“Dagli scavi archeologici… ai bauli delle nostre soffitte”: a Padova i tesori di Pola antica (Istria), dalla città romana al medioevo, e le testimonianze dei giuliano-dalmati
Resti di edifici databili 1000 a.C. e, dallo strato più superficiale, scheletri, corredi funerari e “medagliette devozionali”, simbolo di fede, che alla morte accompagnavano la salma del defunto, attribuibili a monache Benedettine la cui presenza è stata attestata a Pola nel XII e XIII secolo. È quanto rinvenuto negli scavi nel rione di San Teodoro a Pola iniziati nel 2005 e curati dal Museo archeologico dell’Istria. Ma anche giornali, cartoline, fotografie, pagelle, documenti: oggetti semplici che riportano alla luce aspetti di vita della gente giuliano-dalmata in terra d’Istria, Fiume e Dalmazia, dalla fine dell’800 fino all’esodo del 1947, poi in terra italiana, e che ora vengono esposti a Padova. Sabato 21 febbario 2015, alle 11, viene inaugurata: “Dagli scavi archeologici… ai bauli delle nostre soffitte. Le medagliette devozionali, insegne religiose delle abitanti il convento di S. Teodoro a Pola”, la mostra promossa dal Comune di Padova in collaborazione con l’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, curata da Ondina Krnjak, allestita nelle ex Scuderie di Palazzo Moroni fino a domenica 15 marzo 2015. Ingresso libero. Orario: 9-12.30 e 15-18. Chiuso il lunedì.
LA SCOPERTA. Dopo un’estate di scavi “top secret” –raccontano le cronache polesi-, portati avanti dal museo archeologico istriano di Pola in via Kandler, Alka Starac, responsabile dello scavo, ha mostrato ai cronisti i risultati raggiunti: la scoperta di un villaggio romano-medioevale, con marmi, mosaici e anfore incastonate. E per la precisione: ecco le tracce della chiesa di San Teodoro con convento annesso, della chiesa di Santa Lucia, di un cimitero medioevale, di una “domus” romana di lusso, terme pubbliche, deposito da millequattrocento anfore quasi intatte. “Sono le nuove meraviglie del mondo antico di Pola”, spiega l’archeologa. “Si potrebbe istituire un nuovo museo archeologico solo per questo “concentrato” di storia su duemila metri quadri di terreno”. Ecco l’elenco delle scoperte che “potrebbero adombrare anche la vista panoramica su Nesazio”: la chiesa ed il convento di San Teodoro risalenti al XV secolo, demoliti nel 1873 per dare posto alla caserma austriaca. Finora chiesa e convento erano noti solo da testi scritti, raffigurazioni planimetriche e dai preziosi disegni di Cassau. Entro le mura di San Teodoro è stata individuata la più antica chiesa di Santa Lucia (V-VI) tempio sacro citato da qualche testo specialistico ma mai rappresentato in alcuna topografia. Annesso alle chiese, figura il cimitero con un numero elevato di cripte, con un centinaio di inumati di tutte le età, le cui ossa saranno ora sottoposte ad analisi antropologica. Gioiello del sito è la “domus”, una villa imperiale di lusso, con marmi, affreschi, mosaici costruita negli anni di Marcantonio e Cleopatra, rimasta fiorente ed intatta fino al crollo definitivo dell’impero romano. I signori che l’abitarono? “Gente di rango elitario sicuramente la più alta aristocrazia cittadina che probabilmente è entrata a far parte dell’ambiente senatoriale”, assicura Starac. “Per la prima volta l’indagine archeologica ha portato alla luce le terme pubbliche di Pola antica! Forse le uniche, con 1500 metri quadri di superficie da idroterapia e wellness. Non è raro trovare in antichità anfore usate come materiale da fondamento per le terme ma è rarissimo trovarne a migliaia. Gli unici esempi nell’Impero romano sono Torino, Padova, Cartagine e ora Pola”.
LE CRIPTE. Durante gli scavi archeologici venne accertato che il pavimento della chiesa di San Teodoro non si era conservato. Non furono nemmeno trovate tracce del presbiterio. Invece risultarono ben conservate le cripte sepolcrali con un gran numero di scheletri inumati, la maggior parte con costumi a motivi floreali, con anulari, rosari con piccole medagliette devozionali e crocette. Da fonti di archivio, e dalla datazione di parte dei reperti, si ritiene che appartenevano proprio alle monache del convento tra il XVII e il XVIII sec., menzionate nei registri anagrafici conservati all’Archivio di Stato di Pisino.
MEDAGLIETTE DEVOZIONALI. Le medagliette appartengono al gruppo dei cosiddetti devozionali e servivano (e servono) alla professione di fede nella vita di ogni giorno. Si tratta di ciondoli, per lo più di piccolo formato, di forma circolare, ovale, cordiforme o poligonale. Presentano su ambo i lati raffigurazioni in rilievo, nella maggior parte dei casi si tratta di motivi con le immagini di Gesù, della Madonna, di santi, di apparizioni (immagini miracolose), di oggetti miracolosi (dipinti o sculture sacri) e di santuari meta di pellegrinaggi. Molto spesso sono corredate di scritte in tema. E in prevalenza sono di metallo non pregiato (bronzo, rame, alluminio e simili), solo raramente di argento e d’oro. Si acquisivano in vario modo. Le distribuivano i vescovi, i missionari e o i parroci, ma venivano anche vendute nei santuari cui si recavano in pellegrinaggio, durante le fiere ospitate nei pressi delle chiese e in altre occasioni religiose. “Di solito i fedeli appendevano le medagliette sui rosari”, spiegano gli archeologi, “ma si portavano pure al collo. Tuttavia, non di rado venivano usate anche in parecchi altri modi. In quanto espressione di profonda devozione, neanche alla morte le medagliette venivano separate dalla salma del defunto. Per questo motivo –concludono-, durante gli scavi archeologici in cui si incontrano strati dall’evo moderno, specie in aree cimiteriali, ecclesiastiche e simili, oggetti del genere non mancano”.
Ottomila anni fa l’Adriatico orientale crocevia di popoli: a Udine in mostra per la prima volta insieme il Neolitico di Italia, Slovenia e Croazia
Oggi le sue coste appartengono a tre Paesi diversi, Italia Slovenia e Croazia, ma 8mila anni fa l’Adriatico Orientale apparteneva a un’unica macro area la quale oggi, grazie alle ricerche archeologiche e allo scambio di informazioni tra studiosi, evidenzia notevoli analogie culturali che possiamo toccare con mano nella mostra “Adriatico senza confini: via di comunicazione e crocevia di popoli nel 6000 a.C.” aperta al Castello di Udine fino al 22 febbraio. Quindi ancora poche settimane di tempo per visitare questa importante mostra che raccoglie assieme, per la prima volta in assoluto, i materiali neolitici di tutto l’Adriatico orientale, da Dubrovnik (Ragusa) sino al Friuli, mostrando l’evidenza di una radice culturale comune in un periodo (tra 6000 e 4000 anni prima di Cristo) caratterizzato da grandi trasformazioni culturali ed economiche. Queste trasformazioni a Udine vengono tracciate pe la prima volta in maniera puntuale sia nei tempi che nei modi, grazie alla collaborazione tra gli studiosi di Italia, Slovenia e Croazia. L’obiettivo della mostra è dunque quello di offrire una rilettura complessiva della storia delle comunità neolitiche affacciate sulla costa orientale dell’Adriatico, la quale oggi diventa occasione di incontro e di reciproco arricchimento. “Questi siti geograficamente distanti”, spiegano i curatori, “a una attenta analisi, sono legati da rapporti intensi e ciò che complessivamente emerge è una comune radice culturale, che probabilmente è da ritenersi imprescindibile per aree costiere, più facilmente attraversate dal movimento costante di genti. Un momento di riflessione, quindi, sulle radici culturali del nostro territorio e sull’identità culturale e spirituale dell’Adriatico orientale”. Proprio il taglio di ampio respiro dato alla presentazione delle tematiche trattate e l’uso della multimedialità per la loro comunicazione (interviste, audiovisivi e video artistici), hanno reso particolarmente interessante la mostra che è stata già richiesta dal museo Archeologico di Pola e dall’Università di Firenze.

Conchiglie forate da stratificazioni neolitiche nell’Adriatico orientale: sono esposte alla mostra di Udine
“Adriatico senza confini” approfondisce il Neolitico in Adriatico, periodo caratterizzato da grandi cambiamenti economici, quali l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento, che condussero alla creazione di un nuovo legame tra l’uomo e l’ambiente. “L’uomo diviene un fattore ecologico determinante, capace di lasciare ovunque traccia del suo passaggio”, spiegano gli esperti: “i paesaggi naturali divengono lentamente spazi abitati e coltivati, le comunità umane si radicano nel territorio ed esprimono la loro identità culturale essenzialmente attraverso i materiali, in particolare nell’espressione decorativa dei manufatti ceramici. Ed è in base ai tratti decorativi di questi reperti che è possibile riconoscere ora i contatti tra le comunità e le loro differenze”. L’esposizione è introdotta da una sezione dedicata ai ritrovamenti effettuati dal museo Archeologico di Spalato all’isola di Pelagosa, l’isola più remota dell’Adriatico. “Il ritrovamento di frammenti di ceramica risalenti al 6000 a.C. in quest’isola prova in tutta la sua eccezionalità la pratica della navigazione in un momento storico così remoto”. Navigazione praticata in un mare che seppur piccolo è ancora oggi estremamente insidioso, come racconta il velista Andrea Stella nella video intervista proposta in mostra: difficile e pericoloso ora, figuriamoci allora, quando veniva attraversato con piroghe monossili dotate di stabilizzatori.
La sala introduttiva (sala I) è dedicata al processo di neolitizzazione dell’Adriatico orientale che, come in tutta Europa, vede il diffondersi dell’agricoltura molti millenni dopo la sua origine in Asia occidentale. Capre e pecore compaiono nel 6000 a.C. e così pure, anche se non contemporaneamente, accade per i cereali e l’orzo. A giudicare dall’improvvisa e radicale trasformazione nelle strategie di sussistenza e nel materiale culturale, la migrazione giocò un ruolo decisamente importante in questo cambiamento, anche se tale processo vedrà un’attiva partecipazione dei gruppi indigeni di cacciatori-raccoglitori che ne determineranno le caratteristiche sempre diverse da luogo a luogo. In questo territorio la neolitizzazione è contraddistinta dalla pratica della navigazione: l’isola di Pelagosa (Palagruza) rappresenta infatti il punto centrale e, insieme ad altre isole, un ponte naturale tra il Gargano e la Dalmazia e il ritrovamento, in questo luogo isolato e scarso di risorse, di frammenti di “Ceramica Impressa” risalenti al 6000 a.C. prova in tutta la sua eccezionalità l’esistenza di contatti via mare.
Il percorso continua (sala II) affrontando, attraverso l’evidenza della ceramica, il modello di neolitizzazione di questo territorio. Questo sembra articolarsi in una prima fase rapida e pionieristica, con l’arrivo nell’Adriatico meridionale di piccoli gruppi neolitici e dei loro animali, ed una seconda ondata di colonizzazione più lenta, che raggiunge l’Adriatico centro-settentrionale e dà luogo alla formazione di veri e propri insediamenti. I primi villaggi neolitici all’aperto dell’Adriatico orientale si trovano in Dalmazia dopo il 6000 a.C. (Pokrovnik, Tinj, Smilčić, Vrbica, Crno Vrilo), quindi in Istria verso il 5700 a.C. (Vizula, Kargadur) ed infine in Friuli nel 5600 a.C. (Piancada e Sammardenchia). Nel 5600 a.C. lo stile ceramico delle comunità neolitiche cambia. Alla ceramica decorata ad impressioni succede in Dalmazia uno stile molto più elaborato, articolato e variabile, conosciuto con il nome di Danilo (sala III). Sembra che lo questo stile non abbia avuto origine in un sol luogo, ma si sia diffuso contemporaneamente nell’Adriatico orientale anche se in modo poco omogeneo: scarsamente definito nella Dalmazia meridionale, diverso nella parte settentrionale di questo territorio, dove è stato ribattezzato “Vlaška”. Contatti ad ampio raggio, forse indicatori di scambi marittimi, sono documentati dalla presenza di manufatti in vetro vulcanico, l’ossidiana, la cui provenienza è per lo più riconducibile all’isola di Lipari (Sicilia nord-occidentale).
Nel 5600 a.C. il Friuli vede la comparsa di numerosi piccoli villaggi e conosce episodi di estesa frequentazione. Forme e decorazioni di alcuni reperti ceramici e alcuni elementi dell’industria litica mostrano sia contatti con l’area padana, in particolare con la Cultura di Fiorano, sia con l’Adriatico orientale (sala IV). Lievemente differente la situazione sul Carso triestino, caratterizzato dalla presenza di numerose grotte e rari ripari sottoroccia, utilizzati probabilmente come ricoveri temporanei, quali luoghi di sosta dei pastori e di stabulazione delle loro greggi. I materiali ceramici rappresentano un aspetto impoverito dello stile Danilo dell’Adriatico orientale, noto con il nome di “Gruppo di Vlaška” o dei “Vasi a Coppa” (sala IV).
Il 4900 a.C. è contrassegnato da un altro cambiamento nello stile ceramico, conosciuto sotto il nome di Hvar, che ha contraddistinto in modo diverso l’Adriatico orientale (sala V). Le decorazioni si limitano ora a fasce di motivi geometrici incisi e a volte dipinti e progressivamente i recipienti diventano sempre meno ornati. Lo stile di Hvar deve il suo nome ai materiali archeologici rinvenuti nella grotta Grapčeva sull’isola di Lesina (Hvar) in Dalmazia, ma alcune datazioni al radiocarbonio fanno supporre che questo stile abbia avuto invece origine nel cuore del territorio di Danilo. Forme e decorazioni dei recipienti compaiono anche nelle zone a nord-ovest di questo territorio, spingendosi fino al Friuli Venezia Giulia. Dopo questa fase il Friuli neolitico si rivolgerà all’area padana e al mondo nordalpino. Gli oggetti di culto possono essere considerati la testimonianza di un sistema ormai perduto di comunicazione, sono il riflesso nella cultura materiale di credenze e di ideologie e una forma non verbale di linguaggio. Sebbene sia difficile determinare in modo certo il significato che questi simboli avevano per chi li ha creati, la loro presenza nell’Adriatico orientale testimonia radici culturali comuni (sala VI).
Il progresso delle ricerche, il rinnovato contatto e scambio tra gli studiosi e una distensione dei rapporti politici tra i Paesi, permette ora di disegnare un quadro più accurato, seppur non definitivo, del Neolitico dell’Adriatico orientale. Questo può contare su ricostruzioni paleombientali, paleoeconomiche, cronologiche e naturalmente su una migliore comprensione degli aspetti culturali frutto di recenti scavi. Con successive e sempre più approfondite revisioni si è giunti ad un panorama articolato del Neolitico di questa macro area, che mostra aspetti culturali comuni e tematiche interessanti ancora da sviluppare. La mostra è anche un’opportunità per ammirare e confrontare materiali archeologici così antichi, ma già straordinariamente moderni nelle forme e nelle decorazioni e confrontarsi con una svolta epocale nella storia umana. È infatti in questo momento che l’uomo da cacciatore raccoglitore diviene agricoltore e allevatore e realizza i primi recipienti in terracotta, nel 6000 a.C. primitivi e decorati con il margine delle conchiglie e solo 400 anni dopo finemente ornati da motivi curvilinei, che ricordano le onde del mare.
L’esposizione, che sperimenta per la prima volta l’accessibilità, con soluzioni che favoriscono la visita a persone con disabilità, è bilingue, ma può essere visitata con un operatore didattico anche in inglese, tedesco e sloveno. Anche il catalogo che correda l’esposizione è bilingue e sarà presto affiancato da una guida breve in italiano. Per questo ultimo periodo di apertura sono state organizzate visite guidate tutte le domeniche dalle 11 alle 12. per partecipare è necessario prenotarsi al Servizio Didattico dei Civici Musei di Udine, telefonando entro il venerdì precedente (tel. 0432/414749, lun-mart-giov 9-13 e 14-17, merc-ven 9-13). Il Servizio Didattico organizza anche visite guidate per gruppi di adulti e per scolaresche, per le quali è prevista anche un’offerta laboratoriale. Per informazioni visitate il sito internet dedicato www.udinecultura.it e la pagina Facebook.
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