I falsi in archeologia: a Cosenza incontro “L’Arte non vera non può essere Arte” e al museo dei Brettii e degli Enotri la mostra “Bello ma Falso: tutta un’altra storia!”. I carabinieri nel 2016 hanno sequestrato più di 3mila reperti, tra loro anche falsi

Il Nucleo tutela patrimonio culturale dei carabinieri di Cosenza nel 2016 ha sequestrato più di 3mila reperti: tra essi in aumento il fenomeno dei falsi
Il patrimonio archeologico della Calabria è un pozzo senza fine. Non meraviglia, purtroppo, che in una tale situazione di ricchezza non perda colpi il mercato antiquario clandestino e il trafugamento illegale dei reperti. Solo nel 2016, è il dato ufficiale del Nucleo tutela patrimonio culturale dei carabinieri di Cosenza, sono stati sequestrati 3200 pezzi archeologici e storici, per un valore stimato che supera i 2 milioni di euro. E insieme a questo patrimonio trafugato, come hanno confermato il comandante provinciale dei carabinieri di Cosenza, il colonnello Fabio Ottaviani, e il comandante del Nucleo, il capitano Carmine Gesualdo, cresce e prospera anche il mercato dei falsi: un fenomeno che in passato ha truffato fior di esperti tanto che, si può dire, non ci sia grande museo che nelle sue vaste collezioni non abbia scovato qualche pezzo tarocco. Così oggi il fenomeno è oggetto di incontri e di mostre.

Ciclo di conferenze “L’arte non vera non può essere vera arte” per conoscere il fenomeno del falso archeologico
Quindici conferenze in tutta Italia, sul tema “L’Arte non vera non può essere Arte”: è il piano del ministero dello Sviluppo economico, del MiBact e dell’istituto nazionale Anticontraffazione per divulgare quanto più possibile la conoscenza del fenomeno del “falso”. Mercoledì 8 novembre 2017 l’appuntamento è a Cosenza, a Palazzo Arnone, dove alle 10, è in programma “L’arte non vera non può essere arte”, conferenza sulla contraffazione dei beni culturali, alla quale parteciperanno: Angela Acordon, direttore del Polo Museale della Calabria; Gino Mirocle Crisci, rettore dell’università della Calabria e Maria Cerzoso, direttore del museo dei Brettii e degli Enotri di Cosenza, che porteranno i saluti di rito. Seguiranno interventi di Anna Maria Guiducci, soprintendente Archeologia Belle arti e Paesaggio per le Province di Reggio Calabria e Vibo Valentia su “Falsi storici, falsi d’autore”; Mario Pagano, soprintendente Archeologia Belle arti e Paesaggio per le Province di Catanzaro, Cosenza e Crotone su “I falsi in archeologia”; Mario Spagnuolo, procuratore capo della Repubblica di Cosenza su “Aspetti giuridici del reato di contraffazione”; Armando Taliano Grasso, dell’università della Calabria, e Salvatore Medaglia, laboratorio di Topografia antica e Antichità calabresi su “Imitatio antiquorum. Considerazioni sulla falsificazione dei manufatti archeologici”; Mauro Francesco La Russa, dell’università della Calabria, su “Indagini di laboratorio e tecniche scientifiche per la ricerca dei falsi”; Domenico Miriello, dell’università della Calabria, su “Vero o falso: l’approccio per l’autenticazione di bronzi e manufatti lapidei naturali”; e Carmine Gesualdo, comandante del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Cosenza, su “Il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale nella repressione della contraffazione di opere d’arte: presentazione di alcune indagini sul falso, che modererà i lavori”.
Il direttore del museo dei Brettii e degli Enotri, Marilena Cerzoso, con l’occasione, presenterà il contributo del museo civico all’iniziativa: una mostra, di reperti archeologici falsi e di opere d’arte, anch’esse false, sequestrate dai Carabinieri del Nucleo. La mostra, “Bello ma Falso: tutta un’altra storia!”, sarà inaugurata il 17 novembre 2017, alle 17. La mostra è curata da Marilena Cerzoso, in collaborazione con il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Cosenza e il laboratorio di Topografia Antica e Antichità Calabresi del dipartimento di Studi umanistici dell’università della Calabria, di cui è responsabile il professor Armando Taliano Grasso, insieme al laboratorio di Diagnostica e Conservazione dei Beni culturali del dipartimento di Biologia, Ecologia e Scienze della Terra, che hanno rispettivamente realizzato gli esami autoptici e le analisi diagnostiche sui reperti archeologici. “Nel rispetto della mission educativa del museo”, spiega Cerzoso, “la mostra, oltre che uno scopo conoscitivo, persegue finalità didattiche. Si vuole infatti sottolineare l’importanza dello sviluppo della ricerca scientifica nel campo dei beni culturali come strumento per la diffusione della legalità, trasformando in messaggi educativi ciò che scaturisce da fatti criminosi”.

Il manifesto della mostra “Vero o falso. Il valore dell’originale, lo stile dell’imitazione”, curata da Carmelo Malacrino e Patrizia Marra
Il tema dei falsi archeologici in Calabria aveva animato anche l’estate 2017 con la mostra promossa dal museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria “Vero o falso. Il valore dell’originale, lo stile dell’imitazione”, curata da Carmelo Malacrino e Patrizia Marra: una piccola mostra che ha proposto un dialogo vivace e stuzzicante con il visitatore, cui sono stati presentati oggetti antichi e manufatti realizzati in epoca moderna che fanno parte delle collezioni del MArRC conservate nei depositi. L’idea è stata quella di ripercorrere a grandi linee i principali orientamenti nei confronti della produzione di copie e della realizzazione di “falsi” dall’antichità ad oggi. E al contempo è stato illustrato il progresso dei metodi di indagine fisico-chimica che permettono oggi di acquisire un altissimo livello di dettaglio sulla conoscenza dei reperti che l’archeologo si trova a maneggiare. “L’obiettivo è far riflettere il visitatore”, spiega il direttore del MArRC, Malacrino, “sull’importanza del reperto d’arte, il cui valore intrinseco, in associazione alla sua originalità, va di pari passo con il ruolo di testimone di una condivisa memoria storica che è nell’interesse di ciascuno di noi tutelare e preservare. L’imitazione nell’arte è un fenomeno comune che nasce sia dal bisogno di emulare il modello, in senso positivo, per crescere in bravura e in perfezione, sia per soddisfare l’economia e generare prodotti da vendere sul mercato”.
Magna Grecia. Il Cavaliere di Marafioti, eccezionale gruppo in terracotta del V sec. a.C., è esposto per la prima volta a Locri, dove lo scoprì Paolo Orsi nel 1910. Restaurato da Intesa San Paolo, tornerà poi definitivamente al museo di Reggio Calabria

Il Cavaliere di Marafioti, eccezionale gruppo scultoreo in terracotta del V sec. C. scoperto a Locri nel 1910
Il “Cavaliere di Marafioti” per qualche giorno torna a casa, a più di un secolo dalla sua scoperta da parte dell’archeologo Paolo Orsi che ricompose i quasi duecento frammenti riportati alla luce in località Pirettina (Comune di Portigliola), alle spalle dell’antica città di Locri. Si inaugura infatti alle 19 del 30 luglio 2016 al museo e parco archeologico nazionale di Locri la mostra “Il Cavaliere di Marafioti a Locri”, dove rimarrà fino al 7 agosto 2016, prima di tornare nella sua sede naturale, il museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria. L’opera in terracotta del V sec. a.C., elemento architettonico del tempio dorico scoperto nel 1910 dall’archeologo Paolo Orsi, è esposta, per la prima volta, nel territorio da cui proviene, dopo la presentazione a Milano dell’intervento di restauro, promosso e curato da Intesa Sanpaolo nell’ambito della XVII edizione di “Restituzioni. Tesori d’arte restaurati 2016”, fondamentale per la sua conservazione e per una più approfondita conoscenza della tecnica di realizzazione. L’iniziativa, fortemente voluta da Angela Tecce, direttore del Polo Museale della Calabria e da Rossella Agostino, direttore del museo Archeologico nazionale di Locri, è stata realizzata grazie alla proficua collaborazione con il museo Archeologico di Reggio Calabria, la Regione Calabria, il FAI – Presidenza Regionale Calabria, e con il sostegno di Intesa Sanpaolo e delle amministrazioni comunali di Locri e di Portigliola.
“Il gruppo di terracotta”, scrivono Rossella Agostino e Maurizio Paoletti nella scheda del catalogo di Restituzioni 2016, “raffigura un giovane cavaliere nudo che cavalca sostenuto da una sfinge femminile con le braccia levate. Decorava il tetto del tempio dorico scoperto a Locri in località Casa Marafioti, una zona collinare della città greca sovrastante il teatro e prossima alle mura. Gli scavi qui condotti da Paolo Orsi nel 1910 individuarono le fondazioni del tempio dorico (seconda metà del VI secolo a.C.), oltre a pochi elementi superstiti dell’elevato distrutto già in età romana (?) e poi definitivamente spogliato nei primi decenni dell’Ottocento. Si conservano però cospicui elementi del cornicione in terracotta policroma (geison e sima) che sono pertinenti a una nuova decorazione architettonica realizzata quando fu sostituito il tetto del tempio (420- 400 a.C.). A questo grande intervento di rinnovamento edilizio – non sappiamo se scaturito da urgenti necessità di manutenzione o da più specifici motivi religiosi – è riferibile anche lo straordinario Cavaliere Marafioti”.
“Il gruppo statuario, collocato sul lato posteriore del tempio, ne dominava la sommità forse come acroterio centrale”, spiegano ancora Agostino e Paoletti: “Questa almeno è la ricostruzione suggerita da Orsi in base ai dati di scavo. Tuttavia se nel giovane cavaliere va riconosciuto un Dioscuro, non può escludersi che costituisse un acroterio laterale al fianco di un secondo Dioscuro, dal momento che Castore e Polluce, i due fratelli gemelli figli di Zeus e di Leda, erano raffigurati sempre in coppia. Benché ricomposto da moltissimi frammenti e integrato nelle parti lacunose, il Cavaliere Marafioti resta un unicum nella produzione artistica della Magna Grecia, alla cui eccezionalità contribuiscono le notevoli dimensioni e il soggetto privo quasi di confronti, specialmente per la sfinge alata, possente e accosciata, che con la testa e il palmo delle mani sostiene, senza alcuno sforzo, il peso del cavaliere”.
L’intervento di restauro, promosso e curato da Intesa Sanpaolo nell’ambito della XVII edizione di “Restituzioni. Tesori d’arte restaurati 2016”, è stato fondamentale per la sua conservazione e per una più approfondita conoscenza della tecnica di realizzazione. Ha permesso, inoltre, di riscoprire anche con l’ausilio di aggiornate strumentazioni, dettagli affascinanti, quali i segni di stesura a pennello del sottile scialbo originale o la policromia in nero, bianco, rosso che evidenziava meglio nell’intento del coroplasta il muso equino o la criniera rifinita a stecca. Analisi diagnostiche hanno completato il restauro del gruppo che all’epoca della sua scoperta, sul lato occidentale del tempio, era stato rinvenuto in “minuti frammenti” e che fu oggetto di un primo intervento di restauro tra il 1911 ed il 1925 quando Paolo Orsi e il restauratore Giuseppe Damico incollarono e assemblarono con la colofonia, un collante particolarmente adoperato all’epoca, i molti frammenti e integrarono le parti lacunose rafforzando il manufatto con staffe e supporti interni (legno, stucco) e perfino con grappe metalliche (rame-ottone) indispensabili per restituire solidità al grande gruppo fittile. Tutte le parti lacunose furono reintegrate dal restauratore Giuseppe Damico; la testa del cavaliere è quasi completamente di ricostruzione. Il restauro del 2015 è stato curato dai restauratori Giuseppe Mantella e Sante Guidi; le ricerche diagnostiche da Domenico Miriello del dipartimento di Scienze della Terra – Unical. Il gruppo del Cavaliere di Marafioti subito dopo la mostra ritornerà – come detto – nella sua sede, il museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria, e sarà esposto nella sala dedicata alla colonia locrese.
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