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La “Signora delle Ninfee” svela il suo volto. Ecco la storia del sarcofago e della mummia di Asti protagonisti della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” a Jesolo. Tutti i segreti dei metodi di ricostruzione facciale della Polizia scientifica

Ecco il volto della “Signora delle Ninfee” esposto alla mostra di Jesolo accanto alla mummia di Asti (foto Graziano Tavan)

Il logo della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” che Jesolo ospita dal 26 dicembre 2017 al 15 settembre 2018

La “Signora delle Ninfee” si presenta ufficialmente. A Jesolo. Quando il 26 dicembre 2017 allo Spazio Aquileia aprirà la mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” curata da Alessandro Roccati ed Emanuele Ciampini, e prodotta da Cultour Active e Venice Exhibition, la “mummia di Asti” svelerà ai visitatori i suoi segreti e mostrerà il suo volto, ricostruito con gli strumenti propri della Polizia scientifica. Già abbiamo visto un po’ la storia e le vicende che hanno interessato il sarcofago e la sua mummia acquistati nell’Ottocento dal conte Leonetto Ottolenghi e come questo prezioso reperto abbia molte caratteristiche in comune con il sarcofago di Firenze (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/12/09/alla-mostra-egitto-dei-faraoni-uomini-a-jesolo-venezia-la-mummia-di-asti-prende-un-nome-e-un-volto-e-la-signora-delle-ninfee-un-giallo-svel/). E allora cominciamo proprio con il conoscere meglio i due sarcofagi esposti per la prima volta insieme alla mostra jesolana. Lo facciamo con Gloria Rosati, egittologa dell’università di Firenze.

Il sarcofagp di Forenze e il sarcofago di Asti esposti uno accanto all’altro nella mostra di Jesolo “Egitto. Dei, faraoni, uomini” (foto Graziano Tavan)

“Il sarcofago fiorentino di sicuro lascia perplessi al primo approccio”, spiega Rosati. “Che tutta la parte del viso sia stata rilavorata è chiaro, ma l’indagine diagnostica ha rivelato i tratti originari, in particolare degli occhi. Tutta la pelle esposta è ridipinta di un innaturale color nocciola, mentre il sarcofago di Asti ha il color ocra giallo tipico della pelle femminile. Sulla testa è raffigurata una specie di calottina simile a quella di Asti, ma non c’è il ciuffo di loti sulla fronte, che potrebbe anche essere stato asportato dalla rilavorazione”. I fiori di loto: ecco il dettaglio da tenere presente. “Il sarcofago di Asti”, interviene ancora l’egittologa dell’ateneo fiorentino, “ha un bel ciuffo di fiori di loto sulla fronte e un filetto rosso che sembra passarvi orizzontalmente, per poi scendere obliquo sulle bande; due fascette rosse le stringono e sopra e sotto ricadono fiori bianchi di cui sono resi tre petali, delineati in rosso e con peduncolo verde”. E continua: “L’amplissimo collare-ghirlanda sembra riprodurre l’unione di un collare-usekh, largo, con i suoi fermagli a testa di falco resi sulle spalle, a una vera ghirlanda, come talora si trovano sulle mummie, realistica nella parte terminale con i calici di loto (del tipo azzurro) pendenti. Fra le bande dell’acconciatura, le fasce, che rendono le file di perline o altri elementi, hanno un andamento orizzontale, e l’indagine ha evidenziato la presenza di un pendente quadrato sopra le mani, contenente una figura di scarabeo”. Saranno proprio queste decorazioni floreali a suggerire a Donatella Avanzo, curatore esecutivo della mostra di Jesolo e responsabile del progetto scientifico “Mummia di Asti”, una volta accertato dagli esami medici che si trattava di un corpo femminile, a dare un nome a quella donna. Anche l’interno del sarcofago è finemente istoriato. Oltre a ricchi ornamenti floreali, sul fondo spicca una figura divina femminile, personificazione dell’Occidente, il luogo dei defunti, con in mano un ramo di loto, un fiore che per la cultura del tempo andava molto al di là di una semplice funzione decorativa. È nata così la “Signora delle Ninfee”.

Il team del progetto “Mummia di Asti”: con Marinella La Porta e Valter Capussotto della Polizia scientifica di Torino, l’assessore di Asti Gianfranco Imerito e la curatrice esecutiva Donatella Avanzo. Dietro l’ospite d’onore Roberto Giacobbo (foto Graziano Tavan)

Il progetto scientifico “Mummia di Asti”: un volto per la “Signora delle Ninfee”, una donna di 37 anni vissuta tremila anni fa. Per la mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini”, il restauro del sarcofago e la ribendatura sono stati effettuati nel laboratori Nicola di Aramengo (Asti). Il corpo è stato sottoposto all’esame tomografico computerizzato all’ospedale di Asti (eseguito dallo staff del primario Federico Cesarani, non nuovo a questo tipo di “pazienti”), grazie al supporto e alla collaborazione della Polizia criminale, per conoscerne lo stato di conservazione, stabilirne l’età (dai 30 ai 40 anni) e poterne effettuare, in modo scientifico, la ricostruzione del volto. Proprio su tale aspetto è stato fondamentale il lavoro effettuato dal sovrintendente capo della Polizia scientifica di Torino, Valter Capussotto, con la supervisione di Marinella La Porta, direttore tecnico del laboratorio di Genetica forense della Polizia di Stato di Torino, e lo scultore modellatore artistico Michele Guaschino. È proprio Marinella La Porta a ripercorrere le tappe che hanno portato a dare un volto alla “Signora delle Ninfee”.

Una fase della ricostruzione facciale della mummia di Asti: posizionamento dei muscoli, degli spessori e dei bulbi oculari (foto Graziano Tavan)

La mummia di Asti come è arrivata ai laboratori della Polizia scientifica di Torino (foto Graziano Tavan)

Nel gabinetto interregionale della Polizia scientifica di Torino ha preso forma il volto della “Signora delle Ninfee”. “Innanzitutto va precisato che la ricostruzione facciale non è un metodo identificativo, come possono essere il rilevamento delle impronte digitali o lo studio del Dna”, chiarisce Marinella La Porta, vice questore biologo e direttore dell’Uacv, Unità analisi crimini violenti, dove usualmente si fanno le ricostruzioni facciali di cadaveri sconosciuti. “Ma è proprio grazie a questo identikit tridimensionale che spesso riusciamo a risalire all’identità della vittima”. La ricostruzione facciale si basa sulle informazioni che forniscono l’equipe medica e l’antropologo fondamentali per definire il profilo biologico. “La ricostruzione di un volto si basa sul cosiddetto protocollo di Manchester attivato da John Prag e Richard Neave nel 1973”, spiega La Porta. Neave, che si interessò di ricostruzione facciale attraverso il Manchester Mummy Team dell’università di Manchester, responsabile delle ricerche forensi di numerose mummie egizie del nuovo museo di Manchester, aveva sviluppato una nuova tecnica, incorporando il metodo russo (mette i muscoli) e quello americano (mette gli spessori che consentono il modellamento), per creare una procedura completa e di successo la quale è stata acquisita da molti ricostruttori facciali di tutto il mondo.

Il volto della “Signora delle Ninfee” e il calco prima della lavorazione esposti alla mostra di Jesolo (foto Graziano Tavan)

Lo scultore Michele Guaschino al lavoro sul modello in gesso della “Signora delle Ninfee” (foto Graziano Tavan)

La mummia, quando è stata rinvenuta, era particolarmente deteriorata nel bendaggio perché sottoposta, forse già all’interno della sepoltura, a una elevata umidità. Le bende di lino avevano perso ogni elasticità, presentavano un colore marrone scuro ed avevano consistenza di polvere compressa. È in questo stato che la “mummia di Asti” approda nei laboratori della Polizia scientifica. “Prima di tutto si è delineato il profilo biologico”, ricorda il vice questore. “Così abbiamo saputo che eravamo di fronte a una donna di 30-40 anni. Quindi si è proceduto alla scansione laser del cranio per poter costruire un modello 3D sul quale iniziare a lavorare per la ricostruzione del volto. Quindi si inizia ad apporre i muscoli facciali e i bulbi oculari, con il supporto degli assi verticali e orizzontali e con il controllo della profondità, mentre si procede alla modellazione del collo e del torace. A questo punto si evidenziano gli spessori sul materiale plastico”. Una volta “riempiti” i volumi in base agli spessori, si può procedere a preparare uno stampo di gomma per l’estrazione del modello in gesso. È su questo modello che da questo momento interviene lo scultore Michele Guaschino e il restauratore Gian Luigi Nicola, sotto la stretta supervisione del sovrintendente capo della Polizia scientifica di Torino, Valter Capussotto. L’artista si annulla nello scienziato in una simbiosi ch dà grandi risultati. “Nella ricostruzione del volto della mummia di Asti”, conclude Capussotto, “non ci aspettiamo che qualcuno la riconosca, come avviene nei casi di vittime sconosciute. Ma in questo connubio di arte e scienza ci promettiamo di trasmettere un’emozione”. Così è nata la “Signora delle Ninfee”.

(2 – fine. Il precedente post pubblicato il 9 dicembre 2017)

Alla mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” a Jesolo (Venezia) la “mummia di Asti” prende un nome e un volto: è la “Signora delle ninfee”. Un giallo svelato con tecniche alla Csi. “Ma la ricerca scientifica non si ferma: sarcofago e mummia custodiscono ancora molti segreti”, conferma la curatrice Donatella Avanzo

Particolare del sarcofago della mummia di Asti, la “Signora delle Ninfee”, protagonista a Jesolo

Il logo della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” che Jesolo ospita dal 26 dicembre 2017 al 15 settembre 2018

Promotori e ospiti all’anteprima della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” a Jesolo (foto Graziano Tavan)

Per più di un secolo è stata nota semplicemente come la “mummia di Asti”. Dal 26 dicembre 2017, quando nello Spazio Aquileia a Jesolo (Venezia), sarà inaugurata la mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” curata da Alessandro Roccati ed Emanuele Ciampini, e prodotta da Cultour Active e Venice Exhibition, di cui il prezioso reperto del museo civico archeologico di Asti è sicuramente uno dei protagonisti, la chiameremo la “Signora delle Ninfee”. E non è un vezzo di Donatella Avanzo, curatore esecutivo della mostra e responsabile del progetto scientifico “Mummia di Asti”, ma l’esito di una ricerca scientifica multidisciplinare (attivata proprio in vista della mostra di Jesolo) che per certi aspetti ricorda più una trama di indagine alla Csi che il diario di una missione egittologica. La mummia e il sarcofago che la conteneva “hanno parlato”, rivelando poco a poco agli studiosi la loro storia e la loro identità, che oggi possiamo leggere come in un film nella sezione 8 della mostra jesolana. “Ma non ci hanno detto tutto”, ammette l’egittologa Avanzo. “Sia il sarcofago che la mummia celano gelosamente ancora alcuni segreti che, alla fine della mostra, nell’autunno 2018, impegneranno a lungo gli esperti di molte discipline. Solo per farvi un esempio: siamo sicuri che tutto il sarcofago sia da ascrivere tra la fine della XXI dinastia e l’inizio della XXII? Da alcune tracce riscontrate, il coperchio potrebbe essere molto più antico, e riutilizzato 3mila anni fa. E ancora: accanto ai monili e amuleti rivelati dalla Tac, posti sul corpo della mummia, cosa è quella placca metallica di una decina di centimetri di cui non riusciamo ancora a capire la natura?”.  Rivelazioni e misteri, come nella migliore tradizione non solo dell’egittologia. E allora si capisce perché basterebbe da sola la sezione dedicata alla mummia di Asti a giustificare una visita alla mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” allo Spazio Aquileia di Jesolo fino al 15 settembre 2018 (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/11/17/egitto-dei-faraoni-uomini-jesolo-si-prepara-a-ospitare-per-quasi-un-anno-una-grande-mostra-ideata-dagli-egittologi-ciampini-e-roccati-e-curata-da-donatella-avanzo-con-reperti-dai/) .

Il conte Leonetto Ottolenghi, ritratto da Paolo Arri, conservato alla fondazione Palazzo Mazzetti di Asti

L’egittologa Sabina Malgora

La Tac alla mummia contenuta nel sarcofago di Ankhpakhered, realizzata al Fatebenefratelli di Milano

Il regalo di un mecenate. Come si diceva, da più di un secolo si parla della “mummia di Asti”. La collezione egizia del museo civico Archeologico di Asti, si deve, quasi totalmente, alla munificenza del banchiere ebreo, il conte Leonetto Ottolenghi (1846 – 1904) e dalla donazione Fantaguzzi. La raccolta egizia è composta da circa un centinaio di oggetti, quali un frammento di tabella dell’Antico Regno, due mummie, con i sarcofagi, uno a nome di Ankhpakhered, il bel canopo di Tadiher, amuleti, ushabti e statuette di divinità. La “mummia di Asti” faceva dunque parte dei reperti arrivati nel 1903 al museo di Asti, grazie alla donazione dei discendenti della famiglia Maggiora Vergano. Della mummia si sapeva poco o niente al di là di scarne note di cronache: proprietà della famiglia Ottolenghi che lo acquistò nell’Ottocento e da nove anni custodita dal museo astigiano. Più informazioni c’erano invece per l’altra mummia, quella conservata nel secondo sarcofago della collezione Ottolenghi riccamente effigiato con i gerofiglici che ricordano Ankhpakhered, il sacerdote del dio Min, vissuto tra la XXII e XXIII dinastia, databile tra il 945 e il 715 a.C. Nel 2009 la mummia contenuta fu affidata all’ospedale Fatebenefratelli di Milano per il check-up completo nell’ambito del progetto Ankhpakhered Mummy. I risultati erano giunti dopo due anni di studi e indagine medica. “È stato complicato anche fare l’endoscopia”, avevano spiegato gli esperti, “per l’enorme presenza nella pancia di bende raggomitolate e sistemate negli spazi vuoti degli elementi scheletrici per fare da riempimento. Sicuramente la mummificazione dell’uomo è avvenuta molti mesi dopo la morte, quando era già scheletro”. Ma alla fine, grazie agli studi del centro ricerche Mummy Project, la mummia aveva un nome e soprattutto un volto. “Si tratta di un uomo che è morto a 40 anni non per eventi di natura traumatica ma probabilmente o di vecchiaia o per un infezione al sangue”, aveva ricostruito Sabina Malgora, egittologa e co-direttore insieme a Luca Bernardo di Mummy Project. “Decisiva l’endoscopia anche per la datazione certa della mummia, fra il 400 e il 100 a.C.”. L’uomo si chiamava Wehem-ef-ankh, e proveniva dalla città di Akhim. “Il sarcofago che la conteneva”, ha raccontato Malgora, “ed è questa la storia singolare, deve essere stato trafugato dalla famiglia di Wehem per dargli onorata sepoltura. D’altronde qualche dubbio lo avevamo avuto già due anni fa, quando abbiamo iniziato il complesso studio per svelare il mistero”.

La mummia di Asti, oggi la “Signora delle Ninfee”, sottoposta a tac all’ospedale Cardinal Massaia di Asti

Da sinistra, davanti alla mummia di Asti, Gianfranco Imerito, assessore alla cultura di Asti; Enrico Longo, responsabile Cultour Active; Donatella Avanzo, curatrice (foto Graziano Tavan)

Altra mummia, altre sorprese. Il progetto “Mummia di Asti”, in prospettiva per la mostra di Jesolo, parte nell’autunno 2017. È la stessa Donatella Avanzo, direttore del progetto scientifico, a ricordare alla presentazione in anteprima della mostra al Pala Arrex di Jesolo, il piccolo esercito multidisciplinare di esperti coinvolti. Grazie al supporto e alla collaborazione della Polizia criminale è stato infatti possibile realizzare la ricostruzione del volto e con il reparto di radiodiagnostica dell’ospedale di Asti è stata realizzata una Tac sulla mummia che sta già richiamando l’attenzione dei più grandi studiosi ed egittologi. La ricostruzione del volto e di parte del corpo della mummia astigiana è stata effettuata grazie al supporto e alla collaborazione della Polizia di Stato, con il contributo del Reparto di Radiodiagnostica dell’Ospedale Cardinal Massaia di Asti, al fine di conoscere lo stato di conservazione, stabilirne l’età e poter effettuare in modo scientifico la ricostruzione. I nomi scorrono come nei titoli di coda di un film: Rosa Boano, ricercatrice in Antropologia fisica dell’università di Torino; Ida Grossi, direttore generale Asl di Asti; Federico Cesarani, primario di Radiodiagnostica ospedale di Asti; Leonardo Capitolo, dirigente medico, e Angela Grasso,  specializzanda, di Radiodiagnostica università di Torino 2; Massimo Scognamiglio e Gabriella Borgogno, tecnici sanitari di Radiologia medica asl di Asti; Guglielmo Ramieri, professore di Chirurgia Maxillo-facciale dell’università di Torino; Mario Raso, specialista in Chirurgia plastica ricostruttiva dell’istituto nazionale Tumori di Milano; Marinella La Porta, direttore tecnico del laboratorio di Genetica forense della Polizia di Stato di Torino; Valter Capussotto, sovrintendente capo della Polizia scientifica di Torino; Michele Guaschino, scultore; Martina Zambotti, accademia Belle arti per la modellazione al laboratorio Guaschino; Francesco Sculco, artigiano restauratore; Aldo Maschio e Ionel Vitalie, onoranze funebri di Asti; Gian Luigi Nicola, direttore, e Anna Rosa Nicola, restauratrice, del laboratorio di restauro Nicola di Aramengo d’Asti; Silvana Cincotti, egittologa.

A Jesolo esposti affiancati i sarcofagi di Firenze e di Asti (foto Graziano Tavan)

La curatrice Donatella Avanzo con l’assessore di Asti Gianfranco Imerito guardano i sarcofagi di Asti e Firenze (foto Graziano Tavan)

Da Tebe a Jesolo (via Asti e Firenze). Al mondo sono solo quattro i sarcofagi conosciuti accomunati da una caratteristica piuttosto rara: la decorazione di fiori sulle bande laterali dell’acconciatura. Uno è conservato al museo Egizio del Cairo; uno al museo Egizio di Firenze; uno al museo Archeologico di Asti; il quarto, ancora inedito, al Detroit Institute of Art. Di questi quattro, ben due sono esposti nella mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” di Jesolo. “Sono tutti sarcofagi femminili, e in quello di Firenze si notano anche i seni resi sotto le bande dell’acconciatura”, spiega Gloria Rosati, egittologa dell’università di Firenze. “I sarcofagi Asti e Firenze furono acquisiti entrambi con una mummia all’interno; ma, mentre quella di Asti è di genere femminile e presumibilmente la proprietaria stessa del sarcofago, a Firenze si è scoperto che la mummia è invece di un uomo, perciò sarà stata aggiunta al sarcofago, come spesso si è dovuto constatare, per un senso di completezza e per aumentare il prezzo”. Vedere accostati vicini, in mostra, i sarcofagi di Asti e di Firenze, databili tra la fine della XXI dinastia e l’inizio della XXII (circa 950-870 a.C.), si possono meglio apprezzare le notevoli corrispondenze che potrebbe far pensare a un laboratorio comune, attivo a Tebe. “Sono davvero parecchi i paralleli che si possono mettere in evidenza tra i due sarcofagi”, sottolinea Rosati, lanciando un’ipotesi suggestiva: “Chissà mai che a Jesolo non si siano di nuovo trovati accanto due oggetti che magari lo erano stati poco meno di 3mila anni fa, tra le mani di ebanisti e pittori tebani, e che poi hanno visto passare secoli e secoli: uno, quello arrivato ad Asti, ha assolto la sua funzione, ha conservato fino a oggi la sua proprietaria; l’altro probabilmente sì, e poi qualcuno, quando erano passati  circa 28 secoli, ha pensato bene di ravvivarne la decorazione”.

(1 – continua)

Le origini di Jesolo, l’Equilo altomedievale, riemergono dagli scavi dell’università di Venezia in località Le Mure

Il litorale di Jesolo ai limiti della laguna nord di Venezia

Il litorale di Jesolo ai limiti della laguna di Venezia: il territorio era abitato già in antico

Il territorio di Jesolo, sulla costa veneziana, sta svelando le sue origini antiche, quando il nucleo abitato faceva riferimento a Equilo, diocesi lagunare altomedievale: un insediamento del V secolo d.C. e tredici sepolture di epoca tardo-medievale sono il risultato della prima campagna di scavi condotta nell’area archeologica “Le Mure” del comune di Jesolo dallo staff di Archeologia Medievale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, sotto la direzione scientifica del prof. Sauro Gelichi.

L'area archeologica Le Mure o Antiche Mura a Jesolo Paese

L’area archeologica Le Mure o Antiche Mura (V-XII sec.)  a Jesolo Paese

A restituire nuove informazioni sulla storia di Jesolo nella seconda metà del I millennio d.C. è quindi ancora una volta la località Le Mure o Antiche Mura, ai limiti dell’abitato di Jesolo Paese, ad alcuni chilometri dal mare, alla fine della via che non a caso è chiamata “delle Antiche Mura”: il toponimo deriva dalla presenza dei resti tuttora visibili della cattedrale, ridotti ormai ad un breve tratto in elevato dell’abside sud orientale e di alcune murature, alle fondazioni delle navate, del muro di facciata e del campanile antistante. Qui in più riprese la soprintendenza ai Beni archeologici del Veneto, con brevi saggi di scavo, ha rivelato le origini della tradizione religiosa della comunità di Equilo, salvando il salvabile: la cattedrale, già in rovina nel 1800, aveva subito la distruzione definitiva durante la Prima Guerra Mondiale. E nel 1944, nel timore di uno sbarco alleato in Adriatico, era stato edificato dall’esercito tedesco un sistema di bunker in cemento armato, tuttora esistente, che danneggiò l’area archeologica distruggendo parte del presbiterio e della sottostante cripta. Ma se la cattedrale di Santa Maria Assunta (XI sec.) era già nota, con la sua pianta a croce libera (schema caratteristico dell’edilizia sacra medievale del nord Adriatico) che rinvia alla terza basilica di San Marco –quella del doge Contarini- e in ambito orientale al S. Giovanni di Efeso e ai SS. Apostoli di Costantinopoli, solo con i saggi di scavo del 1960-‘63 sono state trovate – sotto la cattedrale – le fondazioni di una chiesa altomedievale precedente, a pianta rettangolare (m 25 x 14) con absidi semicircolari iscritte, preceduta da un nartece sul quale si aprivano tre accessi alla chiesa: risalente alla metà del VI-VII secolo d.C., era pavimentata con un bellissimo tappeto musivo policromo. E negli anni 1985 e 1987, le nuove indagini stratigrafiche, condotte da Michele Tombolani, portarono all’individuazione di una chiesa paleocristiana sottostante quella dei mosaici, con aula rettangolare (m 12 x 8) e abside esterna, databile al V secolo d.C. Tra i numerosi reperti all’epoca rinvenuti, molte anfore e ceramica fine da mensa d’importazione nord-africana, vetri e lucerne.

Il prof. Sauro Gelichi dell'università Ca' Foscari di Venezia

Il prof. Sauro Gelichi dell’università Ca’ Foscari di Venezia

Dall’inizio degli anni Duemila l’Insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia è impegnato in progetti di ricerca legati agli ambienti lagunari e peri-lagunari. Finora le ricerche si sono concentrate all’interno della laguna di Venezia (con gli scavi nelle isole di San Giacomo in Paludo e San Lorenzo di Ammiana): “Gli scavi”, spiega il prof. Gelichi, “hanno avuto come principale obiettivo la ricostruzione dei processi insediativi che tra la Tarda Antichità e l’Alto Medioevo hanno ridisegnato la fisionomia di questi spazi. In questa ottica, è emerso con sempre maggiore chiarezza il ruolo svolto, proprio in tali periodi, da uno di questi centri, cioè Jesolo, oggi in un’area peri-lagunare”.

I ruderi del campanile di S, Maria Assunta di Equilo

I ruderi del campanile di S, Maria Assunta

Così nel 2011 fu stipulata la prima convenzione di collaborazione tra il Dipartimento di Studi Umanistici e il Comune di Jesolo che ha portato, in collaborazione con la soprintendenza per i Beni archeologici del Veneto, alla prima campagna di survey. “Ciò ci ha permesso di valutare la consistenza dei depositi alluvionali e delle bonifiche in alcuni punti cruciali del territorio jesolano e, in particolare, nella zona corrispondente all’isola su cui sorgeva l’abitato medievale di Equilo, a nord e a sud della cattedrale medievale: la mappatura e lo studio dei materiali rinvenuti, hanno fornito nuovi dati sugli aspetti economici, sociali e commerciali che hanno caratterizzato l’insediamento di Equilo nel periodo compreso tra il IV secolo e il XIII secolo e hanno dimostrato come il sito di Jesolo sia un caso particolarmente promettente nello studio del popolamento dell’arco dell’alto Adriatico”. Da qui la nuova convenzione stipulata tra l’Università e il Comune di Jesolo e la concessione di scavo assegnata dal ministero per i Beni e le Attività culturali, in accordo con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto, per la prima campagna di scavo del settembre 2013 con l’obiettivo di analizzare e valutare il deposito conservato all’interno dei terreni a nord dell’area archeologica “Le Mure – S. Maria Assunta”.

Gli scavi archeologici dell'università Ca' Foscari a Le Mure di Jesolo

Gli scavi archeologici dell’università Ca’ Foscari a Le Mure di Jesolo

“Due le zone di scavo aperte nell’area per una superficie totale di circa 230 mq”, spiegano Silvia Cadamuro, Alessandra Cianciosi e Claudio Negrelli, che hanno coordinato le attività sul campo, sotto la direzione del prof. Gelichi. “Una frazione di area cimiteriale verosimilmente altomedievale, in cui sono state scavate e documentate 13 sepolture singole, e parte di un insediamento di V secolo con strutture in tecnica mista, riconducibili a tipologie già note, anche in laguna, per il periodo post-antico. I dati acquisiti nel corso dell’indagine, una volta rielaborati e messi a confronto con quanto già si sapeva, permetteranno di ampliare le nostre conoscenze sulla storia economica e sociale di questo territorio e dei suoi abitanti e delineeranno in maniera più chiara il ruolo svolto da Equilo e dalla sua comunità tra antichità e medioevo”.