Pompei “trasloca” in Etruria. Notte speciale dei Musei a Vetulonia con la mostra “L’arte del vivere al tempo di Roma. I luoghi del tempo nelle domus di Pompei”: protagonista assoluto l’Efebo di Via dell’Abbondanza con molti altri capolavori concessi dal Mann

Il “bellissimo Efebo”, come lo definì Amedeo Maiuri, scoperto il 25 maggio 1925 in via dell’Abbondanza a Pompei
“Improvvisamente”, era il 25 maggio 1925, “veniva in luce la testa e la parte superiore del corpo di una statua bronzea che si rivelò subito quale opera di incomparabile bellezza”: così scriveva l’archeologo Amedeo Maiuri, soprintendente alle Antichità di Napoli e del Mezzogiorno dal 1924 al 1961, sulla scoperta dell’Efebo di Via dell’Abbondanza a Pompei. “Rimosso tutt’intorno lo strato di lapillo e di cenere che l’aveva sepolta e fortunatamente preservata tra la rovina delle cadenti murature, un bellissimo Efebo emerse a grado a grado con la sua calda patina di bronzo dal grigio uniforme strato dei materiali eruttivi e parve all’attonita e commossa meraviglia degli astanti, quasi una divina apparizione, una bellezza viva e palpitante miracolosamente risorta dalla morta città”. Quel “bellissimo Efebo” di via dell’Abbondanza, capolavoro indiscusso della statuaria in bronzo restituita da Pompei, copia romana di originale greco del V sec. a.C., è il protagonista assoluto di una speciale Notte dei Musei a Vetulonia. Alle 18, di sabato 20 maggio 2017, al museo Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia, viene infatti inaugurata la mostra evento “L’arte del vivere al tempo di Roma. I luoghi del tempo nelle domus di Pompei” che rimarrà aperta fino al 5 novembre. “Unica ad oggi, fra le città etrusche, ad ospitare la più bella statua di Pompei, come la definì l’archeologo Amedeo Maiuri all’indomani della sua scoperta”, sottolinea con orgoglio la direttrice del museo, Simona Rafanelli, “Vetulonia rappresenta oggi la destinazione del celeberrimo Efèbo dalla via dell’Abbondanza, dopo quella di Pompei, sul suolo nazionale, e le tappe estere segnate dalla Corea e dal Giappone e, infine, dal Paul Getty Museum di Los Angeles, da dove la splendida statua in bronzo è rientrata nel 2012”.
Riemerso dalle ceneri, che ancora ricoprivano i vani della ricca domus pompeiana di Publius Cornelius Tages, aperta sulla via dell’Abbondanza e da allora nota anche come “Casa dell’Efebo”, lo straordinario fanciullo di bronzo, utilizzato come porta-lampade per far luce fra il tablino (sala di rappresentanza) e il triclinio (sala da pranzo) estivo, ritornò alla luce – come detto – il 25 maggio del 1925 per mano dell’archeologo Amedeo Maiuri. Il lungo e complesso restauro, durato per quasi un secolo, si è svolto fra Campania, Toscana e Stati Uniti d’America. “Un’opportunità e un privilegio”, continua Rafanelli, “il senso intrinseco della mostra di Vetulonia. Il privilegio, concesso in primo luogo dal direttore del museo Archeologico nazionale di Napoli, Paolo Giulierini, e dal curatore capo delle collezioni, Valeria Sampaolo, di collaborare con il principale museo archeologico d’Italia, per allestire una mostra che vanta la prerogativa di ospitare, per la prima volta in Toscana, una selezione straordinaria di reperti provenienti da Pompei e dalle altre importanti realtà dell’area vesuviana (Ercolano e Stabia) e conservati a Napoli sin dal tempo della loro scoperta”. Particolarmente soddisfatto il sindaco di Castiglione della Pescaia, Giancarlo Farnetani: “Questa mostra è un evento culturale di prim’ordine che segna un’ulteriore e significativa tappa lungo un itinerario di sviluppo, capace di coniugare cultura, sport, turismo, economia. Obiettivo primario è quello di candidare Castiglione della Pescaia al ruolo di destinazione ambita, mèta ideale dei turisti e luogo privilegiato per i residenti, sviluppando le potenzialità del territorio a 360 gradi tramite un’offerta che tenga conto delle risorse marittime, agroalimentari, artistiche, archeologiche di una terra che reca in sé tutte le possibilità per attrarre sempre nuove e molteplici fasce di turisti”. Guarda il video:
Pompei dunque “trasloca” in Etruria. La mostra “L’arte di vivere al tempo di Roma. I luoghi del tempo nelle domus di Pompei”, argomento al quale Seneca dedicò uno dei suoi celebri Dialoghi (De vita beata), come ben illustra Simona Rafanelli sul sito dei Musei della Maremma (www.museidimaremma.it) , “si dispiega attraverso i diversi linguaggi espressivi (pittura a fresco, scultura, toreutica, ceramica, vetro) che creano la trama del racconto espositivo, dipanato entro i confini di una residenza immaginaria, articolata, al pari di un’abitazione reale, negli spazi riservati alle attività pratiche e speculative. Spazi ideali eletti a luoghi del tempo nei quali si snodano le tappe del vivere quotidiano, ispirate dagli interessi e dalle occupazioni che dettano i tempi dell’otium nella sua dimensione domestica. Negli ambienti di una casa romana”. Al museo di Vetulonia, continua la direttrice, “entro i confini di uno spazio chiuso, rievocato intorno a un atrio custodito dalle divinità domestiche, alcuni arredi, come il portalucerne o i candelabri in bronzo, scandiscono, con i tempi del giorno, il percorso di visita. In corrispondenza delle vetrine, un’apertura, intesa come una falsa porta, introduce metaforicamente agli altri vani della domus, cui alludono gli oggetti esposti, ai quali è affidata la descrizione della toeletta maschile e femminile, dell’allestimento della tavola, dell’organizzazione della cucina-dispensa”.
La ricostruzione di uno spazio esterno si traduce poi nella suggestiva allusione a un giardino, inteso come luogo della cultura, dell’educazione dei giovani alle Arti delle Muse e popolato da arredi marmorei quali la statuetta di Venere al bagno, le erme, gli oscilla, le maschere teatrali, le riproduzioni di animaletti da cortile, come la tartaruga o il coniglietto, sul fondo di un immaginario tablinum, luogo di eccellenza di una domus, arredato a imitazione di una sorta di “quadreria” dell’antichità. “Qui il varco centrale aperto sul portico”, fa notare Rafanelli, “diviene la cornice reale e fantastica atta a inquadrare, stagliata sulla quinta di paesaggio offerta dal giardino, la statua dell’Efebo lychnophoros (portatore di lampada), ove si concentra, nella morbida flessione del corpo e nell’espressione meditativa del volto, il significato intrinseco della mostra”.
La mostra affronta anche il rapporto dell’area vesuviana con l’arte greca. In nostro aiuto interviene ancora Simona Rafanelli: “Osservatorio privilegiato per cogliere il senso dell’arte di vivere – nel concetto in sé e nella mostra di Vetulonia – sono quei brani di un fraseggiare al contempo didascalico e allusivo rappresentati dai frammenti delle pitture a fresco che formano il compendio del lascito, assolutamente unico e per questo ancor più prezioso, delle domus di Pompei e delle altre città del comprensorio vesuviano. Ogni aspetto che, nell’educazione dei giovani aristocratici, concorreva a comporre la sintesi riuscita della loro formazione, plasmata sulla paidéia greca, trova la più alta espressione nella gestualità delle figure, sottratte per sempre al filo di una narrazione sinottica per divenire icone assolute di un gesto bloccato nella fissità dell’istante nel quale sono state immortalate. Così la piccola filatrice, intenta nell’occupazione emblematica dell’attività domestica, diviene simbolo sempiterno di quella occupazione, nella quale risiede il significato più profondo della presenza e dell’identità della donna romana, eterna Lucrezia, nel cuore della dimora signorile”.
Dalle tombe dipinte di Tarquinia alla musica perduta degli etruschi: a Firenze “live” coinvolgente con l’etruscologa Simona Rafanelli e il jazzista Stefano Cocco Contini
Quando l’archeologia ti coinvolge in un’emozione collettiva: domenica a Firenze più di duemila appassionati del mondo antico, accorsi al centro congressi per il X Incontro nazionale di Archeologia Viva, hanno vissuto momenti intensi “calati” nell’atmosfera magica dei Principes di Tarquinia. Perché l’intervento dell’etruscologa Simona Rafanelli, direttore del museo archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia, e del sassofonista Stefano Cocco Cantini, musicista jazz, dal titolo “Suoni dal passato: la musica perduta degli etruschi”, più che un momento didattico di archeologia sperimentale è stato un vero e proprio show che ha regalato ai presenti – in anteprima assoluta – un concerto di musica etrusca con gli strumenti ricostruiti sul modello dei reperti archeologici trovati in Etruria e a Paestum.
La ricerca rientra nel progetto “Musica perduta degli etruschi” promossa dalla Rete dei musei della Provincia di Grosseto. “Nell’antichità la musica permeava quasi ogni momento della vita, sia pubblica che privata”, spiega la coordinatrice del progetto Roberta Pieraccioli. “Con il canto e la danza, la musica era infatti presente nelle cerimonie religiose, negli agoni sportivi, nel simposio, nelle feste solenni, perfino nelle contese politiche e aveva un ruolo preponderante anche nei momenti privati come i matrimoni e le cerimonie funebri, l’intrattenimento domestico, il corteggiamento”. Le informazioni che abbiamo sulla musica nell’antichità classica provengono sia dalle fonti letterarie (molto lacunose) sia dall’archeologia (ma l’archeomuseologia è disciplina molto recente e ancora poco praticata). Paradossalmente è stato proprio l’incontro quasi casuale tra Rafanelli e Cocco Cantini a far emergere sulla musica etrusca osservazioni interessanti e inedite che valeva la pena di approfondire. Di qui il progetto “Musica perduta degli etruschi” presentato domenica a Firenze in un “live” coinvolgente.
I due esperti hanno lavorato a stretto contatto. Simona Rafanelli ha sviluppato una ricerca mirata sulle fonti storiche e iconografiche, raccogliendo testi tratti dagli storici antichi che hanno parlato degli etruschi e della loro musica, immagini dell’arte etrusca (pitture parietali delle tombe, pitture vascolari, bassorilievi, incisioni), e una bibliografia alla quale fare riferimento anche per il lavoro del musicista. Stefano Cantini, servendosi dell’archeologia e mettendo in campo le sue competenze musicali, ha studiato le immagini e le informazioni delle fonti antiche interpretandole sulla scorta della sua esperienza per cercare di capire come e che cosa suonavano gli etruschi, quali suoni potevano trarre dai loro strumenti e in che modo questi strumenti potevano essere suonati. Da queste due prospettive, diverse e complementari, è nato un lavoro di alta divulgazione scientifica destinato al pubblico più vasto.
“Di questo popolo musicale sappiamo ben poco e per ogni informazione dobbiamo fare riferimento allo straordinario repertorio iconografico delle tombe dipinte di Tarquinia”, ammette Rafanelli. “Per esempio, del suonatore con lo strumento a fiato a due canne – presente e ricordato ovunque – conosciamo il nome etrusco, suplu, corrispondente al latino subulo (pl. subulones), ma non conosciamo il nome dello strumento a fiato usato dal suonatore per il quale siamo costretti a rifarci ai nomi usati per modelli simili dai greci (aulòi) e dai romani (tibiae)”. Ma perché due strumenti suonati contemporaneamente? Contini ha cercato di dare una risposta: “Una delle mani del musicista tiene quasi sempre il mignolo sotto una delle due canne. Non solo per sorreggerla”, spiega il jazzista. “Dopo varie osservazioni e riflessioni, posso affermare con certezza che questa impostazione delle dita spiega il ruolo differente delle due parti dello strumento. La canna con il mignolo a sostegno (e con un foro nella parte inferiore) era la parte solista, cioè quella cui era affidato probabilmente il compito di sviluppare le melodie più complesse. L’altra canna, priva del foro sulla parte inferiore, aveva la funzione di “bordone”: poteva emettere meno note, nonostante avesse nella parte superiore un foro in più, perché non avendo il foro al di sotto non poteva innescare armonici complessi”.
Fin qui la teoria. Ma per tentare di riprodurre il suono come all’epoca degli etruschi, che non conoscevano il sistema temperato ma eseguivano scale modali producendo una nota fissa con uno strumento e la melodia con l’altro, il solista, bisognava riprodurre fedelmente uno strumento musicale a fiato etrusco. Pochi gli originali che si conoscono: quelli del relitto dell’isola del Giglio e quelli di Paestum. Grazie alla collaborazione e alla disponibilità delle competenti autorità, il musicista ha avuto modo di studiarli da vicino. “I doppi strumenti, usati anche dai greci e dagli assiri, erano costruiti prevalentemente in bosso – ricorda Cantini – un legno durissimo, stabile e sonoro, principale materiale per la costruzione dei clarinetti e degli oboi del 1700/1800, prima dell’avvento dell’ebano”. Le proprietà del bosso erano state comprese anche dagli etruschi, che avevano costruito strumenti bellissimi e smontabili in più parti. Per questo il sassofonista si è procurato il bosso in Ucraina e ha realizzato una coppia di strumenti a fiato, quelli suonati domenica a Firenze, coinvolgendo nel progetto anche un fisico matematico e un artigiano. “La particolarità di questi strumenti era l’imboccatura speciale”, spiega Cantini. “Se non si capiva questo dettaglio non si sarebbe potuto riprodurre i loro suoni”. Oggi il clarinetto e il sassofono hanno un bocchino. Nell’antichità esisteva ed era comunissima la doppia ancia, esattamente come oggi hanno l’oboe e il fagotto, ben rappresentata in immagini dalla Grecia e dall’Antico Egitto. “Osservando un dipinto della tomba Francesca Giustiniani di Tarquinia”, puntualizza Contini, “si può notare che il pittore ha dipinto l’ancia fuori dalle labbra del musicista, quasi a lasciare una traccia per noi: e non si tratta né di un’ancia doppia, ma di un’ancia semplice battente, come quella ancora oggi impiegata nelle launeddas sarde”. Tenendo presente tutti questi elementi e i calcoli matematici sulle frequenze e sui rapporti proporzionali di ottave e quinte, Stefano Cocco Contini, visibilmente emozionato, ha provato quei preziosi strumenti a fiato “all’etrusca” davanti al pubblico di Firenze, che il fiato lo tratteneva nel pathos di quel momento. Il risultato? Cantini, che quegli strumenti e il modo di suonarli ha immaginato e ricostruito, lo ha definito “strabiliante”. La risposta entusiasta del pubblico, che – come a teatro – ha richiesto il bis, lo ha confermato.
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