontano le ricerche che hanno accompagnato il cantiere di restauro del Tempio di Vesta, iniziato nel 2019, per conoscere meglio il monumento e la sua storia. “Oggi ci troviamo di fronte al monumento che non è come ci è stato trasmesso dal mondo antico”, spiega Giovanetti. “Infatti noi operiamo un restauro su un monumento che è stato completamente ricostruito all’inizio del ‘900, tra gli anni Venti e gli anni Trenta. Questa ricostruzione utilizzò una serie di elementi antichi che erano stati rinvenuti nei dintorni del tempio del quale si conservava esclusivamente il basamento circolare e nulla degli elevati. Dalle foto di archivio del primo Novecento si vede bene che molti dei frammenti architettonici che erano stati disposti tra Otto e Novecento nell’area del tempio in realtà erano già stati studiati, catalogati e posizionati per tentare di ricostruire l’elevato del tempio. Il tempio di Vesta è uno dei monumento del Foro romano che aveva restituito e conservato tantissimi elementi architettonici, e quindi già Rodolfo Lanciani alla fine dell’Ottocento e lo stesso Giacomo Boni decisero di studiarne gli elementi. A quel tempo tuttavia si decise che c’erano troppe incertezze per proporre una ricostruzione completa e quindi si accantonò il progetto di ricostruzione. In un’altra foto d’archivio si vede che è già stato realizzato il restauro, ma gli elementi ricostruiti sono posizionati in modo differente da come li vediamo attualmente. Si vede infatti che il tempio dei Dioscuri si trova a lato delle colonne del tempio di Vesta. E un’altra foto ci rivela che fu realizzato un modello in gesso al naturale preliminarmente al restauro e alla ricostruzione vera e propria. Quindi da una collazione delle fonti scritte e fotografiche ricostruiamo che il modello in gesso fu realizzato in una certa posizione, ma che poi una volta demolito la ricomposizione del tempio fu fatta rivolgendo le colonne verso la piazza del Foro, quindi nella posizione attuale.

Le impalcature per il restauro del Tempio di Vesta nel Foro romano nel 2020 (foto PArCo)
“Questa ricomposizione, ritenuta importante fin dall’Ottocento ma poi accantonata, fu realizzata in periodo fascista sostenuta da motivazioni ideologiche, di propaganda politica, di connessione con l’antichità, in particolare con Vesta: perciò – conclude Giovanetti – si decise di recuperare e portare avanti il progetto. E ne parlarono diffusamente i quotidiani dell’epoca. E il 21 ottobre 1929 il grande architetto Gustavo Giovannoni fu chiamato a seguire questo restauro e il cantiere vero e proprio”. Dalla ricerca d’archivio al di fuori del parco archeologico del Colosseo Dimosthenis Kosmopoulos ha scovato un documento in cui si dice che si consigliava proprio ai giovani architetti lo studio dei molti frammenti a terra. “C’è stato anche un lungo dibattito sull’orientamento del tempio di Vesta, e alla fine ha prevalso la scelta verso il Campidoglio per una situazione più ottimale dal punto di vista altimetrico del terreno. E si scopre anche – una curiosità – che i lavori furono sospesi per un periodo per consentire al direttore dei lavori di allestire il matrimonio del principe ereditario. Comunque lo studio d’archivio ci permette di essere più precisi sulle scelte e sull’uso dei materiali per il restauro”.
Nel terzo appuntamento l’archeologa Federica Rinaldi, direttrice del Colosseo, è in compagnia dell’archeologa Francesca Caprioli (PhD, ricercatrice e docente in collaborazione con Sapienza Università di Roma e UCLA), esperta del tempio di Vesta, che focalizza soprattutto la funzione simbolica del tempio che molto dipende dalla sua forma. “La forma architettonica del tempio di Vesta rimane invariata fin dalla sua origine”, spiega Caprioli. “Ovidio ci dice nelle Metamorfosi che è legata alla forma della terra. L’Aedes Vestae si caratterizza fin da subito per essere non un tempio ma un aedes vero e proprio, un sacrarium, quindi una custodia dell’ignis aeternus, del fuoco sacro che poi nella propaganda augustea si dice venisse direttamente da Enea, dalla città di Troia, proprio per garantire questo imperium sine fine che da allora per tutta la durata dell’impero romano doveva ardere all’interno di questo sacrario. La forma quindi rotonda e anche la sua caratteristica di custodire il fuoco sono testimoniati sia dall’elevato architettonico (il decor) sia dal nome stesso, aedes, che ha la stessa radice di edificio, viene dal verbo greco che significa bruciare, ha la stessa etimologia di aestas (estate), e della stessa Vesta (la greca Estia), e ancora di ustionare: quindi è la casa del fuoco. Questa casa del fuoco era quindi prima una capanna dalla forma circolare, e poi piano piano è stata monumentalizzata mantenendo sempre la forma rotonda e, anche nell’elevato, il concetto di capanna e di contenitore (del fuoco). Le monete ci testimoniano la conservazione della forma dei secoli. E si arriva all’incendio del 14 a.C. quando Augusto ricostruisce il sacrario di Vesta dandogli un aspetto leggermente diverso. Compare un podio sagomato su cui si impostavano le colonne. Questa iconografia augustea, di cui non abbiamo testimonianza, viene reiterata dopo l’incendio del 64 d.C. con l’intervento di Tito e Domiziano, e verrà in qualche modo fissata dalla metà del I sec. d.C. Com’era dunque il tempio di Vesta? Un edificio rotondo con 20/22 colonne con fusto rudentato, cioè riempite per un terzo dell’altezza del fusto (ricorderebbe – secondo alcuni studiosi – il gusto dell’incannucciata della capanna). Probabilmente si vuole dare l’idea di uno spazio chiuso, protetto. Le colonne esterne hanno due lati scalpellati proprio per l’introduzione delle transenne. I capitelli sono a foglie d’acanto, che simboleggiano il trionfo sulla morte, secondo l’iconografia scelta da Augusto dal linguaggio ellenistico per celebrare anche il suo trionfo sulla morte di Cesare. Questi capitelli mostrano un respiro di epoca flavia, e attraverso i confronti tipologici, è stato possibile attribuirli a un’officina corrente che in qualche modo restaura il tempio anche nella seconda metà del II sec. d.C. Il materiale del tempio è fortemente restaurato anche in antico: quindi è un materiale che reitera l’iconografia flavia per almeno tutto il II sec. d.C. in un’officina di stile corrente non particolarmente brillante per la qualità e che però in qualche modo porta avanti l’aspetto del tempio dell’inizio I sec. d.C.”

Federica Rinaldi, con una restauratrice, sui ponteggi del cantiere del Tempio di Vesta nel Foro romano (foto PArCo)
“Quello che non sembra essere stato restaurato in antico”, continua Caprioli, “sono i soffitti e anche il fregio che mostra gli instrumenta sacra: si vede il bucranio con le infulae (bende di lana bianca con cui si cingeva il capo dei sacerdoti, delle vestali e delle vittime sacrificali), l’urceulus (piccola brocca), il culter (coltello), la securis (ascia), la scatola dove si contenevano gli incensi. E si vede anche una patera, un altro culter, un ramo d’olivo con le drupe, e un’idria che era fondamentale nel culto curato dalle Vestali. Questo fregio sembra contestuale con un periodo che viene definito di stile proto-severiano, quindi simile al linguaggio architettonico del Pantheon: quindi anche questo aspetto potrebbe essere ascritto al restauro del tardo II sec. d.C. L’aedes Vestae guarda il tempio della diva Faustina, eretto nel 141 d.C. dall’imperatore Antonino Pio e dedicato alla moglie Faustina, e solo nel 161 d.C., alla morte dell’imperatore, dedicato a entrambi. Antonino Pio si è caratterizzato molto per la pietas, virtù che in qualche modo legava l’uomo attraverso la religio con le divinità, ed era anche ricordato come restitutum aedum sacrum: ciò è importante, perché Antonino Pio scelse per la costruzione del suo tempio, l’ultimo del Foro romano, la posizione proprio davanti l’antico tempio di Vesta. Ci sono due testimonianza che possono far pensare agli Antonini per il restauro del tempio di Vesta. Una è un medaglione in bronzo di Faustina che riproduce l’imperatrice come vestale maxima che sacrifica davanti a un tempio rotondo, sicuramente il tempio di Vesta. L’altra è il famoso medaglione d’argento di Iulia Domna che mantiene la stessa iconografia, su cui si basa la vulgata proprio per l’ultimo restauro del tempio che è quello che vediamo. Quindi dallo studio degli elementi architettonici del tempio di Vesta cogliamo un linguaggio di II secolo. Nel 191 d.C. fu danneggiato da un altro incendio, e fu di nuovo restaurato e ci sono dei frammenti che confermano questo rapporto modello-copia: quindi si perpetua in qualche modo un modello iniziato in età augustea. Era un simbolo, e questo simbolo appunto fu conservato vivo perché doveva essere come una sorta di miracolo sempre in piedi, sempre uguale, sempre del medesimo aspetto dall’epoca augustea fino, per lo meno, al 396, quando abbiamo l’ultima testimonianza dell’aedes Vestae: monumento della stabilità e dell’aeternitas dell’impero”.

Il cantiere di restauro del Tempio di Vesta nel Foro romano (foto PArCo)

Smontaggio dei ponteggi del cantiere di restauro del Tempio di Vesta (foto PArCo)
Nel quarto appuntamento, avviandosi ormai il cantiere alla conclusione dei lavori, Federica Rinaldi, funzionario archeologo e Angelica Pujia, funzionario restauratore, illustrano le attività di restauro fino qui condotte. “Siamo di nuovo sui ponteggi. Stesso tempio, stesso tempio, diverse condizioni delle superfici”, inizia a spiegare Angelica Pujia. “Siamo arrivati quasi alla fine dei lavori, grazie a Irene Giuliani e al team di restauratrici che ha guidato. Come tutti gli interventi di restauro, anche questo è stata un po’ una sfida. Abbiamo avuto la possibilità di osservare il tempio dal basso, e quindi abbiamo ipotizzato alcune forme di degrado. Salire sul ponteggio però ci ha permesso di confrontare quello che era stato il degrado che noi avevamo individuato con la reale condizione di questo manufatto. Manufatto che è composto da materiali differenti con storie conservative estremamente diverse. L’anastilosi del tempio risale a circa novant’anni fa. Abbiamo materiali che sono stati preparati per la ricostruzione del tempio, come il travertino, e materiali invece come il marmo che hanno avuto un storia conservativa ben più lunga, perché fanno parte del monumento originale. Questo intervento ci ha permesso di verificare lo stato delle superfici rispetto a uno stato di partenza molto differente, e quindi materiali in opera da poco tempo rispetto a quelli antichi. E poi è stato interessante vedere il modo in cui i vari materiali sono stati rimontati, quali sono stati i metodi per la ricostruzione, e in che modo i materiali originali hanno reagito a queste sollecitazioni. Sono stati quindi elaborati metodi di pulitura, di consolidamento differenti non solo per i diversi materiali, ma anche per i diversi stati di conservazione che gli stessi materiali avevano nelle parti alte e nelle parti basse, e quindi sottoposti a fattori di degrado differenti. Abbiamo cercato di intervenire senza modificare più di tanto l’impostazione degli anni Trenta, ma restituendo l’idea filologica di un tempio nella sua forma architettonica.

Lo staff che ha seguito il cantiere di restauro del Tempio di Vesta nel Foro romano (foto PArCo)
“Il restauro, oltre ad allungare la vita del bene culturale, è anche un momento di conoscenza. E quindi alla fine di ogni restauro le nostre conoscenze sono ampliate, e questo anche grazie al dialogo delle diverse figure professionali coinvolte, che hanno messo in relazione le notizie storico-artistiche con i risultati delle indagini scientifiche ma anche le informazioni sul sistema di ancoraggio dei singoli elementi. E abbiamo potuto anche fare il punto sulle condizioni strutturali del monumento. Abbiamo dovuto fare i conti con il travertino, usato nella ricostruzione, e con il marmo, usato dagli antichi, ma anche con i materiali usati per mettere insieme marmo e travertino, come il cemento: materiali che ora non utilizziamo più perché hanno proprietà meccaniche troppo differenti dai materiali antichi. Ma ormai sono interventi storicizzati che fanno parte del monumento”.
Ovidio, il poeta alle radici dell’Europa. Alle Scuderie del Quirinale la grande mostra “Ovidio. Amori miti e altre storie” nel bimillenario della morte del poeta. Nostra intervista alla curatrice Francesca Ghedini: temi, ricerche, miti raccontati attraverso 200 opere, molte inedite

Alle Scuderie del Quirinale a Roma la mostra “Ovidio. Amori miti e altre storie” dal 17 ottobre 2018 al 20 gennaio 2019
Ancora poche ore e le Metamorfosi di Ovidio si materializzeranno alle Scuderie del Quirinale a Roma nella mostra “Ovidio. Amori miti e altre storie” dal 17 ottobre 2018 al 20 gennaio 2019, declinate in oltre duecento opere, alcune esposte per la prima volta al grande pubblico, che vanno dall’antichità (sculture, rilievi, affreschi, gemme, monete…), al medioevo (codici miniati con le illustrazioni dei diversi miti), fino alla grande stagione pittorica del Rinascimento e del Barocco, con quadri dei più grandi pittori del tempo. La mostra, che rientra nelle celebrazioni per il bimillenario della morte del poeta Publio Ovidio Nasone, morto in esilio a Tomi, sul mar Nero, appunto fra il 17 e il 18 d.C., nasce da un progetto di Francesca Ghedini, con Giulia Salvo e Isabella Colpo, ed è stata curata dalla stessa Francesca Ghedini unitamente a Vincenzo Farinella, Giulia Salvo, Federica Toniolo, Federica Zalabra. La mostra presenta la cultura e la società della Roma della prima età imperiale, ricostruita attraverso il filtro dei testi ovidiani: dall’Ars Amatoria alle Metamorfosi alle disperate lettere dal mar Nero. Archeologiavocidalpassato ha incontrato la curatrice della mostra, l’archeologa Francesca Ghedini, professore emerito dell’università di Padova.
Professoressa Ghedini, come nasce questa mostra “archeologico-artistica” con un soggetto che è più letterario-filologico?
“Dietro questa mostra, frutto di molte professionalità dell’università di Padova, ci sono 10 anni di ricerche, convegni e mostre. Basti ricordare i contributi ovidiani pubblicati sulla rivista “Eidola. International journal of classical art history” nel 2011; e poi l’anno successivo la pubblicazione degli atti del convegno “Il gran poema delle passioni e delle meraviglie. Ovidio e il repertorio letterario e figurativo fra antico e riscoperta dell’antico” tenutosi qualche anno prima all’università di Padova; e sempre nel 2012 la mostra “Metamorfosi. Miti d’amore e di vendetta nel mondo romano” tenutasi a Padova che ho curato insieme a Isabella Colpo”. Per la mostra odierna fondamentale è stato l’apporto della Direzione Generale del MiBAC e delle Scuderie del Quirinale che hanno accettato con entusiasmo l’ambizioso progetto.
Ovidio è il più immaginifico degli scrittori antichi. Attraverso le sue parole/versi è il più tradotto … dal mondo antico ai giorni nostri. Ma da qui a farne una mostra…
“Abbiamo pensato e voluto realizzare una mostra che sia accattivante per il grande pubblico, nonostante sia dedicata a un poeta. Il nostro intento è stato quello di raccontare il poeta attraverso le immagini. Non siamo comunque i primi che si sono cimentati nell’impresa di raccontare un poeta in una mostra. Ci sono dei precedenti illustri in questo senso: ad esempio, la grande mostra a Mantova su Virgilio nel 2011 (“Virgilio, volti e immagini del poeta”), curata da Vincenzo Farinella; e la stupenda mostra sull’Ariosto a Ferrara nel 2016 (“Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi”), curata da Guido Beltramini.
Ma le nostre conoscenze su Ovidio, rispetto ai citati Virgilio e Ariosto, sono ben poca cosa.
“È vero. Noi ci siamo trovati a narrare, a raccontare di un grande poeta di cui sappiamo ben poco: il suo volto è a noi sconosciuto, e neppure la sua data di morte in esilio è certa: oscilla tra il 17 e il 18 d.C. Noi ci agganciamo a questa data che va per la maggiore (per il bimillenario). Però, diversamente dal caso di Virgilio, per esempio, di Ovidio sappiamo molte cose grazie a una specie di autobiografia contenuta in una delle più toccanti elegie scritte in esilio sul mar Nero (la decima del quarto libro dei Tristia). Comunque sono molte le opere straordinarie esposte alle Scuderie del Quirinale, alcune presentate per la prima volta al pubblico. E l’impatto sui visitatori credo proprio sarà di grande effetto, grazie anche alla sensibilità dell’architetto Francesca Ercole che ha realizzato un allestimento eccezionale, adottando spesso soluzioni ancora più efficaci di quelle che avevamo pensato noi. Inoltre la mostra è accompagnata da un ricco catalogo, curato molto bene da Artem”.
Gli spazi alle Scuderie del Quirinale si articolano in dieci sale, cinque per piano. Come ha sfruttato questi grandi spazi?
“La mostra è organizzata per grandi temi. Al piano terra, la prima sala è dedicata alle opere del poeta, a quelle opere che lo hanno fatto grande e ne hanno preservato la memoria; poi proseguiamo illustrando la sua concezione dell’amore e lo scontro con Augusto, personaggio chiave nella vita di Ovidio, basato anche sulla diversa concezione di divinità come Apollo, Diana e Giove. Invece le cinque sale del secondo piano sono tutte dedicate alle Metamorfosi”.
Allora vediamo un po’ più da vicino l’articolazione di questa mostra. Ci accompagni in una piccola visita guidata virtuale?
“Tema fondamentale nella produzione ovidiana è l’Amore. Sappiamo come nelle opere giovanili il poeta abbia evocato corteggiamenti e amplessi. I suoi versi danno vita a un vero e proprio vademecum del perfetto seduttore. Così per illustrare i suoi versi immortali abbiamo proposto in mostra immagini di scene amorose, arredi e oggetti di uso femminile. E poi ci sono i baci appassionati, le scene erotiche: protagonisti negli elementi decorativi all’interno della casa romana. Anche Augusto non disdegnò di averne alcune, nonostante la sua politica di moralizzazione. Quindi vediamo in mostra – come in uno specchio – le immagini che si ritrovano nei versi di baci appassionati e di amplessi. C’è quindi un gioco di rimandi tra versi e immagini”.

L’Augusto velato, capolavoro proveniente dal museo Archeologico nazionale di Aquileia (foto Graziano Tavan)
Nella seconda sala propone la storicizzazione della figura di Ovidio. Cosa intende?
“La seconda sezione affronta il grande scontro tra l’imperatore Ottaviano Augusto e il poeta, costretto alla fine all’esilio. Sappiamo che i motivi alla base dell’ira di Augusto sono legati ai versi “licenziosi” di Ovidio sull’amore, e al suo modo dissacrante di rapportarsi e trattare le divinità, proprio quelle divinità che sono le fondamenta della politica e della morale di Augusto. In particolar modo Ovidio se la prende con Apollo, Diana e Giove. Non è un caso che abbiamo dedicato le tre sale successive a descrivere i miti più famosi legati a queste tre divinità. È proprio in questa sezione che chiude il piano terra delle Scuderie del Quirinale, e in qualche modo anche il rapporto di Ovidio con il mondo antico, che compaiono i primi codici, che è possibile esporre grazie al contributo di Federica Toniolo, collega di Storia dell’arte all’università di Padova. Sono proprio i codici medievali e i primi libri a stampa illustrati con soggetti ovidiani che fanno da trait d’union tra il mondo antico e il Medioevo e l’età Moderna, mondi che sono ben rappresentati nell’altra metà della mostra, al secondo piano”.
I miti raccontati nelle Metamorfosi superano dunque il mondo antico per arrivare fino a noi. Come li avete resi per il grande pubblico?
“Come si diceva, tutto il secondo piano è dedicato alle Metamorfosi, con l’illustrazione di una decina di miti: quelli più importanti e famosi. In questa sezione abbiamo la possibilità di esporre anche quadri di grandi artisti del Rinascimento, dal Tintoretto al Poussin, la cui scelta è stata affidata a Federica Zalabra del MIBAC e Vincenzo Farinella dell’università di Pisa. Ogni mito è raccontato in poche righe. E poi immagini e versi di Ovidio si rincorrono in un mix antico-moderno”.
Come si presenta in mostra questo mix antico-moderno?
“L’illustrazione del mito la affidiamo a una grande varietà di oggetti: dall’affresco romano ai sarcofagi, dai codici antichi ai quadri rinascimentali, e alle parole di Ovidio stesso. Così il visitatore potrà cogliere che c’è un filo rosso che corre attraverso i secoli dall’età augustea ai giorni nostri. Ovidio fissa la cultura occidentale. Ancora oggi nel nostro modo di dire e di fare c’è tanto di Ovidio, anche se non ce ne rendiamo conto. In poche parole possiamo dire che Ovidio è alle radici dell’Europa”.
Come si chiude la mostra alla decima sala?
“La mostra si conclude con l’apoteosi di Ovidio che raccontiamo attraverso l’apoteosi di Ganimede, metafora dell’apoteosi del poeta che supera l’esilio e il tempo. È lui stesso che scrive: “Io sopravviverò alla morte”. E non si è sbagliato”.
Ha parlato di grandi pezzi in mostra. Ce ne anticipa qualcuno?
“Innanzitutto il mio pezzo preferito. Viene dal museo di Eretria, in Grecia, e fa bella mostra nella sala 6: si tratta del gruppo scultoreo “Venere ed Eros” che racconta il mito di Adone. E ancora il cosiddetto “Ritratto di Ovidio”, cosiddetto perché in realtà non abbiamo alcun ritratto attribuibile al poeta. È stato realizzato dal pittore ferrarese Ortolano. Lo abbiamo posto nella prima sala”.

“Venere callipigia”, capolavoro conservato al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto Graziano Tavan)
Qualche altro…
“Mi piace ricordare tre pezzi eccezionali che vengono da altrettanti grandi musei italiani: la Venere Callipigia, scultura romana del I-II sec. d.C., conservata al museo Archeologico nazionale di Napoli; l’Ermafrodito del museo nazionale Romano; e la statua dell’Augusto velato dal museo Archeologico nazionale di Aquileia”.
Tra tanti capolavori anche dei pezzi inediti.
“Ci sono pezzi frutto di nuove e recenti scoperte archeologiche: come è il caso della testa di Giulia Minore (nipote di Augusto) trovata a Fiumicino, o il ritratto di Tiberio proveniente da Sessa Aurunca. (https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/01/24/il-carro-del-principe-sabino-di-eretum-in-lamine-dorate-vii-vi-sec-a-c-protagonista-della-mostra-testimoni-di-civilta-lart-9-della-costituzione-la-tutela-del-patrimonio-cu/)”.
Come si può intuire, chiude la prof. Francesca Ghedini, “non è una mostra di cassetta, ma una mostra che appassionerà sicuramente il grande pubblico proponendo un messaggio culturale di qualità frutto di un lungo lavoro di preparazione”.
Il fascino dell’archeologia racchiuso in una pralina. Per la rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto creata in esclusiva una pralina a strati (archeologici): dal cacao, dono divino per gli aztechi, al sale e mais, al miele d’acacia, al rosmarino di ovidiana memoria

Walter Tomio, titolare di Exquisita, mostra la pralina Rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto (foto Graziano Tavan)
Il fascino dell’archeologia racchiuso in una… pralina. Chi frequenta Rovereto la prima settimana di ottobre da quasi trent’anni è abituato a coniugare la ricerca archeologica con la divulgazione scientifica attraverso il cinema. Ma per la 29.ma rassegna internazionale del cinema archeologico succede anche che un’eccellenza di Rovereto, la cioccolateria Exquisita, abbia realizzato in esclusiva per la rassegna una pralina che “racconta l’essenza del festival attraverso il cioccolato”. Sabato 6 ottobre 2018, dalle 11.15 alle 12.30, la pralina è presentata ufficialmente nella Sala Bar del teatro Zandonai di Rovereto, sede della rassegna, dove sarà possibile anche degustarla. “Racchiudere il concetto di archeologia e cinema in una pralina”, esordisce Walter Tomio, titolare di Exquisita, “è stata una bella sfida… Per me, che non sono un archeologo, l’archeologia ha la capacità di travalicare i confini del tempo e dello spazio, in una certa misura di rendere immortali le storie e le vicissitudini. Ho voluto quindi rappresentare questo aspetto, il tema dell’immortalità, declinandolo in un cioccolatino per narrare la capacità che ha il cinema di rendere fruibili temi complessi anche ai profani”.
I segreti della pralina “archeologica”. “Il guscio della pralina – spiega Tomio – è in cioccolato extra fondente 61%, da una miscela di cacao con una forte presenza di cacao del centroamerica, cacao originari. Quindi il guscio è dedicato alle civiltà precolombiane e alla leggenda azteca che faceva risalire l’albero del cacao a un dono del dio Quetzalcoatl. All’interno abbiamo creato delle stratificazioni, a rappresentare la stratigrafia di uno scavo archeologico. Nello strato superiore abbiamo utilizzato del mais salato macinato grossolanamente. Il mais è un’altra traccia delle civiltà precolombiane, uno degli elementi base dell’alimentazione e quindi della sussistenza. Il sale è stato uno degli ori dell’antichità a molte latitudini. La granulosità è dedicata alla parte manuale del lavoro dell’archeologo, il contatto con la terra. Nello strato inferiore abbiamo creato una ganache di cioccolato con il miele di acacia. Il miele inserisce un altro elemento di sostentamento degli antichi ma anche la dolcezza primordiale; non un miele qualsiasi, ma solo miele di acacia perché è molto pregiato, ha un gusto piuttosto neutro e quindi interferisce solo minimamente con la percezione gustativa, e perché l’acacia è il legno con il quale Dio ordinò a Mosè sul Sinai di costruire l’Arca dell’Alleanza, un legno straordinariamente duro ma anche elastico allo stesso tempo…. insomma il legno che secondo la tradizione ebraica avrebbe permesso di travalicare il tempo e proteggere il sacro”. “Il tocco finale – conclude Tomio – è un macinato di rosmarino. Utilizzato nei riti funerari dei popoli mediterranei (egiziani, greci, romani) per il suo simbolo di immortalità e memoria. Molte le leggende, su tutte quella collegata ad Ovidio nelle “Metamorfosi”, riferita alla morte della bella principessa Leucotoe. I raggi del sole, deviati da Apollo affinché la illuminassero nella sua tomba, la trasformarono in una pianta dalle foglie profumatissime nella quali la vulgata vi lesse proprio il rosmarino. La parte finale del lavoro è nell’abilità di dosare e miscelare questi molteplici e insoliti ingredienti per ottenere una pralina che oltre a aver messo in gioco molti concetti per rappresentare la bellezza di una Rassegna dedicata al Cinema Archeologico fosse anche buona…. Magari squisita… Questo lo giudicherà chi la assaggerà”.
Nel bimillenario della morte di Ovidio, al santuario di Ercole Vincitore a Tivoli (Roma) la mostra “E dimmi che non vuoi morire: il mito di Niobe”: al centro il restaurato gruppo scultoreo di Niobidi scoperto a Ciampino nel 2012 insieme a opere sul mito realizzate nel corso dei secoli

Il santuario di Ercole Vincitore a Tivoli (Roma), uno dei maggiori complessi sacri dell’architettura romana in epoca repubblicana
Nell’antico Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli (Roma) si conserva un gruppo scultoreo di Niobìdi di estrema rilevanza. Ma non da molto. La sensazionale scoperta delle statue risale infatti a pochi anni fa, all’estate del 2012, nei pressi di Ciampino (Roma), all’interno del Barco Colonna, in una natatio (piscina) legata al quartiere termale di una villa romana, già attribuita alla famiglia dei Valerii Messallae. L’esponente più insigne della famiglia in età augustea, il celebre Marco Valerio Messalla Corvino, console nel 31 a.C. con Ottaviano, fu poeta egli stesso e protettore di Tibullo e di Ovidio e proprio nelle “Metamorfosi” di Ovidio possiamo leggere una delle descrizioni più celebri del mito di Niobe e dei suoi sventurati figli. Ecco che quindi la stimolante coincidenza della presenza del gruppo di Niobìdi a Tivoli con il bimillenario della morte del poeta Publio Ovidio Nasone avvenuta a Tomi (l’odierna Costanza, oggi in Romania), sul mar Nero, il 18 d.C., ha convinto l’Istituto Villa Adriana e Villa d’Este a promuovere la mostra “E dimmi che non vuoi morire: il mito di Niobe”, che inaugura la prima stagione espositiva nelle vesti di nuovo organismo autonomo del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

L’ingresso della mostra “E dimmi che non vuoi morire: il mito di Niobe” al santuario di Ercole Vincitore a Tivoli (Roma)
Il progetto espositivo, curato da Andrea Bruciati e Micaela Angle, si sviluppa nell’Antiquarium del Santuario di Ercole Vincitore, fino al 23 settembre 2018, presentando per la prima volta al pubblico le statue dopo complesse operazioni di restauro. Il santuario di Ercole Vincitore è uno dei maggiori complessi sacri dell’architettura romana in epoca repubblicana. Situato a Tivoli, venne edificato nel corso del II secolo a.C. Si tratta di una struttura di dimensioni imponenti, realizzata con una serie di terrazzamenti, a picco sul fiume Aniene. La mostra è allestita in due nuove sale del Santuario che ne fungono da palcoscenico. Partendo proprio dal gruppo di Ciampino, l’esposizione esplora il mito di Niobe all’interno della tradizione attraverso un’attenta analisi dell’evoluzione e della fortuna di esso nei secoli: dall’iconografia della violenza nel Rinascimento si passa al XX secolo e si arriva fino al nuovo millennio, quando il tema è declinato in stilemi e rappresentazioni figurative che interessano l’attualità, come il genocidio e la guerra. In questa prospettiva, il tema della strage antica diventa, quindi, occasione di riflessione e confronto con l’iconografia della violenza dal Rinascimento all’età contemporanea, fino ai tempi nostri, connotandosi in stilemi e rappresentazioni figurative che interessano temi stringenti per l’attualità come il genocidio, la guerra, e rispecchiandosi nella grande letteratura contemporanea. Se uno degli obiettivi del progetto scientifico è quello di celebrare Ovidio, si vuole però qui “vivificare, attraverso l’analisi di un episodio delle Metamorfosi, un racconto lungo oltre duemila anni, dove l’interpretazione e l’eredità del mito vengono intesi quasi come storytelling mutante e impressivo”.
Ma cerchiamo di conoscere meglio il mito di Niobe, magistralmente narrato da Ovidio in Metamorfosi, VI, 146-312. In nostro aiuto viene uno dei curatori, Micaela Angle. “Niobe, regina di Tebe, sarebbe stata la più fortunata delle madri”, interviene, “se tale non fosse sembrata a se stessa (“Sono felice; chi potrebbe negarlo? L’abbondanza di figli mi rese sicura. Immaginate che si sottragga qualche parte a questa moltitudine; benché privata, non mi ridurrò al numero di due, che è la prole di Latona”, era il pensiero di Niobe)”. La dea si indigna e si rivolge ai figli, Apollo e Artemide, per essere vendicata. Vicino alle mura di Tebe, in un campo pianeggiante, i figli maschi di Niobe si esercitano a cavallo. Lì, i gemelli divini fanno strage dei fanciulli con arco e frecce. La notizia della sciagura e il dolore del popolo raggiungono Niobe, la quale si stupisce che gli dei abbiano potuto ciò e si adira che abbiano osato: “Godi, crudele Latona, del mio dolore e sazia il cuore – la sfida-; son portata alla tomba da queste morti. A me infelice, però, restano più figli che a te; anche dopo tante morti sono superiore”. Ha appena finito di parlare che risuona dall’arco la corda che atterrisce tutti, eccetto Niobe, sfrontata anche nella sventura. Dopo che sei figlie sono state uccise, resta l’ultima; la madre, ricoprendola con il corpo dice: “Una sola, la più piccola, lasciamene; di molte te ne chiedo una sola”. E mentre prega, quella cade. “Privata della famiglia – continua a raccontare Angle – si accascia e diviene di pietra; l’aria non muove i capelli, il colore del viso è esangue, gli occhi sono immoti nel volto, niente di vivo è nel suo aspetto. Anche la lingua nel palato si irrigidisce e i polsi cessano di battere; il collo non può piegarsi, né le braccia muoversi, né i piedi camminare; anche le viscere sono pietra. Avvolta in un turbine di vento, viene trasportata nella sua patria e, sulla vetta di un monte, si stempera in pianto. Tuttora il marmo stilla lacrime”, spiega Annamaria Stefani.
“Il mito, inteso come narrazione investita di sacralità”, scrive l’altro curatore, Andrea Bruciati, “può “spiegare” l’ordine profondo che regola l’esistenza, come la vita e la morte, i successi e le sconfitte, la natura e i fenomeni che ci circondano, tutto ciò che è accaduto e che accadrà. Attraverso gli intermediari con il mondo divino – sacerdoti, celebranti e ogni ministro del culto – il mito aiuta ed indirizza nell’interpretazione della realtà, cercando di superare e risolvere le contraddizioni della natura o della società. L’eccidio dei regali Niobidi da parte degli dei e la successiva trasformazione della madre addolorata in roccia, da cui sgorga una fonte d’acqua, offre diversi gradi di lettura; la vicenda dei Niobidi può essere scomposta in più nuclei: la presenza di un regno (Tebe), i suoi legittimi sovrani (Anfione e Niobe), la fortuna del regno (espressa dalla prolificità dei regnanti), l’eliminazione della stirpe e dei regnanti. Un secondo tema, che può essere considerato del tutto separato, è la manifestazione del dolore e, invece della morte, la trasformazione in roccia e in fonte d’acqua perenne: la metamorfosi di Niobe descritta da Ovidio. La prima parte del mito è fortemente legata all’importanza della polis di Tebe, e al ruolo e alla posizione dei regnanti. L’arroganza della regina Niobe che avoca a sé, per merito di prolificità, onori e beni destinati agli dei è il pretesto della strage dei suoi figli. La casata reale perde, quindi, la sua discendenza e pertanto non potrà trasmettere, legittimamente, l’autorità e il potere di governare il regno. La rappresentazione artistica della vicenda mitologica invia, quindi, un feroce monito ai rappresentanti della regalità o di un potere egemonico”.
I Niobidi di Ciampino – si è detto – sono stati recuperati all’interno di una piscina annessa a una villa di prima età imperiale (fine I sec. a. C. – II sec. d. C.). “Le statue – sottolinea Angle – facevano parte di un gruppo, probabilmente replica di un originale più antico. Solo alcune delle 13 o 15 sculture marmoree originariamente presenti, sono state rinvenute: quelle dei figli potevano verosimilmente essere allestite attorno alla piscina, mentre Niobe, di cui si è preservata solo la testa, doveva occupare un basamento in peperino al centro della medesima vasca. In tal modo, la madre, per sempre fissata nella pietra come nel racconto della tradizione, alimentava idealmente con le proprie lacrime la piscina, in un gioco di rimandi tra il mito e la sua rappresentazione. Non erano probabilmente rappresentati Apollo e Artemide, artefici dell’eccidio, la cui invisibilità doveva accrescere la drammaticità della scena, ben esprimendo l’imperscrutabilità del volere e della punizione divina. L’interesse del ciclo deriva proprio dalla possibilità di coglierne il contesto, che ne amplifica i significati, sebbene, sulla base dei più recenti restauri, la sistemazione delle statue attorno alla piscina paia essere stata adottata per queste sculture solo in seconda battuta”. Il restauro del gruppo statuario dei Niobidi è stato di particolare impegno a causa dell’avanzato stato di corrosione del marmo. “Le superfici delle sculture – continua – erano di difficile lettura perché rivestite da uno spesso strato di terra che non era possibile rimuovere senza asportare grani di marmo. Anche nelle zone con meno incrostazioni era evidente un’avanzata corrosione della pietra che aveva perso la superficie originaria e si presentava erosa e disgregata”. Col primo intervento di restauro, curato dalla CBC Conservazione Beni Culturali e finanziato dall’allora Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio, è stata rimossa la terra, e incollati i piccoli frammenti non eccessivamente pesanti. Col secondo intervento, finalizzato alla ricomposizione, allo studio e alla realizzazione dei supporti per la staticità e la movimentazione, affidato alla ditta Carlo Usai e finanziato dalla Confederazione Elvetica, nel quadro di un accordo bilaterale Italia-Svizzera, sono stati ricomposti i frammenti ritenuti pertinenti ad alcune sculture. “L’eventuale spazio tra i frammenti è stato colmato da integrazioni in malta o resina, secondo le necessità. Per risolvere tecnicamente il problema della stabilità delle opere sono stati realizzati inoltre appositi supporti, parzialmente vincolati alle basi nella superficie d’appoggio. Tale intervento è stato anche l’occasione per effettuare delle osservazioni sull’originario allestimento dei componenti del gruppo, in relazione al grado di inclinazione delle basi antiche”.
“Inserita in spazi generalmente adibiti all’arte antica”, spiegano i curatori, “la mostra infrange la divisione tra passato e contemporaneo così come quello tra esposizione temporanea e collezione permanente, ipotizzando una commistione trasversale di questi logoi che metta in luce le caratteristiche intrinseche ai siti che compongono il nuovo Istituto. Interamente modellato attraverso piattaforme diacroniche di pensiero, il progetto propone infatti un percorso non soltanto visivo, ma anche letterario, immaginario e musicale, ispirandosi alla poesia stessa del grande poeta romano. Oltre al gruppo scultoreo centrale, l’esposizione presenta un ampio panorama di capolavori che nei secoli hanno riguardato la vicenda di Niobe. Il progetto espositivo si compone infatti di pregiate ceramiche antiche a figure rosse, come quella del Pittore di Arpi rappresentante Andromeda e Niobe, insieme ai marmi bianchi proveniente dai secoli successivi e ai fregi rinascimentali realizzati da Polidoro da Caravaggio, fino al celebre Nudo e Albero firmato da Mario Sironi degli anni ’30 del ‘900 e al Red Carpet di Giulio Paolini che esprime l’atrocità della strage in chiave contemporanea”.
“Veleia sotto le stelle”: arte, miti, yoga, storia e stelle. Serate a tema e visite guidate con archeologi della soprintendenza nel sito archeologico di Veleia (Pc), municipio romano che ricorda i liguri Veleiates sconfitti e sottomessi a Roma
Arte, miti, yoga, storia e stelle: sono gli ingredienti del ricco menù di inizio agosto a Veleia Romana, nella valle del Chero, prospero municipio romano ed importante capoluogo il cui nome deriva dalla tribù ligure chiamata Veleiates, fondato nel 158 a.C., dopo la definitiva sottomissione dei Liguri a Roma. L’appuntamento è per “Veleia sotto le stelle”, evento promosso dal Polo museale dell’Emilia Romagna in collaborazione con la soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio per le province di Parma e Piacenza e il Comune di Lugagnano Val d’Arda. Per 4 serate, da sabato 4 agosto a domenica 12 agosto 2018, l’area resta aperta fino alle 22.30 e, a partire dalle 19.30, ospita eventi culturali. Proprio in queste serate è possibile effettuare visite guidate all’area con archeologi della soprintendenza e in particolare al “castellum aquae” più noto come “anfiteatro”, normalmente chiuso al pubblico. Tutti gli eventi si svolgono al centro visite di Veleia con inizio alle 21. L’osservazione delle stelle e le lezioni di yoga, nel foro romano, sempre alle 21. È gradita la prenotazione (0523801173 sabap-pr.segreteria@beniculturali.it ). Le iniziative sono gratuite per chi accede all’area archeologica (costo ingresso: 2 euro intero, 1 euro ridotto).
Ogni serata è dedicata a un tema culturale differente: si è aperto sabato 4 agosto 2018, con la conferenza sul mondo dei Gladiatori a cura di Federica Guidi, autrice del best seller “Morte nell’arena”, che ha raccontato scena e retroscena di un costume che ha attraversato i secoli. In principio, nel III sec. a.C. si chiamavano munera, obblighi verso i defunti. Poi il nome rimase ma i combattimenti divennero festività offerte da personalità politiche e dall’imperatore per procurarsi consenso Panem et circenses. Gli eventi proseguono nel weekend del 10-12 agosto.
Per la sera di San Lorenzo, venerdì 10 agosto 2018, l’architetto Valentina Cinieri terrà una lezione sull’iconografia del Santo tra arte, devozione e tradizione popolare: “Il pianto del cielo. San Lorenzo tra arte e devozione”. Il giorno dedicato a San Lorenzo è noto per la concentrazione della pioggia di meteore, fenomeno che ha originato tradizioni popolari che ricondurrebbero questo avvenimento naturale al martirio del Santo, paragonando le stelle cadenti alle lacrime versate durante il supplizio o alle scintille provenienti dalla graticola infuocata del martirio. Attraverso le rappresentazioni pittoriche e scultoree del Medioevo agli inizi del secolo scorso, realizzate nei diversi ambiti storico-culturali dei differenti periodi storici, è possibile tracciare l’evoluzione dell’iconografia del santo martire.
Sabato 11 agosto 2018 sarà la volta del restauro: gli architetti Cristian Prati della Soprintendenza e Luca Oddi con i restauratori di Opus restauri, presenteranno i lavori di restauro in corso sulle terme di Veleia, realizzati anche con il contributo dei mecenati del luogo che hanno aderito alla “chiamata alle arti” di Art Bonus: Cristian Prati introdurrà i principi del restauro applicati ai beni archeologici, mentre Luca Oddi e i restauratori illustreranno il progetto in corso nel settore termale della cittadina romana.
Domenica 12 agosto 2018 l’area ospiterà un noto astrofilo, Marco Bastoni, che accompagnerà i presenti dal foro romano alla scoperta di stelle, pianeti e costellazioni, rievocando miti e leggende del cielo: racconti dal cielo osservando le stelle. Accompagnati da letture dalle Metamorfosi di Ovidio, osservazione del cielo con telescopio insieme all’astrofilo Marco Bastoni.
Yoga nel foro romano. Per gli amanti della meditazione e del contatto con la natura, nelle serate dell’11 e 12 agosto 2018 nel foro romano sarà possibile partecipare alle lezioni di Akhanda Yoga della maestra Francesca Bicchieri: Akhanda, come la parola yoga, significa completo, indivisibile, intero, infinito, pieno. Akhanda yoga non è qualcosa che facciamo ma è ciò che siamo.
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CHI SIAMO
Graziano Tavan, giornalista professionista, per quasi trent’anni caposervizio de Il Gazzettino di Venezia, per il quale ho curato centinaia di reportage, servizi e approfondimenti per le Pagine della Cultura su archeologia, storia e arte antica, ricerche di università e soprintendenze, mostre. Ho collaborato e/o collaboro con riviste specializzate come Archeologia Viva, Archeo, Pharaos, Veneto Archeologico. Curo l’archeoblog “archeologiavocidalpassato. News, curiosità, ricerche, luoghi, persone e personaggi” (con testi in italiano)
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