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Aperta al museo Archeologico nazionale di Napoli la mostra “Gli Etruschi al Mann”: un inedito focus sulla realtà di una Campania etrusca con 600 reperti (di cui 200 visibili per la prima volta). I tesori “scoperti” nei depositi del Mann costituiranno una nuova sezione permanente del museo napoletano

Una vetrina della mostra “Gli Etruschi e il Mann” al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto Giorgio Albano)

La locandina della mostra “Gli Etruschi e il Mann” al Mann (12 giugno 2020 – 31 maggio 2021)

“Gli Etruschi al MANN tornano per restare. Non solo con una mostra raffinata e dall’altissimo rigore scientifico, ma con l’annuncio dell’allestimento permanente che restituirà alla fruizione del pubblico un altro fondamentale pezzo della storia del nostro Museo, ‘casa’ dei tesori di Pompei ed Ercolano, così come custode di eredità molto più antiche”: così Paolo Giulierini, direttore del museo Archeologico nazionale di Napoli, che nel giorno dell’inaugurazione della mostra “Gli Etruschi e il Mann” in programma al museo Archeologico nazionale di Napoli, dal 12 giugno 2020 al 31 maggio 2021, annuncia che diventerà un’altra sezione del museo. L’esposizione, che raccoglie circa 600 reperti (di cui 200 visibili per la prima volta), è curata da Paolo Giulierini (direttore del Mann) e Valentino Nizzo (direttore museo nazionale Etrusco di Villa Giulia); il coordinamento scientifico è di Emanuela Santaniello (funzionario archeologo del Mann) e l’organizzazione è di Electa. La mostra “Gli Etruschi e il MANN” è accompagnata dal catalogo edito da Electa, a cura di Valentino Nizzo. Per l’occasione è stato inoltre edito nelle pubblicazioni scientifiche “Quaderni del MANN” il volume, a cura di Valentino Nizzo, “Gli Etruschi in Campania. Storia di una (ri)scoperta dal XVI al XIX secolo”, strettamente correlato alle tematiche della seconda sezione del percorso espositivo.

La locandina della mostra “Pompei e gli Etruschi” alla Palestra Grande di Pompei fino al 2 maggio 2019

Una mostra preziosa, sorprendente, innovativa, che nasce anche dalla rete stabilita con il parco archeologico di Pompei, dove è stata ospitata la tappa iniziale del percorso con la mostra “Pompei e gli Etruschi” (dicembre 2018-maggio 2019). Già con “Egitto Pompei” (2016) e “Pompei e i Greci” (2017), esposizioni che hanno confermato la collaborazione tra il parco archeologico di Pompei e il Mann, è stato intrapreso un suggestivo viaggio per scoprire le civiltà del passato: anche grazie al coordinamento di Electa, la sinergia tra le due istituzioni proseguirà dopo la mostra sugli Etruschi, con la mostra “Pompei e Roma” prevista nella programmazione del parco archeologico. All’anteprima riservata a stampa ed istituzioni, hanno partecipato, insieme ai curatori, Rosanna Romano (direttore generale per le Politiche Culturali e il Turismo/ Regione Campania), Carlos Maldonado Valcàrcel (console generale di Spagna a Napoli), Teresa Elena Cinquantaquattro (soprintendente SABAP per l’area metropolitana di Napoli) e Luigi La Rocca (soprintendente SABAP per il Comune di Napoli). Il direttore generale del parco archeologico di Pompei, Massimo Osanna, non è intervenuto all’evento, ma ha mandato un messaggio di saluto ai partecipanti, ricordando che la rete tra istituzioni ha favorito itinerari espositivi dedicati ai legami tra la città vesuviana e le diverse culture dell’antichità.

Una delle “scoperte” nei depositi del Mann: coppia di orecchini in oro, lamina, applicazioni a stampo, filigrana (produzione dell’Etruria meridionale) della seconda meta del VI sec. a.C. (foto Mann)

Il direttore Giulierini al dispenser con gel disinfettante (foto Mann)

“Gli Etruschi sono abitualmente associati ad altri territori, come la Toscana, il Lazio e l’Emilia Romagna. Solo dalla seconda metà dell’Ottocento, più o meno con l’Unità d’Italia, è stata accettata ufficialmente l’idea di una loro presenza in Campania. Ma nessuno aveva mai dedicato a questo tema una mostra di simili dimensioni”, ha detto Paolo Giulierini. “Attraverso reperti provenienti dai depositi del Museo, insieme a prestiti di altre istituzioni e collezioni, ricostruiremo una storia di frontiera, nella quale gli Etruschi possono essere considerati quasi come dei cowboy. Partendo probabilmente dall’Umbria, raggiunsero le pianure campane e le dominarono per diversi secoli, intrecciando legami culturali, commerciali e artistici molto stretti con gli altri abitanti di quei luoghi, gli altri popoli italici e i Greci”. Museo della capitale di un Regno, l’Archeologico di Napoli vanta, infatti, collezioni sterminate derivate sia da scavi che da acquisizioni come, ad esempio, quella del bronzetto dell’Elba, reperto più antico ritrovato sull’isola toscana. “Ma, soprattutto – continua Giulierini -, nei depositi c’è la testimonianza di una Campania centrale nel Mediterraneo e da sempre coacervo di popoli: Greci, Etruschi e Italici, a conferma che la ricchezza della cultura del Meridione sta nella diversità e nella contaminazione. Per comprendere in pieno gli Etruschi, oggi bisogna quindi volgersi anche al Sud e al patrimonio del Mann, dove duecento pezzi, praticamente inediti, splendono di nuova luce grazie allo straordinario lavoro del Laboratorio di Restauro del Museo. Un traguardo che mi riempie, come etruscologo, di personale soddisfazione, e che è occasione per ricordare la figura del celebre archeologo Marcello Venuti, nel 1727 fondatore dell’Accademia Etrusca e, poi, tra gli scopritori di Ercolano”.

Cista in bronzo da Palestrina conservata al museo Archeologico nazionale di Napoli (fine IV-inizio III sec. a.C.) (foto Mann)

L’esposizione abbraccia un arco temporale di circa sei secoli (X- IV sec. a.C.) e definisce un percorso di indagine che, sulle orme degli Etruschi, cerca di ricostruire le fondamenta storiche di questa popolazione, la cui grandezza derivava anche dal controllo delle risorse di due fertilissime pianure (quella padana nel Nord e quella campana nel Sud). Come ricordava, ancora nel II secolo a.C., il celebre storico greco Polibio “chi vuol conoscere la storia della potenza degli Etruschi non deve riferirsi al territorio che essi possiedono al presente, ma alle pianure” da loro controllate. La storia della scoperta della Campania etrusca si configura, quindi, come uno dei capitoli più avvincenti della ricerca archeologica in Italia e nel Mediterraneo: in tal senso, il ricchissimo patrimonio, custodito nei depositi del Mann e studiato in occasione della mostra, fornisce uno spaccato inedito nel panorama espositivo internazionale. L’allestimento della mostra negli ambienti collegati alla sezione “Preistoria e Protostoria”, appena riaperta al pubblico, crea un trait d’union con la sezione museale che, nel suo ultimo livello di visita, raccoglie reperti dell’Età del Bronzo e della prima Età del Ferro.

affibiaglio della Tomba Bernardini di Palestrina (inzio del secondo quarto del VII sec. a.C.) conservato al museo nazionale Etrusco di “Villa Giulia” (foto Villa Giulia)

Valentino Nizzo, direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto Mann)

“Scavare negli sterminati depositi del Mann è sempre un privilegio unico”, interviene Valentino Nizzo, direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia. “Farlo per ‘andare a caccia di Etruschi’ lo ha reso ancora più avvincente. Da un lato perché si è così potuto delineare un rigoroso percorso storico-archeologico volto a ricostituire la trama di relazioni che caratterizzò la plurisecolare presenza degli Etruschi in Campania. Dall’altro perché l’approfondimento delle vicende antiquarie e collezionistiche legate alla riscoperta dell’importanza del loro dominio nella regione ha offerto una prospettiva per molti versi inedita sull’evoluzione della disciplina archeologica e sul contributo dato ad essa da generazioni di studiosi che, da Camillo Pellegrino a Giovanni Patroni, passando attraverso nomi del calibro di Giovan Battista Vico, Alessio Simmaco Mazzocchi, Johann Joachim Winckelmann, Pietro Vivenzio, Eduard Gerhard, Raffaele Garrucci, Theodor Mommsen, Giuseppe Fiorelli, Julius Beloch, si sono confrontati con questo presunto enigma, fino ad arrivare alla sua definitiva soluzione, al principio del ‘900, quando il reperto più prezioso, la Tegola di Capua, aveva ormai irreparabilmente lasciato il nostro Paese alla volta di Berlino”.

Piccolo calderone in argento dorato dell’Inizio del secondo quarto del VII sec. a.C. dalla Tomba Bernardini di Palestrina, conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma (foto Villa Giulia)

Lekythos in ceramica a figure nere dell’Inizio del V sec. a.C. conservata al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto Mann)

Il percorso si articola in due nuclei tematici principali, corrispondenti ad altrettante sezioni espositive con inestimabili reperti. “Gli Etruschi in Campania”: dal carattere prevalentemente archeologico, questo segmento dell’itinerario di visita è dedicato all’approfondimento della documentazione relativa alla presenza degli Etruschi nella regione, dagli albori del I millennio a.C. alla fase dell’affermazione del popolo dei Campani. Il declino della popolazione è sancito dalle sconfitte subite presso Cuma tra VI e V secolo a.C., in seguito alla quali comincia ad incrinarsi progressivamente la potenza etrusca nella Penisola e nel Mediterraneo; “Gli Etruschi al Mann”: questa sezione valorizza i materiali etrusco-italici, generalmente provenienti da aree esterne alla Campania, acquisiti sul mercato collezionistico dal Museo di Napoli in varie fasi della sua storia. Accanto ai capolavori in mostra, volumi, plastici e documenti d’epoca illustrano al visitatore l’evoluzione del pensiero scientifico in campo archeologico dal Settecento sino alla fine del Novecento, focalizzando l’attenzione sui protagonisti dell’archeologia campana ed, in particolare, su quelli che maggiormente hanno contribuito alla riscoperta del suo passato etrusco.

Il Mediterraneo nel VI sec. a.C.: traffici mercantili, ricerca di minerali, spostamenti di popolazioni. La mostra-evento di Vetulonia illustra la situazione geopolitica, prima e dopo “Alalìa, la battaglia che ha cambiato la storia”, con reperti da Corsica, Etruria e Sardegna e un capolavoro: il dinos di Exekias

Il grande pannello con la situazione del Mediterraneo all’inizio del VI sec. a.C. nellamostra “Alalìa, la battaglia che ha cambiato la storia” a Vetulonia (foto Graziano Tavan)

Il manifesto della mostra “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia” al museo di Vetulonia dal 9 giugno al 3 novembre 2019

Il Mediterraneo all’inizio del VI sec. a.C. è un mare trafficato, solcato dalle navi commerciali di Fenici, Greci, Cartaginesi, Etruschi alla ricerca di minerali per forgiare il bronzo, favorendo i l contatto e lo scambio tra i diversi popoli. Lo si vede molto bene nel grande pannello che accoglie i visitatori annunciando il tema affrontato nella prima sala della mostra “Alalìa, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” al museo civico Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia fino al 3 novembre 2019 (catalogo Ara edizioni), curata da Simona Rafanelli, direttore del museo di Vetulonia: capire quali erano gli attori alla vigilia della battaglia del mare Sardonio, quali erano le condizioni economiche e sociali dei popoli che vivevano all’epoca sulle sponde del Mediterraneo, quali erano le strutture disponibili. Così dopo aver conosciuto motivazioni e obiettivi della mostra-evento 2019 di Vetulonia, avere avuto conto dei reperti esposti e con quale allestimento (vedi https://archeologiavocidalpassato.com/2019/10/17/al-museo-archeologico-di-vetulonia-centocinquanta-reperti-da-corsica-sardegna-toscana-museo-etrusco-di-villa-giulia-e-dal-nucleo-tutela-della-guardia-di-finanza-raccontano-la-storica-battaglia-del/) ora immergiamoci fisicamente nel Mediterraneo di 2500 anni fa, e navighiamo lungo le sue coste, incrociando sulle frequentate rotte marittime navi commerciali e militari. Basta scorrere i grandi pannelli che si dipanano lungo le pareti intervallati, agli angoli, a vetrine con oggetti significativi sui temi affrontati.

Le correnti marine nel Mediterraneo (foto Graziano Tavan)

La Corsica e le rotte di navigazione. Alalìa era un oppidum sulla costa nord-orientale della Corsica, organizzato come un emporion, cioè un porto aperto agli scambi marittimi su ampia scala. Se poi si studiano le correnti marine, si capisce subito che Alalìa non è nata lì per caso, ma per la sua posizione strategica: correnti specifiche portano facilmente verso Nord dal mar Ligure fino a oltre i Pirenei. La navigazione è anche guidata dai fari posti sui promontori, e Capo Corso – secondo Erodoto – era un “promontorio sacro” (hieron), in particolare Capo Sacru che controlla il canale di Corsica.

La posizione delle miniere e le rotte del commercio dei metalli nel VI sec. a.C. (foto Graziano Tavan)

La ricerca dei minerali. Il rame (dal III millennio a.C.) e poi lo stagno (dal II millennio a.C.), necessario per realizzare il bronzo, sono al centro dei grandi flussi commerciali nel Mediterraneo. Nel Canale di Corsica e nelle Bocche di Bonifacio sono stati trovati molti relitti carichi di lingotti di rame e stagno. Nell’entroterra di Aleria (l’Alalìa romana) erano presenti miniere di rame. La metallurgia del ferro si diffonde nel Mediterraneo occidentale nel I millennio a.C. I ricchi giacimenti dell’isola d’Elba e del territorio di Populonia fanno del Tirreno settentrionale un grande polo industriale. L’intensa produzione di carbone da legna, necessario per la lavorazione del ferro, porta i Greci a chiamare l’isola d’Elba Aethalia (colei che fuma). La miglior qualità del minerale di ferro delle Colline Metallifere in Etruria e dell’isola d’Elba viene privilegiata a quello delle miniere corse, già sfruttate da secoli. Ciò porta a creare dei collegamenti privilegiati tra la Corsica e Populonia. Ma anche dalla Corsica alla Sardegna, ricca di rame.

Nave etrusca: particolare dell’affresco conservato all’intermo della Tomba della Nave a Tarquinia

Alalìa, un emporion in Corsica. Il Mediterraneo arcaico è un’area di grande mobilità. Il commercio si basa su una vera e propria rete di insediamenti, emporia, porti aperti a innumerevoli attori e intermediari. Le varie comunità possono avere un quartiere o una strada, a volte perfino il loro santuario. Alalìa è probabilmente un emporion di questo tipo, dove i Corsi sono in contatto con Etruschi, Greci e Fenici. Il trasporto marittimo avviene con imbarcazioni a forma arrotondata. Hanno una vela quadrata tessuta in lino, fissata su una trave orizzontale saldamente attaccata all’albero maestro. La nave etrusca della Tomba della Nave (Tarquinia) attesta la comparsa, nel VI sec. a.C., di un secondo albero verticale posto nella parte anteriore dell’imbarcazione per facilitare le manovre. L’onomastica della rosa dei venti, che i marinai usano ancora oggi, tradisce la sua origine antica, con il Mediterraneo centrale come punto di riferimento focale. Così il vento da Nord-Est viene dalla Grecia (è il Grecale), quello da Sud-Est dalla Siria (è il Sirocco), il vento da Sud-Ovest dalla Libia, nome antico dell’Africa (è il Libeccio). Ed infine il più forte e potente il Magister (Magistrale) che soffia come vento maestro da Nord-Ovest.

Lo stagno di Diana ad Aleria in Corsica che probabilmente fu il porto principale di Alalìa

I porti naturali della Corsica orientale. A Nord le piccole insenature di Capo Corso possono servire da rifugi sicuri durante la pericolosa traversata del Canale di Corsica. A Sud i golfi profondi di Porto Vecchio e Sant’Amanza, vicino alle Bocche di Bonifacio, sono siti portuali di qualità superiore. Al centro, all’altezza di Cerveteri e Vetulonia sul litorale opposto, la pianura è regolarizzata da un lido sabbioso che protegge molti stagni. Eccetto lo stagno di Diana, probabilmente il porto principale di Alalìa, i cui fondali superano i 30 metri, gli stagni sono generalmente poco profondi, e nei secoli si sono gradualmente prosciugati: come lo stagno del Sale, vicino a Aleria. O sono in fase di riempimento come lo stagno di Chjurlino, il più grande porto naturale dell’isola, dove, nel 1777, durante lo scavo di un canale, fu trovato il relitto del Golo (VII-VI sec. a.C.), che fortunatamente fu studiato prima della sua decomposizione per l’assenza di qualsivoglia forma di protezione. Lo scafo, 14,1 metri di lunghezza per 2,6 di larghezza, combinava la tecnica cucita a quella delle mortase e tenoni: ricorda le navi iberiche di influenza punica e greche di Marsiglia. Il relitto del Golo è il più antico documentato ad oggi e testimonia l’importanza dei siti portuali naturali della Corsica orientale. Questi golfi, insenature e stagni avevano, in epoca arcaica, rapporti diretti con i grandi porti etruschi di Caere, Tarquinia, Vulci, Vetulonia e Populonia, ma anche con quelli ellenici della Magna Grecia e della Sicilia, così come i porti fenici della Sardegna.

Una panoplia dal museo di Aleria in Corsica in mostra a Vetulonia: la machaira (grande spada a lama ricurva) italica all’elmo Negau di tipo etrusco (foto Graziano Tavan)

La ricostruzione di una trireme greca proposta nella mostra di Vetulonia (foto Graziano Tavan)

La guerra navale. La distinzione tra una nave da guerra e una mercantile inizia a metà del II millennio a.C. anche se le attività mercantili e militari rimangono strettamente connesse. Le navi da guerra sono caratterizzate da un rapporto ben superiore tra la lunghezza e la larghezza. Sono azionate da remi ed è la velocità la loro arma in quanto la lotta consiste nello sventrare l’imbarcazione nemica con uno sperone, pesante e robusto pezzo di bronzo affusolato posto nella parte anteriore della nave. Alcuni soldati, principalmente arcieri, sono posizionati su piccole piattaforme a prua e a poppa. L’attrezzatura dei soldati etruschi evolve al VI sec. a.C. con l’introduzione del casco conico del tipo “Negau” e della spada a lama curva (la machaira) insieme allo scudo rotondo, all’armatura che protegge il torace e il cuore (cardiofilax), ai gambali (cnemidi), alla lancia, al pugnale e all’arco. Le navi raffigurate sulle ceramiche permettono di identificare i pentecontori già all’VIII sec. a.C. coi loro 50 vogatori, 25 su ciascun lato. È la nave di Ulisse nell’Odissea oppure la nave di Argo che trasporta gli Argonauti. Intorno al 700 a.C. si evolve il sistema di navigazione ovvero si ha una nuova disposizione dei vogatori che sono posizioni su due livelli da ambo i lati. Quest’imbarcazione viene chiamata bireme. I pentecontori focei sono tra i più potenti. Erodoto descrive la partenza dei Focei dalla loro metropoli sotto la minaccia dei Persiani, nel contesto delle Guerre Persiane: nel 545 a.C. uomini della città, donne, bambini, con le loro statue, offerte e “tutto ciò che gli apparteneva” si imbarcano in direzione di Alalìa. La trireme corrisponde a un’altra evoluzione della navigazione alla fine del VII sec. a.C. È azionata da 170 vogatori che, probabilmente, erano ripartiti su tre livelli. Lunga 35 metri e larga 5,50 metri, era molto maneggevole grazie al suo basso pescaggio. La trireme diventa quindi la grande forza delle flotte elleniche.

Una delle tre pentecontere dipinte sul dinos di Exekìas conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma

La mappa della battaglia di Alalia, oggetto della mostra di Vetulonia

La battaglia di Alalìa. Molto attivi all’inizio del VI sec. a.C., i Focei fondano diversi emporia: prima Massalia (Marsiglia) nel 600 a.C. , poi dal 565 a.C. si stabiliscono ad Alalìa, un oppidum preesistente. Per approvvigionare i Focei, si stima fossero 15mila, servivano 10mila ettari di terreno a coltura. Con la presa della metropoli focea nel 545 a.C. da parte delle truppe persiane di Ciro, altri 500-1500 focei furono costretti all’esilio. Un piccolo numero, è vero, ma che mandò in crisi l’equilibrio raggiunto nello spazio tirrenico. Secondo Erodoto gli ultimi arrivati si alla pirateria e a incursioni “presso tutti i popoli vicini”. Di conseguenza le città marittime etrusche, preoccupate per la difesa delle loro aree di influenza diretta, organizzano con i loro alleati punici, saldamente stabiliti in Sardegna, una risposta militare che coinvolge rispettivamente 60 navi, i Focei ne oppongono altrettante 60. Così, nel 540 a.C. si svolge in mare, tra le Bocche di Bonifacio, Alalìa e Pyrgi, una delle più grandi battaglie del Mediterraneo nell’Antichità, che coinvolgerà 180 galere e oltre 14mila uomini, tutto ciò per il controllo di Alalìa.

Il sacrificio di prigionieri (in questo caso troiani) dipinto all’interno della tomba François a Vulci (foto museo della Badia Vulci)

Le conseguenze della battaglia di Alalìa. Le conseguenze immediate della battaglia di Alalìa sono catastrofiche per i Focei stabiliti in Corsica. Le tecniche di combattimento navale per immobilizzare le navi nemiche con potenti speroni spiegano il gran numero di prigionieri e i naufraghi recuperati dalle imbarcazioni ancora in grado di navigare. La maggior parte dei prigionieri focei appartiene ai capi di Agyla (nome greco di Caere-Cerveteri), che dimostra chiaramente il ruolo dominante di questa città nella coalizione etrusca. Sarebbero stati lapidati nel santuario di Monte Tosto, vicino alla città dove, da quel momento in poi, fenomeni nefasti avrebbero colpito i passanti. Gli abitanti di Agyla consultano allora la pizia di Delfi che ordina loro ricchi sacrifici e l’organizzazione di giochi rituali. I Focei sopravvissuti alla battaglia ritornano ad Alalìa e abbandonano rapidamente la Corsica. Imbarcano i loro figli, le loro mogli e tutto ciò che possono trasportare di quello che resta dei loro beni, a bordo delle venti navi sopravvissute alla battaglia, per prendere la direzione di Reghion e Hyele (Velia). Si stima che lasciano la Corsica 5mila Focei, cioè 1600 famiglie. Altra conseguenza, a più a lungo termine, è l’egemonia etrusca che si estende nello spazio tirrenico per sessant’anni. Con la battaglia di Imera (480 a.C.) in cui i Corsi partecipano a fianco di Cartaginesi, Iberi, Liguri, Elisichi e Sardi, emerge una nuova potenza, i Greci di Siracusa, introduce un nuovo equilibrio geopolitico. Dopo la vittoria navale di Cuma nel 474 a.C. contro gli Etruschi, i Siracusani si impongono come padroni assoluti del mar Tirreno.

La prima sala della mostra di Vetulonia “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia” con, al centro, il dinos di Exekias (foto Graziano Tavan)

Exekias me poiese (Exekias mi ha fatto). è la firma, rarissima, del grande vasaio e ceramografo sul dinos attico (foto Graziano Tavan)

“A rendere particolarmente preziosa questa prima stanza della mostra è la vetrina centrale in cui campeggia il celeberrimo dinos attico frammentato”, spiega l’architetto Luigi Rafanelli che ha curato l’allestimento, “che presenta sull’orlo interno del collo la raffigurazione di due pentecontere, il tipo di nave protagonista della battaglia di Alalìa, e, all’esterno del collo, la firma rarissima (se ne contano solo 14 in tutta la sua vasta produzione) di Exekias, il grande vasaio e ceramografo ateniese vissuto alla metà del VI sec. a.C., conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma e di ritorno dalla grande mostra in suo onore a Zurigo. Per la straordinaria qualità artistica delle sue opere, per la coincidenza temporale della sua realizzazione con la data della battaglia intorno al 540 a.C. e per l’eccezionale riproduzione delle navi da guerra, il vaso è stato assunto come logo della mostra”.

(2 – continua; il primo post è uscito il 17 ottobre 2019)

Nella Palestra Grande agli scavi la mostra “Pompei e gli Etruschi”: 800 reperti provenienti da musei italiani e europei. 2^ parte: dalla Pompei – città nuova etrusca – in una Campania multietnica fino al suo tramonto, e alla memoria di alcune usanze etrusche

Una suggestiva immagine dell’allestimento della mostra “Pompei e gli Etruschi”

La locandina della mostra “Pompei e gli Etruschi” alla Palestra Grande di Pompei fino al 2 maggio 2019

Sei sale per conoscere le prime influenze etrusche in Campania prima di Pompei. Siamo a metà del viaggio proposto dalla grande mostra “Pompei e gli Etruschi” aperta alla Palestra Grande degli scavi di Pompei, fino al 2 maggio 2019, a cura del già direttore generale Massimo Osanna e di Stéphane Verger, directeur d’études à l’École Pratique des Hautes Etudes di Parigi, promossa dal parco archeologico di Pompei, in collaborazione con il museo Archeologico nazionale di Napoli, il Polo museale della Campania e l’organizzazione di Electa. Ora siamo arrivati al VI sec. a.C. quando scopriamo una Pompei – città nuova etrusca – in una Campania multietnica, che seguiamo fino al suo tramonto, e alla memoria di alcune usanze etrusche che si conservarono ancora per qualche tempo. Materiali in bronzo, argento, terracotte, ceramiche, da tombe, santuari e da abitati, consentono di analizzare e mettere a confronto più elementi per affrontare le controverse dinamiche della presenza etrusca in Campania.

A confronto le piante delle città arcaiche di Pompei e Selinunte (foto Graziano Tavan)

Fondare une città all’epoca della prima Pompei: c. 600 a.C. (Sala 6) Qual è il contesto in cui Pompei viene fondata? In quell’epoca si assistette alla nascita di altre nuove città in Etruria e nel mondo greco: la fondazione di Poseidonia (Paestum) da parte degli Achei nella piana del Sele è grosso modo contemporanea a quella di Pompei. Per gli Etruschi, come avveniva a Roma, fondare una città presupponeva di seguire una procedura religiosa rigorosa con lo scopo di stabilire il nuovo spazio abitato nell’ordine del cosmo. La città diventava in questo modo una proiezione sulla terra delle diverse zone del cielo, sedi delle grandi divinità del pantheon etrusco. Si determinavano i confini della città ed eventualmente si erigevano le mura, come accadde a Pompei. Erano quindi realizzate la rete viaria e la divisione in quartieri e in isolati residenziali. A Pompei la trama urbana all’epoca dell’eruzione del 79 d.C. conserva a grandi linee la struttura della città arcaica, che assomiglia peraltro a quella di altre città greche ed etrusche di contemporanea fondazione.

Anello con sigillo raffigurante il suicidio di Aiace Argento e corniola) dal santuario di Fondo Iozzino (foto Graziano Tavan)

I santuari etruschi di Pompei: VI secolo a.C. (Sala 7) Nella prima metà del VI secolo a.C. vennero fondati anche i principali santuari (di Apollo e di Atena). I recenti scavi nel santuario extraurbano del Fondo Iozzino, nel quartiere del porto, hanno portato alla luce una grande quantità di materiale di epoca arcaica: armi e servizi per le libagioni rituali offerti da Etruschi che hanno inscritto il loro nome in lingua e scrittura etrusca. Anche nelle altre città etrusche situate in Campania sono noti luoghi di culto importanti con caratteristiche simili a quello del Fondo Iozzino. La tegola inscritta di Capua riporta uno dei testi religiosi più importanti del mondo etrusco, nel quale può essere identificato un calendario rituale.

Antefissa di tetto templare da maschera gorgonica proveniente dal santuario di Fondo Patturelli di Capua (foto Graziano Tavan)

Ultimi frustuli di grandi templi arcaici campani: VI secolo a.C. (Sala 8) Alcuni piccoli frammenti di decorazioni architettoniche in terracotta del VI secolo a.C., rinvenuti nei santuari di Pompei, possono essere accostati a esemplari molto meglio conservati ritrovati a Cuma, a Capua e in altri centri del nord della Campania e dimostrano l’esistenza di grandi edifici di culto etruschi costruiti dalle stesse maestranze. Il confronto con i grandi templi arcaici dell’Etruria meridionale e del Lazio dimostra che la Campania etrusca arcaica ha sviluppato uno stile architettonico proprio che, attraverso Cuma, è molto influenzato dall’architettura sacra della Magna Grecia.

Set da simposio in bronzo presenti nei corredi funebri: vasi in bronzo etruschi e vasi greci figurati (foto Graziano Tavan)

Il tramonto della Pompei Etrusca. Etruschi, Italici e Greci al simposio: c. 510-450 a.C. (Sala 9) Alla fine dell’epoca arcaica, a Nord della penisola sorrentina si svilupparono nuovi centri lungo la strada tra la valle del Sarno e la piana del Sele: Nocera da un lato e Fratte dall’altro. Le necropoli hanno restituito importanti servizi da banchetto formati da vasi greci figurati di grandissima qualità e vasi di bronzo etruschi importati da Vulci. Le iscrizioni attestano una popolazione mista di Italici, Etruschi e Greci che si incontravano al simposio, come i convitati raffigurati sulle pareti della celebre Tomba del Tuffatore di Poseidonia (Paestum). L’insediamento acheo era ormai diventato un importante polo di diffusione culturale.

Elmi etruschi deformati dell’epoca della battaglia di Cuma provenienti da Vetulonia (foto Graziano Tavan)

Dalla fondazione di Neapolis alla battaglia di Cuma: c. 510-450 a.C. (Sala 10) Nello stesso momento, gli equilibri militari e politici tra le grandi potenze che si spartivano il Tirreno cambiarono. Gli Etruschi subirono diverse sconfitte da parte degli eserciti di Cuma. Quest’ultima fondò una nuova città, Neapolis (Napoli), che fece rapidamente sue le reti commerciali che avevano in precedenza contribuito alla prosperità di Pompei. La battaglia navale di Cuma, nel 474 a.C., segnò la fine del controllo etrusco sui commerci nel Tirreno. Fu l’inizio di una crisi profonda che colpì l’insieme del mondo etrusco. I grandi conflitti della fine dell’epoca arcaica favorirono l’emergere di un nuovo tipo di soldato cosmopolita, con un armamento misto (greco, etrusco, italico, ma anche iberico), che si mise al servizio delle grandi potenze del momento, anticipando l’arrivo del mercenariato di epoca classica ed ellenistica.

Lastra dipinta con cavaliere armato della tomba a camera 58 dalla necropoli Andriuolo di Paestum (foto Graziano Tavan)

Campani, Sanniti e Lucani: la fine della Campania etrusca: c. 450-300 a.C. (Sala 11) A partire dalla metà del V secolo, una nuova componente etnica fece il suo ingresso sulla scena campana. Si trattava di gruppi tribali originari del Sannio, nell’attuale Abruzzo, che si stabilirono nella piana del Sele (a Pontecagnano e a Paestum) e forse nella periferia della pianura campana, contribuendo all’emergere di una nuova componente culturale, politica e militare mista, composta da Italici di origini diverse: Campani e Sanniti, ma anche Lucani provenienti dalla Puglia e dalla Basilicata. Dalla fine del V secolo a.C., i nuovi arrivati si stabilirono nelle città campane, che fossero greche o etrusche, e vi svilupparono una cultura originale, fortemente impregnata di un ellenismo adattato alle realtà tribali del mondo italico. La lingua osca tendeva a sostituirsi al greco e all’etrusco.

Situla etrusca del VI-V sec. a.C. con aggiunta in epoca romana di anse mobili a testa di fauno e piedini a forma di leoni alati (foto Graziano Tavan)

Mantenere la memoria etrusca degli insediamenti del Vesuvio (Sala 12) L’eredità etrusca scomparve rapidamente, anche se per qualche tempo si conservarono alcune usanze specificamente etrusche nel consumo di vino durante il simposio. A Pompei e nelle città vesuviane qualche antica famiglia aristocratica conservava senz’altro il ricordo di un lontano passato etrusco, come testimonia un vaso di bronzo proveniente dalle prime collezioni del museo di Napoli. Si tratta di una situla realizzata a Orvieto nel VI o V secolo a.C. alla quale nel I secolo sono stati aggiunti dei piedi che riproducono leoni alati e degli attacchi di anse ornate di teste di fauno. L’oggetto doveva essere ancora visibile in qualche grande dimora di Pompei o Ercolano nel momento dell’eruzione del 79 d.C.

“Pompei e i Greci”: visita guidata alla mostra allestita nella Palestra Grande degli Scavi di Pompei, con 600 reperti tra ceramiche, ornamenti, armi, elementi architettonici, sculture provenienti da Pompei, Stabiae, Ercolano, Sorrento, Cuma, Capua, Poseidonia, Metaponto, Torre di Satriano

Il prof. Carlo Rescigno, uno dei curatori della mostra “Pompei e i Greci” davanti a un cratere da Locri Epizefiri (foto Graziano Tavan)

Il manifesto della mostra “Pompei e i Greci” a Pompei

Sono oltre 600 i reperti esposti tra ceramiche, ornamenti, armi, elementi architettonici, sculture provenienti da Pompei, Stabiae, Ercolano, Sorrento, Cuma, Capua, Poseidonia, Metaponto, Torre di Satriano e ancora iscrizioni nelle diverse lingue parlate – greco, etrusco, paleoitalico -, argenti e sculture greche riprodotte in età romana. Ecco la grande mostra “Pompei e i Greci”, allestita fino al 27 novembre 2017 nella Palestra Grande degli Scavi di Pompei, curata dal direttore generale della soprintendenza di Pompei Massimo Osanna e da Carlo Rescigno (Università della Campania “Luigi Vanvitelli”), e promossa dalla soprintendenza di Pompei con l’organizzazione di Electa. L’allestimento espositivo è progettato dell’architetto svizzero Bernard Tschumi e include tre installazioni audiovisive immersive curate dallo studio canadese GeM (Graphic eMotion) che intensificano l’esperienza del visitatore, immergendolo in un ambiente multisensoriale legato al racconto della mostra e articolato in tre atti. “Con Pompei e i Greci”,  spiegano i due curatori, Osanna e Rescigno, “abbiamo voluto provare non a raccontare un incontro ideale con un mondo vagheggiato, l’Ellade. Che Pompei contenga la nostalgia del mondo greco era già noto. Abbiamo voluto mettere al centro dell’esposizione quel mondo fluido del Golfo di Napoli, fatto di accentuata mobilità, migrazioni, incessanti processi di contatti e trasformazioni, dove i porti marittimi e gli scali fluviali hanno per secoli generato una cultura estremamente dinamica, impedendo il radicarsi stabile di logiche identitarie monolitiche: città aperte dove anche lo scontro militare non ha impedito il transitare incessante di tradizioni artigianali e modi di pensare. La rete straordinaria di queste vicende si legge attraverso la materialità, gli oggetti che il passato ci ha trasmesso, carichi di biografie che ci parlano ancora oggi di chi li ha prodotti, usati, caricati di significati, scambiati e persi” (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/05/26/pompei-fu-una-citta-della-magna-grecia-alla-domanda-risponde-la-mostra-pompei-e-i-greci-curata-da-osanna-e-rescigno-lo-spiegano-bene-nel-saggio-pubblicato-sul-catalogo-electa-segu/).

Cratere a figure rosse dalla tomba 113 Licinella di Paestum e una testa femminile dalla Basilica Noniana di Ercolano (Foto Graziano Tavan)

La mostra nasce da un progetto scientifico e da ricerche in corso che per la prima volta mettono in luce tratti sconosciuti di Pompei; gli oggetti, provenienti dai principali musei nazionali ed europei, divisi in 13 sezioni tematiche, rileggono con le loro “biografie” luoghi e monumenti della città vesuviana da sempre sotto gli occhi di tutti. E allora facciamo questo viaggio alla scoperta di Pompei prima della Pompei che conosciamo attraverso le tredici sezioni della mostra. All’ingresso il visitatore è accolto dalla prima installazione multimediale che ti riporta indietro nello spazio e nel tempo facendoti vivere e percepire uno spaccato di vita pompeiana. Lo spettatore è portato a percepire l’eccitazione provata dagli antichi navigatori nell’avvistare per la prima volta il golfo di Napoli dal ponte delle loro imbarcazioni, e ad assistere alla fusione di diversi popoli e culture nella grande rete di comunicazioni e di scambi che diede vita a uno stile di vita e a una forma di espressione artistica inconfondibili. La prima sezione, “Una grammatica greca di oggetti”, racconta dei primi contatti dell’Occidente con l’Oriente, spesso sottesi nel mito o nell’epica. Ecco dunque Odisseo/Ulisse che percorre il Mediterraneo, e da Oriente giunge in Occidente. “Del suo mitico viaggio e dell’incontro del mondo greco con le culture mediterranee”, spiegano Osanna e Rescigno, “abbiamo muti, solidi testimoni: sono gli oggetti, passati di mano in mano, trasportati ammassati nella chiglia di una nave, ricreati dalla sapienza manuale di un artigiano. Sopravvissuti al naufragio dell’antico, sono per noi parole di un racconto, testimoni del culto di un eroe, di una cerimonia votiva, parte di una rassegna di immagini intorno al tempio di una dea, incunaboli di vita privata”.

Sima con protome leonina dal tempio Dorico di Pompei (foto Luigi Spina)

La piroga in un unico tronco dall’abitato protostorico di Longola (foto Graziano Tavan)

“Pompei prima di Pompei” è la seconda sezione. Alla foce del fiume Sarno e lungo la sua vallata il contatto con il mondo greco inizia ben prima della fondazione della città, con i villaggi che precedono Pompei. Nelle necropoli di Striano, nell’insediamento protostorico perifluviale di Longola di Poggiomarino ai materiali indigeni (notevole la piroga dell’VIII sec. a.C., lunga 7 metri, ricavata da un unico tronco di legno quercino) si sommano reperti greci, provenienti da scambi commerciali innescati con le rotte mediterranee di passaggio per la foce del fiume, o giunti per il tramite delle città greche o etrusche presenti in Campania. È in questo contesto che nasce Pompei: “Gli spazi della città” (sezione 3). Pompei viene fondata alla fine del VII secolo a.C. Lo spazio cittadino è suddiviso da strade regolari in cui si distribuiscono case e luoghi pubblici. Una geometria di santuari, con templi dalla ricca decorazione policroma, scandisce il tempo del politico e del sociale. La nuova città, italica, con forti presenze stanziali etrusche, viene costruita anche ricorrendo a maestranze greche, ad artigiani che potremmo trovare attivi a Cuma, Poseidonia, Capua e Metaponto. E così nella IV sezione, “La non città: un palazzo italico”, vediamo cosa succede attorno a Pompei, dove il sapere greco diversamente incontra il mondo indigeno. La reggia del re di un insediamento lucano, a Torre di Satriano, viene decorata come un tempio da artigiani tarantini. Il palazzo diventa il microcosmo delle relazioni sociali, del controllo del territorio e delle sue risorse. Linguaggi, stili, mode greche si adattano a una realtà non urbana, con esiti di eccezionale importanza, straordinariamente conservati, come il magnifico tetto decorato da una primitiva, minacciosa Sfinge e da lastre con scene di combattimento. “La riscoperta del palazzo di Torre Satriano”, spiegano Osanna e Rescigno, “ha permesso di conoscere uno spaccato significativo della cultura indigena: lo spazio del potere, dove le formule di derivazione ellenica sono reinterpretate nella rappresentazione dell’autorità del signore del luogo”. In Campania, di questo adattarsi delle forme culturali, abbiamo numerose testimonianze: siamo nella sezione 5, “Il sacro e il politico”. Da Cuma si diffonde il culto di Apollo e della divina Sibilla, si affermano pratiche politiche e sociali. La cavalleria campana era il corpo dei giovani aristocratici, basata su di un fermo apprendistato, su riti di iniziazione, strutture e cerimonie che ritroviamo a Cuma, greca, come a Capua, etrusca e poi italica. I contatti tra i centri erano assicurati da trattati e alleanze, sanciti all’ombra dei templi, ricordati da cerimonie e iscrizioni. In Campania, con la fondazione di Poseidonia (Paestum), si affaccia la potente Sibari, la città achea, nell’attuale costa ionica di Calabria, che intorno a sé aveva costruito un impero: una laminetta, esposta nel santuario di Olimpia, ricorda l’alleanza costruita tra la città e il popolo tirrenico dei Serdaioi, testimone la città di Poseidonia.

La ricostruzione dei fondali del porto di Napoli con un ammasso di reperti di molte epoche (foto Graziano Tavan)

Elmo corinzio in bronzo trofeo della Battaglia di Cuma (474 a.C.)

È “Un mondo multietnico” (sezione 6) quello che si va componendo sotto i nostri occhi: un mondo variegato di genti, che parlano lingue diverse, manipolano gli stessi oggetti, ma ne personalizzano l’uso adattandoli alle proprie esigenze, praticano un commercio per piccoli scali, dove il sapere si mescola con le partite di merci. Nei porti di Pompei e Sorrento, a Partenope o presso il Rione Terra di Pozzuoli, allora sede di un piccolo scalo cumano, avremmo potuto udire parlar greco, etrusco, italico. Un equilibrio rotto dalla “Battaglia di Cuma” del 474 a.C. (sezione 7). Il mondo dei piccoli scali lungo il golfo, della grande Pompei, delle alleanze, entra in crisi alla fine del VI sec. a.C. ed esplode nella prima metà del secolo successivo. Un tiranno a Cuma crea i presupposti per un nuovo equilibrio, alterando la trama delle primitive alleanze. La fondazione di Neapolis, la nuova città al centro del golfo voluta da Cuma, che si affianca a Partenope ereditandone il culto della Sirena, crea una brusca frattura, interrompe il flusso composito di idee e merci, crea nuove forme di identità. Gli etruschi vengono affrontati in una battaglia navale e sconfitti dai cumani con l’aiuto dei siracusani. È qui che troviamo la seconda installazione multimediale. Il visitatore assiste a uno scontro tra due flotte da guerra che seminò distruzione e morte sul fondo del mare: la celebre Battaglia di Cuma che segnò l’inizio di una nuova era nella storia di Pompei, segnata dal declino di questa città un tempo fiorente e l’ascesa di altri centri urbani nell’area. Ancora una volta il lontano santuario di Olimpia registra gli eventi storici campani: nella dedica di una decima del bottino da parte del vincitore Ierone, tiranno di Siracusa, che graffia sulla superficie del lucido bronzo il ricordo della vittoria, trasformando l’evento in ricordo perenne grazie ai versi di un’ode di Pindaro. Dunque Pompei si contrae, un vecchio mondo tramonta. E Neapolis segna uno sviluppo costante e continuo. Come dimostrano i recenti scavi dei fondali del porto, oggetto della sezione 8: “Neapolis, materiali dai fondali del porto”. Della nuova città, Neapolis, possediamo infatti il racconto narrato proprio dalle merci che si depositarono nel tempo sui fondali del porto: ritroviamo le voci di una città greca che vive e respira nel Mediterraneo. Alla II metà del VI sec. – I metà del V sec. a.C. risalgono le coppe ioniche; al IV – III sec. a.C. le anfore vinarie del tipo greco-italico di produzione locale; al II sec. a.C. le ceramiche comuni di produzione neapolitana, le anfore di produzione pompeiana, le anfore ovoidi di produzione brindisina, le anfore puniche di Cadice, e le anfore di produzione rodia. Tramite il suo porto imponente, Neapolis raggiunge luoghi lontani e ne condivide usanze, costumi, mode, specchio dinamico per nuove, infinite identità greche.

L’hydria, premio dei vincitori dei giochi di Hera ad Argo (V sec. a.C,), finita nella casa pompeiana di Giulio Polibio nel I sec. d.C. (foto Graziano Tavan)

Si apre “Un nuovo mondo” (sezione 9): Oriente e Occidente si toccano. Pompei rinasce al seguito dei grandi eventi innescati nel Mediterraneo dall’epopea di Alessandro Magno e della famiglia macedone, e dall’espansione progressiva di Roma. I racconti della conquista d’Oriente arrivano per immagini e scopriamo in un vaso apulo l’immagine della battaglia di Alessandro contro Dario che ritroveremo, secoli dopo, a Pompei, nel grande mosaico della casa del Fauno. La città, nel corso del II secolo a.C., è parte dell’universo ellenistico, ricercata per architetture pubbliche e private, colorata da affreschi, impreziosita da fregi in terracotta. Due scarichi, uno da Atene, il secondo da Pompei, testimoniano, con le dovute differenze, la comunanza di pratiche sociali, le similitudini nella ricerca di agi e modi di concepire la vita e i suoi piaceri. E così si comincia a “Vivere alla greca” (sezione 10). Il mondo ellenico entra infatti a far parte del lessico quotidiano, utilizzato, esibito, consumato. Dalla casa di Giulio Polibio e da quella del Menandro provengono ricchi corredi di suppellettili che raccontano di culture composite in cui il mondo greco trova il suo ampio spazio tramite originali o oggetti imitati e ricreati. Proprio Giulio Polibio ereditò o acquistò un pezzo autenticamente greco di stile severo (460 a.C.), un’hydria (contenitore per l’acqua) in bronzo. L’iscrizione sul bordo (“sono dei giochi di Hera Argiva”) indica che il vaso è stato un premio per i vincitori dei giochi che si svolgevano in onore di Hera nel santuario di Argo: a Pompei probabilmente il pezzo arriva da trafugamento di qualche tomba, forse in Magna Grecia, venduto sul mercato antiquario, dove subisce trasformazioni (foro nella pancia per probabile applicazione di rubinetto) per far sfoggio come centrotavola. E poi c’è il servizio mensa in argento, 20 pezzi, probabilmente per quattro persone, trovato recentemente a Moregine, che garantivano al padrone di casa prestigio e successo. Queste argenterie trasportano in Campania un po’ del lusso delle vecchie regge ellenistiche.

Particolare della statua in bronzo di Apollo Lampadoforo trovata nel triclinio della casa di Giulio Polibio a Pompei (foto Luigi Spina)

La passione per il mondo greco diventa, infine, collezionismo (“Conservare oggetti greci””, sezione 11). Oggetti antichi sono richiesti, acquistati ed esposti nelle case. Di questa passione e delle sue distorsioni, abbiamo uno specchio significativo nelle storie di Verre, il potente romano accusato da Cicerone per le sue ruberie di opere d’arte in Sicilia. Accanto al latino si usa il greco (“La lingua greca a Pompei”, sezione 12): ovviamente per transazioni commerciali ma anche come lingua dell’emozione, del sentimento, della cultura. Le stanze delle case acquistano nomi greci, la cura del corpo e il mondo dell’amore si rivestono di parole greche, i bambini imparano a utilizzare l’alfabeto greco, ritroviamo il nome di Eschilo iscritto su di un gettone teatrale. L’ultima installazione fa vivere al visitatore l’esperienza del lusso e della ricchezza culturale della città, malgrado il suo violento passato. Pompei ricominciò a prosperare e fiorire, fondendo le più svariare influenze in una ricca produzione culturale ispirata dai Greci, che traspare nelle arti, nelle ville e nei giardini incantati del periodo. E così arriviamo all’ultima sezione, la 13: “Atene a Pompei”. Nelle statue diffuse in spazi pubblici e privati, in giardini, peristili e cortili, in sale di rappresentanza ritroviamo le opere mirabili dell’arte greca imitate e riprodotte. Un pezzo di Atene migra a Pompei, trasmettendo il ricordo di Afrodite e di Kore così come apparivano presso l’acropoli ateniese.