Civitavecchia. Alla fondazione Cariciv presentazione del libro “L’Apollo Helios di Civitavecchia. L’immagine del Colosso di Rodi e il Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia” (Antiqua Res edizioni) di Lara Anniboletti, direttore dell’Archeologico di Civitavecchia, che apre la collana dei Quaderni del museo
Mercoledì 15 maggio 2024, alle 17, in sala convegni “Giusi Corrado” della Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia, in via del Risorgimento 8/12 a Civitavecchia, verrà presentato il libro “L’Apollo Helios di Civitavecchia. L’immagine del Colosso di Rodi e il Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia” di Lara Anniboletti, direttore del museo Archeologico nazionale di Civitavecchia. Oltre all’autrice Lara Anniboletti, interverranno Gabriella Sarracco (presidente Fondazione Cariciv), Alessandro Mandolesi (archeologo, soprintendenza speciale ABAP Roma) e Carlo Casi (archeologo e direttore Antiqua Res Edizioni). Il libro, il primo di una serie che costituirà la collana dei Quaderni del museo Archeologico nazionale di Civitavecchia, ha come protagonista la statua dell’Apollo Helios che fa parte della collezione museale, ritenuta essere una copia romana del Colosso di Rodi di Carete di Lindo, una delle sette meraviglie del mondo antico. Il quaderno contiene anche una breve guida al Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia e ai capolavori delle sue collezioni, come una copia di età romana dell’Athena Parthenos di Fidia. Il volume è finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia ed è pubblicato da Antiqua Res Edizioni. Il quaderno si può acquistare al link: https://www.antiquaresedizioni.it/…/112-apollo-helios…

Copertina del libro “L’Apollo Helios di Civitavecchia. L’immagine del Colosso di Rodi e il Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia”
L’Apollo Helios di Civitavecchia. Il Colosso, una delle sette meraviglie del mondo antico, è una delle opere più rappresentative del primo Ellenismo, innalzato dai Rodii a seguito di un terribile assedio del 304 a.C. conclusosi felicemente. L’incarico della statua dedicata al dio del sole Helios, più tardi sintetizzata con Apollo, fu affidato a Carete di Lindo, l’allievo del celebre Lisippo, lo scultore prediletto di Alessandro Magno. Furono proprio le armi lasciate dall’assediante, Demetrio Poliorcete, figlio di Antigono Monoftalmo, e soprattutto i preziosi metalli, il ferro e il bronzo, a permettere ai Rodii di realizzare l’immane colosso bronzeo. Carete, con straordinaria capacità plastica, riuscì ad imprimere nella creazione lo slancio e l’energia di una città che si era da poco liberata da un terribile nemico e innalzava al sole la fiaccola della vittoria. Il Colosso, la cui base poggiava su uno dei moli del porto, cadde dopo circa sessanta anni a causa di un terremoto, privandoci, a dispetto della sua grande fama, della sua reale iconografia: nessuna statua è conservata. Secondo alcune fonti, il Colosso fu rialzato per volontà dell’imperatore Adriano. La copia più completa della statua, alta circa due metri, contro i trenta e più dell’originale, fu realizzata con marmo greco insulare, proprio in epoca adrianea, ed è stata rinvenuta tra i resti della villa marittima del giurista Ulpiano a Santa Marinella, sul litorale a nord di Roma. L’eleganza e la leggerezza di questo capolavoro dell’arte antica, conservato al museo Archeologico nazionale di Civitavecchia, trasmettono oggi, come allora, una profonda emozione. Al museo Archeologico nazionale di Civitavecchia, oltre all’Apollo-Helios è esposta la copia dell’Atena Parthenos capolavoro del V secolo a.C., dell’artista ateniese Fidia. Nella sala dei marmi figurano pregevoli reperti scultorei recuperati dalle numerose ville marittime disposte sul litorale tra Pyrgi e Centumcellae, o che decoravano i monumenti della città di Centumcellae sviluppata in seguito alla realizzazione del porto voluto dall’imperatore Traiano. Una breve guida dell’attuale allestimento del museo, con la sala del Lapidario, il ballatoio in cui trovano spazio i contesti archeologici del territorio limitrofo, le Terme Taurine cui è dedicato un approfondimento e la Sala del santuario etrusco di Punta della Vipera, arricchiscono di contenuti il volume.

L’archeologa Lara Anniboletti, direttore del museo Archeologico nazionale di Civitavecchia (foto drm-lazio)
Lara Anniboletti, archeologa, dirige il museo Archeologico nazionale di Civitavecchia, oltre al museo Archeologico nazionale e alla Necropoli etrusca di Crocifisso del Tufo di Orvieto. Ha fatto parte della segreteria tecnica per l’esecuzione del Grande progetto Pompei, dove ha ricoperto incarichi tecnici di archeologo e responsabile della comunicazione. Tra le sue pubblicazioni, oltre a contributi scientifici, il volume divulgativo “79 Storie su Pompei che nessuno ha mai raccontato”, Roma 2016, L’Erma di Bretschneider, tradotto anche in inglese. Da sempre particolarmente interessata agli aspetti di valorizzazione e comunicazione del patrimonio culturale, il suo slogan è “l’archeologia è una scienza da condire con l’umanità”.
La Vittoria ritrovata: così la Nike di Samotracia torna protagonista al Louvre dopo un lungo restauro raccontato ora in una mostra
È una delle opere più famose conservate al museo del Louvre di Parigi. Di certo una delle più fotografate del grande museo parigino posta com’è maestosa e imponente in quella magnifica posizione strategica e scenografica, in cima alla scalinata Daru, progettata da Hector Lefuel, a collegare la Galerie d’Apollon e il Salon Carré. Stiamo parlando della Nike di Samotracia, statua in marmo pario di quasi due metri e mezzo di altezza, attribuita a Pitocrito, e databile al 200-180 a.C. L’opera venne scolpita a Rodi in epoca ellenistica come probabile offerta al santuario dei Grandi Dei, i Cabiri, per celebrare una vittoria navale. L’ipotesi più comune la riferisce alla vittoria ottenuta dai Rodi nel 190 a.C. nella battaglia di Side sulla flotta fenicia al servizio del re di Siria Antioco III. Ma c’è anche chi ritiene l’opera copia di una scultura di epoca classica, con una datazione più alta, all’inizio del III secolo a.C.: questa datazione si concilierebbe anche con le più antiche attestazioni dell’iconografia di Nike su prua, nella seconda metà del IV secolo a.C., su anfore panatenaiche e su alcuni conii di Alessandro Magno. La Nike di Samotracia, nello specifico, riprodurrebbe fedelmente l’immagine monetale dei conii di Demetrio Poliorcete dei primissimi anni del III secolo a.C.
La Vittoria Alata è da un secolo e mezzo simbolo del Louvre, dove fu esposta dopo il suo ritrovamento nel 1863 nell’isola egea di Samotracia, priva delle braccia e della testa. Ma quella Nike, che oggi fa parte dell’immaginario collettivo, non è sempre stata così. Lo racconta bene la mostra “La Nike di Samotracia. Riscoperta di un capolavoro”, aperta in questi giorni a Louvre, dove si può visitare fino al 13 giugno, mostra che chiude l’ultimo impegnativo restauro, che l’anno scorso ha tenuto il capolavoro rodio lontano dai visitatori per dieci mesi. Per finanziare questo ambizioso progetto, per un importo totale di 4 milioni di euro, il Louvre è riuscito a raccogliere un milione di euro grazie a una campagna di donazioni individuali lanciata alla fine dell’anno scorso su internet e alla quale hanno partecipato 6700 donatori. Tre gli sponsor che hanno sostenuto il progetto per la somma di 3 milioni di euro, completando così il finanziamento: Nippon Television Holdings, F. Marc de Lacharrière (Fimalac) e la Bank of America Merrill Lynch.
Grazie dunque a mecenati e al contributo dei visitatori e amanti del museo si è potuto restituire a una delle più celebri e antiche statue del museo il suo aspetto autentico, o quasi. L’ultimo intervento risaliva al 1934 ma oggi, grazie all’aiuto delle nuove tecnologie, si è potuto utilizzare un rilievo 3D dettagliato dell’opera in modo da avere dei dati di rilievo da utilizzare per future installazioni virtuali della scultura che potranno aiutare gli archeologi nei loro studi, essere elaborati per applicazioni di visita o per esposizioni online o permettere di realizzare copie in miniatura della statua. Grazie a questo restauro si è anche potuto studiare approfonditamente la statua e i risultati sono appunto esposti fino al 13 giugno al museo, in una mostra che ne racconta la storia e le trasformazioni, in cui è stata creata per l’occasione una ricostruzione digitale del santuario. Il pubblico potrà ammirare per la prima volta alcuni frammenti del braccio destro, dell’ala destra e del drappeggio finora nei depositi, oltre a una ciocca di capelli sul collo scomparsa in un precedente restauro. Tra le novità anche le ali, visibili solo a infrarossi.
“Non abbiamo reinventato la Nike di Samotracia, abbiamo solo voluto metterla in valore”, spiega Ludovic Laugier, che ha curato l’ultimo grande restauro del monumento assieme a Marianne Hamiaux. “L’opera non era in pericolo, ma era contaminata da un carico di polvere eccessivo dovuto al gran passaggio di visitatori nel museo. La nuova Nike che dallo scorso luglio è ritornata a dominare la scalinata monumentale Daru è stata solo ripulita, le varie componenti sono state rimontate per collimare insieme con più precisione e analizzate con videomicroscopio, raggi ultravioletti, lastre, ricostruzioni in 3D. I due diversi marmi in cui sono state scolpite la statua e la prua erano così sporchi che non si distinguevano più. Inoltre alcuni frammenti originari sono stati aggiunti qua e là”. Tra le novità la scoperta di alcuni dettagli di colore blu sul mantello e le ali, visibili solo a infrarossi, che fanno pensare che la statua in origine fosse policroma. “Abbiamo poi eliminato il blocco di cemento risalente al restauro del 1933 – continua Laugier – che disconnetteva la statua della nave e che era un mostruosità archeologica. Oggi la statua è tornata a poggiare direttamente sulla prua della nave come nell’antichità”.
Il percorso della mostra “La Nike di Samotracia – Riscoperta di un capolavoro” comincia con la presentazione del Santuario dei Grandi Dei di Samotracia, un’isola del Mar Egeo, dove il viceconsole francese Charles Champoiseau ritrovò nel 1863 i resti della statua – attribuito a Pitocrito, risalente al II secolo a.C., forse un’offerta commemorativa per una vittoria navale – scolpito nel pregiato marmo bianco di Paro, che rappresenta la giovane dea alata mentre si posa sulla prua di una nave da battaglia (in marmo di Rodi, grigio con venature). La statua arrivò al Louvre nel 1864 in un solo blocco di marmo: inizialmente la parte destra del busto e l’ala sinistra non vennero esposti e l’opera appariva come mutilata. La base fu scoperta nel 1879 e aggiunta l’anno successivo. Un altro restauro avvenne tra il 1880 e il 1883: in quell’occasione furono ricostruite in gesso l’ala destra e il seno sinistro e venne creata un’armatura metallica per tenere assieme i frammenti dell’ala sinistra. In un terzo intervento del 1933 viene aggiunto il blocco di cemento tra la statua e la base. “L’obiettivo di questa mostra – conclude Laugier – è far vedere che la Nike è stata restaurata diverse volte, che quando è stata presentata la prima volta al Louvre aveva un aspetto completamente diverso come si può notare dalla ricostruzione in gesso in esposizione. È solo grazie all’ultimo restauro del XIX secolo che assume la sua silhouette emblematica, di una dea alata senza braccia e testa, quella che tutti conoscono e che ne ha determinato il successo”.







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