“Le Passeggiate del Direttore”: col 24.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco fa un approfondimento sulle mummie degli animali, manifestazione animale del dio, deposte come ex voto. E poi parla dell’enoteismo e delle divinità poliadiche
“Le mummie animali e il visir Gemenefherbak” sono il tema affrontato da Christian Greco nel 24.mo appuntamento con le “Passeggiate del direttore”. Un elemento interessante del culto in Antico Egitto è quello delle mummie animali. Esse fanno parte di quel culto che gli egizi rivolgevano agli dei, anzi alla manifestazione che determinati dei potevano avere in forma animale. Esistono diverse tipologie di mummie. In giare di argilla ci sono mummie di un uccello, l’ibis. Ma si trovano anche mummie di serpente, di pesci, di toro, di falco, di babbuino. “Ci sono quindi quasi tutte le tipologie di animali che possono essere messe in connessione con la manifestazione del dio alle quali si poteva dare una mummia. Una mummia come ex voto”, spiega Greco. Perché qual è la funzione delle mummie animali? “Le mummie animali potevano essere preparate come cibo per l’aldilà, e in quel caso hanno un aspetto relativamente diverso. Al museo Egizio di Torino sono conservate mummie preparate come cibo. Gli uccelli, per esempio, vengono spennati, l’oca viene preparata e messa in un contenitore di modo che il defunto possa essere assicurato di cibo nell’aldilà. Ci sono anche i casi, ma sono molto limitati, di animali domestici che venivano poi mummificati e sepolti insieme al proprietario”.
Ma la stragrande maggioranza delle mummie animali sono ex voto: si portava una mummia che aveva le stesse sembianze della manifestazione animale del dio come ex voto perché il dio potesse essere benevolente e potesse dare tutti i favori che il fedele richiedeva. “Ma quando parliamo di dio e di dei nell’antico Egitto, cosa intendiamo?”, si chiede Greco. “È un sistema molto complesso, un sistema che si può definire un sistema politeistico, ma che già studiosi negli anni Ottanta del secolo scorso un sistema enoteistico”. Al museo Egizio di Torino una cartina dell’Egitto con il Nilo mostra una serie di divinità collegate al luogo in cui principalmente erano adorate. Ad Abido, per esempio, è associato il dio Osiride. “Ma Osiride era una divinità nazionale. Certo, però Osiride nasce innanzitutto da una divinità locale che si chiamava Khenti-mentju, il primo degli Occidentali. Tra l’altro Khenti-mentju è anche uno degli epiteti di Osiride. Osiride è il primo degli Occidentali perché Osiride è colui che è morto e poi è resuscitato. I morti si trovano in Occidente perché l’Occidente è il luogo in cui il sole tramonta e comincia a viaggiare nell’aldilà per le 12 ore della notte. Ma allora cosa significa che una divinità è legata a una città? Ritorno al termine enoteismo: possiamo dire che per quanto concerne lo sviluppo cronologico della religione nell’antico Egitto non parliamo di monoteismo, ovvero di dio unico, ma parliamo di enoteismo, di dio 1, cioè in ogni città vi è una particolare divinità che era importante. Quindi ad Abido ad esempio era molto importante Osiride che si riconnetteva al culto tradizionale di Khenti-mentju prima che questa diventasse una divinità nazionale. Ebbene, gli abitanti di Abido pregavano essenzialmente Osiride come una divinità poliadica e a questa divinità facevano convenire tutte le loro richieste”. E continua: “Se consideriamo le varie forme o kheperu che gli dei possono assumere, forme che in greco si chiamano epistaseis, manifestazioni, capiamo un altro concetto fondamentale: le divinità dell’antico Egitto abitavano in Egitto. L’Egitto era la “ta meri”, la terra amata dagli dei. Il prof. Assmann ha detto che mai una religione è stata così immanente come la religione antico-egizia, e che la prima separazione tra gli uomini e gli dei avviene in Grecia quando gli dei vanno ad abitare nell’Olimpo. Allora se il divino pervade completamente il mondo, pervade l’ecumene, il divino si manifesta in vari modi e quindi divino diventa il Nilo con il dio Hapi, diventano divine l’acqua e l’atmosfera con il dio Shu. Tutto in sostanza è divino. Il mondo è abitato dagli dei. Il divino poi si manifesta in vari modi, però stiamo anche attenti che queste kheperu, manifestazioni, a volte sono semplicemente caratteristiche del divino. Vediamo nella barca solare nell’Amduat che il dio sole è accompagnato da Sia ed Heka, ovvero da eloquenza e magia, che sono due caratteri stessi del divino. Allora forse per sintetizzare possiamo dire che tutto il mondo dell’antico Egitto è pervaso dal divino, che l’Egitto aveva davvero una religione assolutamente immanente, ma che al contempo le divinità poliadiche, ovvero le divinità che avevano un certo ruolo all’interno della città, per quella città sono quelle più importanti. Ed ecco quindi che ad Abido Osiride aveva un ruolo particolare, ma come lo aveva Ptah a Menfi, e Amon-Ra a Tebe”.

Il meraviglioso sarcofago in pietra del visir Gemenefherbak conservato al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)
Questo ricollegarsi alle divinità, al ruolo che esse hanno nella vita dell’antico Egitto, ma anche nella vita dopo la morte, lo ritroviamo anche nei sarcofagi. Come nel meraviglioso esemplare in pietra del sarcofago di Gemenefherbak. “È un esempio meraviglioso di uno stile che diventa quasi minimalista. E se leggiamo alcune parole del testo iniziale, ritroviamo l’elemento dell’offerta funeraria che il sovrano e Osiride devono dare. E ritroviamo Osiride che è Khenti-imentet, il primo degli Occidentali, colui che è risorto dal regno dei morti e continua nell’aldilà. Ed è il “necer aa”, il dio grande. Osiride e il sovrano devono fare in modo di dare un’offerta di voce, un’offerta magica, fatta di pane e di birra. Ecco il potere reificante della parola: se si scrivono le offerte di cui il defunto ha bisogno, queste offerte in qualche modo potranno essere garantite al defunto che ci si augura possa navigare, possa arrivare fino ai campi di Iaru, i campi elisi dove potrà continuare a svolgere la sua vita in eterno”.
Alla scoperta del grande fiume, il Nilo, personificato dal dio Hapi: a Jesolo nella mostra “Egitto. Dei, faraoni. uomini” si risale il Nilo incontrando le grandi città di Alessandria, Menfi e Tebe

Il logo della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” che Jesolo ospita dal 26 dicembre 2017 al 15 settembre 2018
“Thalassa! Thalassa!” (“Mare! Mare!”) gridò Senofonte giunto in vista del mar Nero: per i reduci dei diecimila dopo aver perso il loro generale Clearco vedere le sponde del Ponto Eusino significava la fine del loro lungo viaggio verso la meta, l’amata Patria. Dopo aver navigato virtualmente attraverso il Mediterraneo di alcuni millenni fa, incontrando popoli e naviganti che lo solcavano intessendo molti rapporti anche con l’antico Egitto, tema della prima sala della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” aperta fino al 15 settembre 2018, nello Spazio Aquileia di Jesolo: un viaggio nello spazio e nel tempo che ti porta a tu per tu con la grande civiltà del Nilo, ora possiamo parafrasare la famosa esclamazione dell’Anabasi con “Il Nilo! Il Nilo!”. Perché la nostra navigazione è giunta alla meta, il grande fiume, che ci porta direttamente nella terra dei faraoni (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/04/12/jesolo-ve-alla-mostra-egitto-dei-faraoni-uomini-viaggio-nello-spazio-e-nel-tempo-dalla-laguna-veneta-alla-scoperta-della-grande-civilta-del-nilo-attraversando-il-mediterraneo/). Scendiamo virtualmente dalla grande imbarcazione a remi che ci ha permesso di attraversare il Mediterraneo e saliamo su una più agevole barca egizia di giunco e papiro che ci permetterà di venire a contatto con gli antichi egizi. La sala 2 della mostra jesolana, dedicata al grande fiume, presenta pochi reperti, ma ci introduce nell’atmosfera della civiltà – non a caso chiamata – del Nilo.
La mitica fonte del Nilo Il primo contatto con il Nilo ci porta a conoscere un aspetto poco noto. “Gli egizi credevano nell’esistenza di un fiume sotterraneo, un Nilo-Nun, che scorreva nella Amduat, cioè nell’Oltretomba”, interviene l’egittologa Stefania Mimmo. “Si trattava dello stesso Nilo che inondava ogni anno, uscendo dalla sua cavità sotterranea. L’acqua della piena fuoriesce dalla terra, si trova nel mondo sotterraneo e il luogo dove risiede è chiamato Tephet, che si può tradurre con caverna. La credenza che esistesse una caverna dove Hapi (il Nilo) risiedeva non era diffusa né nell’Antico né nel Medio Regno, ma solo a partire dalla XVIII dinastia (Nuovo Regno). La caverna di Nun e Hapi rappresentano insieme l’acqua primordiale dalla quale tutto è stato creato e il rinnovamento annuale di tale creazione”. Ma c’è un altro termine che nei testi antichi si trova collegato a Hapi (il Nilo): è Qerti, che si può tradurre con le due caverne della fonte dalla quale sgorga il Nilo. “Le due fonti – continua Mimmo – che rappresentano le due fonti della piena del Nilo, possono essere considerate come l’espressione mitizzata del carattere della piena del Nilo, buono e terribile al tempo stesso”.
L’Inno al Nilo “Salute a te, o Nilo, che esci da questa terra e vieni a vivificare l’Egitto… che inondi i campi fecondati dal Sole per vivificare tutti gli animali selvatici, che sazi il deserto lontano dall’acqua, giacché è la rugiada di te che scende dal cielo”. Inizia così “L’inno al Nilo” che conferma, se ce ne fosse stato bisogno, l’importanza del grande fiume per l’Egitto. Nell’inno si fa riferimento a Elefantina e all’Alto Egitto attraverso il dio Khnum e la caverna della sorgente, mentre il Medio Egitto è citato con il dio Ptah, l’artigiano divino, originario di Menfi e Ra che risiede a Eliopoli. “L’inno traccia un percorso secondo cui la piena del Nilo è creta da Khnum di Elefantina e attraversa le Due Terre a partire dall’Alto Egitto, nel Basso Egitto, poi torna nuovamente nel mondo sotterraneo presso Kheraha, poco a sud del Cairo, dove c’era un importante luogo di culto. E dove c’era anche un nilometro usato nel Medio Regno per misurare ufficialmente il livello della piena.

Una rappresentazione di fantasia del Faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo antico
Risalendo il Nilo incontriamo le tre grandi città che hanno fatto la storia dell’antico Egitto. La prima che incontriamo è anche la più recente, Alessandria, sul delta occidentale del Nilo, affacciata sul Mediterraneo, dove la volle e fondò Alessandro Magno dopo aver conquistato l’Egitto nel 332 a.C. “In realtà non si trattava di un luogo isolato”, intervengono gli esperti: “nell’entroterra, a poche decine di chilometri, sorgeva la città di Sais, antichissimo centro che in epoca tarda divenne la capitale della XXVI dinastia, periodo in cui i greci si erano stabiliti al vicino porto di Naucrati, che rimase il principale mercato tra greci ed egizi prima della fondazione di Alessandria. Nel III sec. a.C., Alessandria divenne il centro ellenistico più importante del Mediterraneo, politicamente, culturalmente ed economicamente, pur conservando egualmente un’anima egizia. Oggi riconoscere l’Alessandria tolemaica è molto difficile, dopo due millenni di profonde modificazioni. E soprattutto non c’è più il faro, una delle sette meraviglie del mondo antico”.
Dove il Nilo inizia a rallentare la sua corrente prima di aprirsi nel delta, sorse la città di Menfi, molto vicino alla moderna città del Cairo. “Punto di passaggio obbligato delle vie commerciali”, spiegano gli archeologi, “qui fin dal IV millennio a.C. si sono susseguiti gli insediamenti più importanti dell’Egitto, di cui sono rimaste vastissime rovine ma relativamente pochi monumenti. L’abitato comprendeva un importante porto sul Nilo, e aveva come riferimenti verso Est Eliopoli (toponimo greco, “Città del Sole”, che si affianca al toponimo indigeno Iunu, “Città del Pilastro”, perché secondo la tradizione sarebbe stata la prima terra emersa alla creazione), e verso Ovest una corona di piramidi, sepolcro dei faraoni per tutto il terzo millennio. Come si vede tutti simboli solari”. Fu proprio una di queste piramidi, quella di Pepi I (VI dinastia, 2400 a.C.), a imporre successivamente il nome di Menfi (che significa “stabile e perfetta”), inizialmente il nome della piramide. Nei primi secoli del II millennio a.C., durante il Medio Regno, i faraoni della XII dinastia spostarono la capitale più a Sud, a Lisht. I romani fortificarono il loro insediamento nel luogo allora chiamato Babilonia, e oggi Fustat (dal latino fossatum) nome del quartiere bizantino del Cairo.
La terza grande città antica che incontriamo è Tebe, l’odierna Luxor. La Bibbia ricorda Tebe come la “città di Amon”, nota anche come “Eliopoli meridionale” per il binomio Amon-Ra, il dio protettore dei faraoni dal Medio Regno (inizio II millennio a.C.) quando il dio Amon fu accostato al dio Sole Ra. Già nel IV millennio a.C. (predi nastico) erano sorti centri come Nagada a Nord e Ieracompoli a Sud. Ma è con la riunificazione dell’Egitto nel II millennio a.C. che Tebe divenne un centro politico dominante. “La città fu dotata di edifici religiosi di pietra capaci di rivaleggiare con quelli di Menfi ed Eliopoli”, ricordano i curatori della mostra, “e quando gli Hyksos fecero dell’Egitto settentrionale un loro protettorato, Tebe divenne sede della necropoli reale. La celebre Valle dei Re accolse sepolcri monumentali per tutto il Nuovo Regno (dinastie XVIII-XIX-XX) quando fu capitale di un impero dalla Nubia alla Siria. Il clima più arido e la posizione più defilata hanno permesso la conservazione di manufatti in quantità superiore ad ogni altro luogo d’Egitto”.
(2 – continua; precedente post il 12 aprile 2018)
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