Il Medioevo davanti all’antico: il caso del duomo di Modena. Settis dialoga con Franzoni a margine della mostra “Mutina splendidissima” sul reimpiego dei marmi della colonia romana di Mutina per la cattedrale di Lanfranco e Wiligelmo

L’imponente duomo romanico di Modena, opera dell’architetto Lanfranco, patrimonio dell’Umanità dal 1997

La locandina dell’incontro di Settis e Franzoni su “Uso, ammirazione, ripresa: il Medioevo davanti all’antico”

Il manifesto della mostra “Mutina Splendidissima. La città romana e la sua eredità” al Foro Boario di Modena dal 25 novembre 2017 all’8 aprile 2018

Nella Relatio de innovazione Ecclesie Sancti Geminiani ac de translatione eius beatissimi corporis racconta il canonico Aimone all’inizio del XII secolo, lui magister scolarum, cioè “direttore” delle scuole attive presso la cattedrale di Modena: “Dopo che furono portate a buon punto le fondamenta (del nuovo duomo di Modena, la “casa di san Geminiano”, ndr), viste le dimensioni dell’edificio, a molti venne il sospetto che non fosse sufficiente la quantità di pietre a disposizione. Ancora una volta fu Dio stesso che indusse gli uomini a scavare la terra alla ricerca di materiali; e dalla terra uscirono stupefacenti masse di pietre e marmi, tali da bastare fino alla conclusione dei lavori. Sono, con tutta evidenza, marmi provenienti dalla città antica”. E più avanti: “Fervono i lavori attorno alla cattedrale, si allestiscono strutture per sollevare e mettere in opera i materiali, mentre proseguono le ricerche nel sottosuolo: si scavano marmi di grande pregio, vengono scolpiti con tecnica straordinaria, vengono innalzati e montati”. Il saggio di Claudio Franzoni “Il duomo e la memoria di Mutina”, pubblicato sul catalogo De Luca Editori d’arte della mostra “Mutina splendidissima. La città romana e la sua eredità” (al Foro Boario di Modena fino all’8 aprile 2018) è illuminante per capire come il duomo di Modena, fondato nel 1099, opera mirabile dell’architetto Lanfranco e dello scultore Wiligelmo, dal 1997 dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’Umanità, rappresenti una sorta di giuntura tra la città antica e la città moderna. Tema oggetto di un incontro, giovedì 29 marzo 2018, alle 18, all’auditorium “Marco Biagi”, in largo Marco Biagi n. 10 a Modena: Salvatore Settis dialoga con Claudio Franzoni su “Uso, ammirazione, ripresa: il Medioevo davanti all’antico”. Gli studi da sempre individuano nel duomo di Modena una delle tappe fondamentali del rapporto tra Medioevo e Antico. Le grandi mostre modenesi sulla cattedrale del 1984 hanno approfondito questo tema, sul quale ritorna anche l’esposizione in corso “Mutina splendidissima”. Inserito in una casistica che gli studi recenti hanno ulteriormente allargato, lo sguardo di Lanfranco e di Wiligelmo verso l’arte antica spicca ancora nella sua ricca, originale complessità.

I due leoni antichi riutilizzati da Lanfranco come stilofori del protiro del duomo di Modena (foto Graziano Tavan)

“La questione dell’antico nel duomo di Modena”, scrive Franzoni, “è argomento tutt’altro che recente. Tappa fondamentale rimane la mostra del 1984 “Quando le cattedrali erano bianche”. E, come all’epoca avevano già sottolineato Fernando Rebecchi e Salvatore Settis, c’è reimpiego e reimpiego. Una cosa è il ricorso all’antico come semplice materiale da costruzione, un’altra l’esposizione di pezzi antichi, tanto più quando essi siano corredati da immagini”. Purtroppo la bomba che nel 1944 squarciò il fianco nord del duomo ci impedisce di quantificare con esattezza il riutilizzo. Altra situazione è quella dei due leoni della facciata. “Qui c’è ben altro che il semplice utilizzo materiale dei pezzi antichi”, sottolinea Franzoni. “È avvenuto infatti qualcosa di più importante: Lanfranco ha recuperato la figura del leone accovacciato come figura di guardia, ha mantenuto la coppia dei due animali affiancati e, soprattutto, ne ha trasformato l’immagine. Adesso siamo davanti a un leone stiloforo, insomma uno schema nuovo. Una vera invenzione in cui l’antico gioca un ruolo essenziale”. Franzoni osserva come il reimpiego di materiale antico, se ci limitiamo all’inizio del XII secolo, presenti una situazione sorprendente: “tanti pezzi antichi assorbiti nella struttura interna, due soli esibiti con grande evidenza, i leoni del protiro di facciata. In altre parole, le pareti esterne del duomo di Lanfranco dovevano presentarsi nella loro uniforme compattezza, senza elementi esterni che rischiassero di incrinare il complesso ritmo dei marmores sculpti, i semicapitelli ai lati di ciascuna loggia, i capitelli al loro interno, le mensole degli archetti ciechi, le sculture della facciata”.

La stele dei Salvii, dalla torre campanaria, oggi conservata al museo lapidario Estense di Modena

La torre campanaria svetta dietro la preziosa abside del duomo di Modena (foto Graziano Tavan)

Diverso invece l’atteggiamento dei maestri Campionesi che decorarono il duomo tra il XII e il XIII secolo. “L’oggetto antico viene riconosciuto nella sua funzione originaria, che a sua volta suggerisce la norma del reimpiego: un pilastro, ad esempio, rimane tale nel riutilizzo medievale”. La Ghirlandina, la torre campanaria o torre civica, alta oltre 86 metri, avviata nel 1100 e portata a termine nel 1309 sotto la direzione di Enrico da Campione, rientra in questo nuovo concetto di riutilizzo, “a cominciare dall’impressionante esibizione della stele dei Salvii, oggi nel lapidario Estense, ma un tempo murata sul lato occidentale della torre, a pochi passi dalla porta della Pescheria. Oltre a questa grande stele, la serie di rilievi figurati in origine (e in parte ancora oggi) distribuiti lungo le pareti della torre non trova la minima corrispondenza con l’esterno del duomo: ora non c’è più la preoccupazione per un paramento dal tessuto continuo e il più possibile uniforme”.

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Una risposta a “Il Medioevo davanti all’antico: il caso del duomo di Modena. Settis dialoga con Franzoni a margine della mostra “Mutina splendidissima” sul reimpiego dei marmi della colonia romana di Mutina per la cattedrale di Lanfranco e Wiligelmo”

  1. Italina Bacciga dice :

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