Calabria. La musica antica rinasce a Vibo Valentia con la mostra “ReSÒNAnT Ritmi e Suoni: l’Arte ritrovata”: dallo scavo archeologico alle fonti letterarie e iconografiche fino agli strumenti e ai riti dell’antica Grecia

Una rara rappresentazione di una siringa sul rovescio di un hemilitron di bronzo di Siracusa (344-317 a.C.)
Testimonianze dal passato con suoni e parole che evocano il mondo antico: ecco “ReSÒNAnT Ritmi e Suoni: l’Arte ritrovata”, la mostra archeologica aperta fino al 17 settembre al museo Archeologico nazionale “Vito Capialbi” di Vibo Valentia, in Calabria, con reperti provenienti da scavi archeologici e da musei e con ricostruzioni desunte da fonti letterarie o iconografiche, ritmi, suoni, declamazioni di testi classici, rappresentazioni scenografiche. “La mostra è dedicata alla cultura musicale; arte molto importante e assai praticata nel mondo classico, della quale si trovano solo pochi frammenti, spesso anche di difficile interpretazione e con tentativi di riproduzione sonora”, spiega il direttore Adele Bonofiglio. “Questa esposizione è frutto di una fattiva collaborazione fra enti e istituzioni che operano nel nostro territorio. Solo lavorando nella stessa direzione e in piena armonia è possibile, infatti, realizzare eventi capaci di porre all’attenzione generale il nostro ingente patrimonio culturale”.

Una cetra a sette corde sul rovescio di una tetradracma della zecca di Olinto (Macedonia) del 410-400 a.C.
Si comincia con la musica nella numismatica: gli strumenti a fiato nelle monete antiche. Nonostante l’ampia diffusione e l’uso dell’aulos nel canto lirico, rarissime ne sono le rappresentazioni nell’iconografia monetale. “Più diffusa”, spiega Giorgia Gargano, “è invece la rappresentazione del doppio flauto e della syrinx, lo strumento musicale costituito da sei o più canne, il cui nome si deve a Siringa, la ninfa dell’Arcadia amata dal dio Pan. Un tardo medaglione dell’epoca di Valentiniano (IV sec. d.C.) ci mostra in un’immagine rara quanto preziosa l’evoluzione del flauto di Pan: l’hydraulis, un organo ad acqua inventato nel III secolo a.C. dall’ingegnere Ctesibio di Alessandria”. Per quanto riguarda invece gli strumenti musicali a corda, l’iconografia monetale permette di seguire le varianti e l’evoluzione della foggia degli strumenti musicali spesso attributi di divinità. “Vengono rese con precisione le differenze tra lira e cetra”, continua Gargano, “la prima con cassa rettangolare o arrotondata, con cinque o sette corde; la seconda a forma di carapace di tartaruga: entrambi attributi di Apollo, ma suonati anche da Pan ed Eracle”.
La presenza della musica e il suo legame con la sfera rituale e cultuale emerge con chiarezza dalla documentazione archeologica proveniente dalle aree sacre e dalle necropoli di età greca ed ellenistica, in Italia meridionale e in Calabria. Il ritrovamento di strumenti a fiato, a corda e a percussione, come ben illustra Paola Vivacqua, le raffigurazioni iconografiche su vasi, le statuette fittili e i pinakes evocano pratiche, relative sia a determinati culti effettuati nei santuari, che ai riti funebri che accompagnavano il passaggio del defunto nell’aldilà, sottolineando un forte rapporto con la divinità a cui rivolgere preghiere di ringraziamento e di supplica. “I corredi tombali a cui sono associati gli strumenti musicali”, sottolinea Vivacqua, “molto spesso rimandano alla sfera del simposio, dove la musica e il canto erano i mezzi di comunicazione privilegiati per potervi accedere e godere dei piaceri dell’incontro conviviale, dell’esibizione e dello spettacolo. In questo senso la presenza degli strumenti musicali era finalizzata all’educazione e alla formazione in cui l’attività musicale e poetica era considerata fondamentale per l’acquisizione di prestigio”.

Vasi e terrecotte con raffigurazioni di strumenti musicali o di cerimonie in cui la musica è protagonista
Dal punto di vista archeologico la profonda permeazione che la musica ebbe nella vita quotidiana è difficilmente connotabile a causa della natura immateriale della documentazione. “Per questo motivo”, interviene Anna Maria Rotella, “è oltremodo indispensabile l’apporto documentario costituito dal repertorio figurativo sia vascolare che coroplastico”. Il museo Archeologico nazionale di Vibo Valentia, dedicato a Vito Capialbi, è stato istituito nel 1969 proprio per offrire un’idonea collocazione alla collezione di Viro Capialbi, il più illustre dei collezionisti calabresi dell’Ottocento, collezione che comprende anche un piccolo nucleo di oggetti che presenta chiari rimandi alla musica in età greca.
La forte componente religiosa che caratterizzava la Calabria greca trova riscontro nelle offerte votive alla divinità. E tra le terrecotte votive meritano particolare attenzione quelle con raffigurazioni musicali. “Esse documentano l’importanza della musica nei luoghi sacri”, spiega Mariangela Preta, “e aiutano non solo a comprendere la funzione della musica nel suo contesto di produzione e fruizione ma anche a ricostruire cosa la musica e il far musica significassero per le società antiche. I rinvenimenti attestano la presenza di figure femminili suonatrici singole o in gruppo. Il contesto di ritrovamento di questi particolari ex voto, datati tra il V e l’inizio del III sec. a.C., forniscono informazioni sia su quali strumenti fossero più adatti alle diverse occasioni rituali, sia alla relazione tra le performance con le divinità destinatarie dell’offerta musicale”.
Chiude il percorso della mostra l’eccezionale lyra ritrovata da Paolo Orsi negli scavi condotti a Locri tra il 1913 e il 1915 nella necropoli di località Lucifero: il carapace faceva parte di un corredo funerario che comprendeva anche un alabastron in alabastro e uno strigile. “Diversi gli esemplari di lyra tra i corredi”, ricorda Rossella Agostino, “attestazione che sembra documentare il grado di livello culturale del defunto e la sua appartenenza a un ceto sociale elevato. In alcune sepolture alla lyra, strumento rappresentato anche su alcuni pinakes, si accompagnava l’aulos. Va ricordato che la colonia locrese fu musicalmente molto attiva e sembra che sia stato Senocrito, originario di Locri e autore di ditirambi e peani, ad inaugurare tale attività poetico-musicale in città. E fu ancora lui a inventare l’armonia Lokristi, caduta in disuso alla fine del V secolo a.C.”.
Etruria meridionale. Apre il santuario del Portonaccio di Veio (VII-V sec. a.C.), tra i più antichi e venerati d’Italia: pronto a ospitare anche i pellegrini della via Francigena diretto al Giubileo della Misericordia a Roma
Era tra i santuari più antichi e venerati d’Italia. L’area sacra dedicata a Menerva/Minerva, oggi nota come santuario del Portonaccio, sorgeva immediatamente fuori la città di Veio, in Etruria meridionale, su un ripiano tufaceo non vasto, a picco sul fosso della Mola. Era attraversato in tutta la sua lunghezza dalla via che conduceva dalla città di Veio al litorale tirrenico e alle famose saline veienti, il cui tracciato fu ricalcato in epoca romana dalla strada basolata ancora in parte conservata. E nel Medioevo il sito, dove nel frattempo era sorto il borgo di Isola Farnese, fu interessato dal passaggio della via Francigena, percorsa dai pellegrini che da Canterbury, in Inghilterra, attraverso la Francia e le Alpi raggiungevano la città eterna, Roma. E proprio per consentire una visita del santuario del Portonaccio ai numerosi pellegrini dei nostri giorni – che lungo la via Francigena raggiungeranno Roma per il Giubileo straordinario della Misericordia -, riapre l’area archeologica di Veio secondo i nuovi orari: martedì, mercoledì, venerdì, domenica e festivi dalle 8 alle 14; giovedì e sabato dalle 8 alle 16. Il biglietto intero avrà il costo di 2 euro, quello ridotto di 1 euro.
Il santuario è il risultato di una complessa vicenda, sia edilizia che cultuale, risalente ai primi decenni del VII secolo a.C., che raggiunge l’assetto finale intorno alla metà del V secolo a.C. La costruzione del tempio, voluta certamente dal re tiranno della città, sostituì precedenti strutture risalenti alla seconda metà del VII secolo a.C.: una sorta di casa-torre con vano di base seminterrato, adibita ad abitazione degli addetti al santuario, e successivamente (verso il 530 a.C.) una residenza riccamente ornata da fregi fittili raffiguranti, tra l’altro, l’apoteosi di Ercole. Il nucleo più antico, situato all’estremità orientale del ripiano, era legato al culto della dea Menerva, la latina Minerva, venerata sia nel suo aspetto oracolare che in quello di protettrice dei giovani e del loro ingresso nella comunità. In onore della dea, ricordata da iscrizioni votive accanto ad altre divinità (Rath=Apollo; Aritimi=Diana; Turan=Venere). Verso il 540-530 a.C., al posto di più antiche strutture murarie, furono eretti un tempietto a semplice cella con relativo grande muro di sostruzione del ripiano tufaceo costruito per regolarizzare la sommità del dirupo, un altare quadrato con bothros (fossa dei sacrifici), un portico e una gradinata di accesso dalla strada. Numerosi e pregiati gli ex voto in avorio, in bronzo, oltre a particolari ceramiche in bucchero, tra i quali spiccano quelli con dediche di personaggi importanti come Tolumnius, Vibenna, venuti da città lontane (Vulci, Castro, Orvieto) attirati dalla fama dell’oracolo di Menerva. Eccezionale lo splendido donario in terracotta policroma raffigurante l’apoteosi di Ercole, introdotto tra gli dei dell’Olimpo dalla sua protettrice Minerva, eseguito verso il 500 a.C. Nella parte occidentale del santuario fu eretto verso il 510 a.C. il tempio a tre celle di tipo tuscanico ornato dall’eccezionale apparato decorativo in terracotta policroma di cui facevano parte nel gruppo delle statue acroteriali, quelle di Apollo ed Ercole. Il tempio fu affiancato da una grande piscina, alimentata da un apposito cunicolo e da un vasto recinto retrostante che racchiudeva un bosco sacro. Il culto era quello di Apollo/Rath nel suo aspetto oracolare profetico ispirato al modello delfico, al quale si collegavano i riti di purificazione. Associato ad Apollo era Ercole, l’eroe divinizzato caro ai tiranni, e forse Giove/Tina, la cui immagine dovremmo supporre sul fastigio dell’edificio templare.
Oggi il tempio è visibile nella sua ricostruzione dalla sagoma dell’edificio sino al tetto, compresi altri particolari tra cui le decorazioni architettoniche e una statua di Apollo di 12 metri di altezza. Dall’ingresso degli scavi si giunge al santuario percorrendo un breve ma suggestivo tratto di basolato romano immerso nel verde. “Dalle iscrizioni”, spiegano gli archeologi, “sappiamo che il complesso templare era dedicato alla dea Minerva, ma è generalmente noto come santuario “di Apollo” per la bellissima statua fittile acroteriale (destinata a decorare il vertice del frontone del tempio) rappresentante il dio, attualmente conservata al museo nazionale di Villa Giulia”. Il santuario si componeva del tempio vero e proprio, di una piscina annessa, servita da una serie di cunicoli sotterranei, alcuni dei quali ancora ben visibili, e di una piazza, che a Est terminava in una larga piattaforma quadrangolare. In età post-classica nella collina furono aperte cave per ottenere materiale da costruzione le quali hanno provocato il collasso dell’area centrale del complesso; le strutture sono state quindi raccolte blocco per blocco dal fondo della cava e restaurate nella forma attuale.
“Il restauro del tempio”, continuano gli archeologi, “ha ricreato con una struttura leggerissima e affatto invasiva quelle che dovevano essere le dimensioni del tempio, consentendo una chiara comprensione della struttura ed anche della localizzazione delle decorazioni. Il ricchissimo corredo fittile, datato alle fine del VI sec. a.C. era composto di lastre di rivestimento, di affreschi su terracotta per le pareti della cella, di antefisse (ornamento in terracotta dei tetti degli edifici antichi, posto alle estremità delle tegole convesse) a testa gorgonica e a testa di menade, e soprattutto di bellissimi gruppi acroteriali, tra i quali il più famoso è sicuramente l’Apollo. Gli acroteri che decoravano il columen (trave centrale) del tetto a doppio spiovente del tempio, come anche le antefisse, sono tutte opere attribuibili ad un’unica bottega, probabilmente quella del famoso artista Vulca, noto dalle fonti latine come artista attivo a Roma nella decorazione del grande tempio di Giove Capitolino, voluto dal re etrusco Tarquinio il Superbo ed inaugurato nel 509 a.C.”. Soddisfatto Daniele Torquati, presidente del XV Municipio di Roma: “Ringrazio a nome dei cittadini del Municipio tutti gli attori che hanno voluto, portato avanti e ottenuto la valorizzazione dell’area archeologica di Veio, traguardo importante per residenti, visitatori e pellegrini in vista del Giubileo della Misericordia”.
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