Milano. Ultimi giorni al Mudec per visitare la mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù. In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca”: viaggio dalle origini all’apoteosi dell’Impero Inca
È un viaggio meraviglioso – dalle origini all’apoteosi dell’Impero Inca – quello che il Mudec propone ai visitatori ancora per una settimana, fino al 19 febbraio 2023, con il grande progetto espositivo “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù. In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca”. Una mostra che attraverso manufatti plurimillenari, video, ricostruzioni immersive 3D e un allestimento per immagini che rende l’idea di un vero e proprio viaggio nel tempo, traghetterà il pubblico indietro nei millenni raccontando la storia di una civiltà tanto gloriosa quanto antica e remota e di cui spesso si conosce solo l’ultimo tassello, quello più recente e universalmente reso famoso dal ritrovamento dei resti della grande città sacra di Machu Picchu. Ma la storia del Perù inizia da molto, molto più lontano.

Il suggestivo ingresso del percorso della mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù” al Mudec (foto mudec)
Il progetto, a cura di Ulla Holmquist direttrice del museo Larco di Lima e dell’archeologa Carole Fraresso, attraversa la storia artistica e la biodiversità andina in tutta la sua ampia dimensione geografica e profondità cronologica, per culminare con un viaggio ideale nella città inca di Machu Picchu. La mostra è promossa dal Comune di Milano-Cultura e realizzata da World Heritage Exhibitions (Cityneon Holdings) e 24 ORE Cultura, in collaborazione con il Governo del Perù e il ministero della Cultura del Perù, l’associazione Inkatera, e grazie alla collaborazione con il museo Larco di Lima, da cui provengono gli oltre 170 manufatti in mostra, opere in terracotta dalla grande espressività e perfezione tecnica, ma anche ori, argenti e tessuti. Una parte del percorso è dedicata all’avventuroso viaggio al fianco del mitico eroe della Cultura moche Ai Apaec attraverso il quale il pubblico scoprirà i misteri della cosmologia andina, muovendosi trasversalmente attraverso i tre piani dell’universo: il sopra, il qui e il sotto. “Machu-Picchu e gli Imperi d’oro del Perù” a Milano è l’esclusiva tappa italiana di un tour internazionale.

Il percorso immersivo della mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù” al Mudec (foto mudec)
Una mostra-racconto. La mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù. In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca” è la narrazione di una storia nella Storia, uno storytelling che si dipana tra video immersivi, ricostruzioni 3D degli ambienti e delle biodiversità e soprattutto manufatti, che prima di essere reperti archeologici furono monili, tessuti e capi d’abbigliamento indossati da uomini e donne che vissero pienamente nel loro mondo e nella loro società, fatta di leggi e costumi, di conoscenze e riti, di simboli e tradizioni, di miti e leggende.

Copricapo frontale con felini e condor in foglia d’oro della Cultura Moche (100 – 800 d.C.), conservato al museo di Lima (foto museo larco)
La mostra racconta al pubblico questo mondo scomparso, eppure ancora così contemporaneo. Il percorso conduce il pubblico all’interno della culla di una delle più grandi civiltà antiche dell’Emisfero Meridionale. Il Perù dell’età antica, eguagliato solo dall‘Antico Egitto – con cui rivaleggia in longevità – e da Roma per il livello tecnico raggiunto, ha accolto nel suo alveo società potenti e sofisticate, che prosperarono per cinquemila anni su un territorio geografico decisamente vario. Il Perù e la sua storia si estendono dalle fertili coste bagnate dalle acque dell’Oceano Pacifico, attraverso il deserto roccioso, fino al gelido altipiano andino (Altiplano Andino), per poi tuffarsi nell’area tropicale del Bacino del Rio delle Amazzoni. Adagiata su una cresta montuosa, avvolta dalla foresta nebulosa e al di sopra della foresta pluviale, la città di Machu Picchu è il simbolo, che tuttora sopravvive, del grande Impero degli Inca, la cui fine improvvisa e violenta avvenne con la Conquista spagnola terminata nel 1572.

Veduta del sito archeologico di Machu Picchu, la città sacra sull’altopiano meridionale, Valle dell’Urubamba, in Perù (foto eduard ermanntraut unsplash)
Machu Picchu. Il percorso della mostra parte proprio da Machu Picchu, raccontando la fine della storia dei grandi regni andini, e inizia con un video immersivo che introduce il lussureggiante paesaggio andino, dove le riprese aeree individuano Machu Picchu, la cittadella di pietra patrimonio culturale e naturale UNESCO, costruita nel 1450 all’apice dell’Impero Inca, e con essa i suoi dintorni straordinari. Invisibile dal basso, Machu Picchu è una fortezza nascosta nella foresta nebulosa, protetta da due montagne sacre gemelle che affondano alla base nella foresta pluviale amazzonica. Centro religioso, osservatorio astronomico e luogo di ingegnosità e produzione agricola, Machu Picchu è un complesso formato da più di 200 strutture in pietra – templi, palazzi, “plazas” (spazi aperti), abitazioni. Protetta dall’invasione spagnola, Machu Picchu venne inglobata dalla foresta pluviale, fino a quando lo storico di Yale Hiram Bingham la rivelò al mondo nel 1911.

Nella mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù” al Mudec gli oggetti sono sono raggruppati secondo il loro significato simbolico (foto mudec)

La maschera funeraria che rappresenta il volto di Ai Apaec (foto mudec)
Leggere gli oggetti. In un ambiente che ricostruisce la foresta pluviale amazzonica, con le sue voci e i suoi colori, la mostra prosegue e aiuta a interpretare, o “leggere”, gli oggetti che incontreremo nell’esposizione. Pur non avendo una lingua scritta, uomini e donne delle società andine rendevano testimonianza delle storie delle collettività cui appartenevano attraverso immagini simboliche visibili sulle pareti dei templi o attraverso sculture di pietra, incisioni lignee, recipienti di ceramica, tessuti e oggetti d’oro e d’argento di incomparabile fattura. Gli oggetti sono raggruppati secondo il loro significato simbolico, ed erano questi i ‘libri’ nei quali venivano documentate le credenze, i rituali, la visione del mondo, le strutture di potere e la vita delle comunità. Vicino all’uscita, un’impressionante maschera funeraria in rame, con artigli di felino fatti di conchiglie e ornamenti per le orecchie a forma di serpente, introduce la figura dell’eroe mitologico, il capo Ai Apaec.

Ciotola in ceramica svasata con rappresentazione di episodi di epica mitologica di Ai Apaec della cultura Moche, conservata al museo di Lima (foto mudec)
Il viaggio eroico di Ai Apaec. Il viaggio dell’eroe mitologico della Cultura Moche Ai Apaec è al centro di questa parte della mostra. Capo di una comunità rurale, Ai Apaec fu capace di imbrigliare le forze della natura e di affrontare una serie di trasformazioni che gli permetteranno di attraversare mondi diversi, fino all’estrema trasformazione, la sua stessa morte. Dopo essere rinato, l’eroe si unirà alla Madre Terra, la Pachamama, assicurando così la continuità dei cicli naturali che procurano sole e pioggia, elementi necessari per la vita. Le immagini proiettate lungo le pareti di questa sezione della mostra danno vita a una vera e propria ‘storia illustrata’, un percorso che racconta al pubblico con l’immediatezza delle immagini non solo la storia di Ai Apaec, ma attraverso le sue gesta eroiche anche i miti e il mondo simbolico che rappresenta il substrato su cui è stato costruito nei secoli l’universo culturale dell’antico Perù, e di cui è fortemente intriso ancora oggi l’immaginario religioso, simbolico e misterico del Perù contemporaneo.

Vasi-bottiglia che rappresentano Ai Apaec a forma di granchio (foto mudec)
Vengono raccontati con il linguaggio delle immagini anche i tre mondi che coesistono simultaneamente nella cosmologia andina: Il Mondo di Sopra; il Mondo del Qui e Ora, o Mondo di Mezzo, il luogo dove le persone vivono e lavorano nelle comunità accanto agli animali, alle piante, ai fiumi e alle montagne, e infine il Mondo Basso, il mondo dell’oceano, il mondo sotterraneo, la terra che sta sotto i nostri piedi, su cui cade la pioggia e dove maturano i semi e la terra degli antenati, ovvero il luogo dove vanno le persone quando muoiono. Gli incontri che fa Ai Apaec e le sue esperienze simboleggiano le sfide del mondo naturale che uomini e donne andini si trovano a fronteggiare nel Qui e Ora. La storia mette in evidenza i cardini della cosmologia andina: come sia necessario dare per ricevere e quanto sia importante onorare gli antenati, ringraziare gli Dei e lavorare, fare sacrifici e offerte per mantenere l’equilibrio dei cicli naturali che rendono possibile la vita.

Coppa del sacrificio cerimoniale nella mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù. In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca” al Mudec (foto mudec)
Rituali: la caccia al cervo e il Sacrificio. Il mondo andino si fonda sulla reciprocità: è necessario dare per ricevere. Affinché i cicli naturali abbiano continuità e si mantenga l’equilibrio tra i tre mondi, si devono compiere rituali, fare sacrifici e portare offerte agli Dei. Un rituale comune era rappresentato dalla caccia al cervo. L’uccisione di questi animali, cui veniva attribuito un grande valore e la cerimonia che ne conseguiva venivano eseguiti unicamente dai membri dell’élite della società, che assumevano il ruolo di predatori canalizzando il potere dei felini. La storia viene narrata con la proiezione di immagini del rituale, che sono state prese da un vaso a staffa, che riveste un’importanza fondamentale. I rituali che si eseguivano nei templi erano strettamente riservati agli sciamani e ai capi delle comunità e venivano compiuti in spazi lontani dalla vista del pubblico. Gli oggetti in esposizione raffigurano musicisti e strumenti musicali. Un ampio tamburo Nazca a forma di sciamano ha dei grandi occhi che indicano uno stato di allucinazione. Un video spiega come, similmente a quanto accadeva in molte culture antiche – come quella azteca, celta, greca e romana, tra le altre – le comunità andine praticassero sacrifici umani. Lungo la mostra ci si muove dentro uno spazio che ricrea l’interno di un tempio, dove i prigionieri venivano preparati per il sacrificio e dove erano collocati gli altari. Nel corso del rituale i guerrieri che erano stati sconfitti venivano legati con corde e, similmente ad Ai Apaec, compivano il sacrificio estremo. Nel momento in cui veniva loro tagliata la gola, essi venivano trasformati in esseri sacri. Il loro sangue – il sangue che dà la vita – veniva raccolto in coppe ed offerto ai sommi sacerdoti, cioè ai rappresentanti degli Dei.

La galleria degli antenati nella mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù. In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca” al Mudec (foto mudec)

Sepoltura imperiale Chimu: regali in oro della Cultura Chimu dal museo Larco di Lima (foto museo larco)
L’incontro con gli antenati. Passando sotto un arco a forma di serpente, si entra in una galleria buia, illuminata da un bagliore radiante. Una sontuosa esposizione di manufatti d’oro, d’argento, di rame e di pietre preziose, culmine di maestria e talento, è collocata sullo sfondo di una lussureggiante foresta pluviale, verde e rigogliosa. È il momento dedicato agli antenati, che si presentano al visitatore nell’abbigliamento col quale furono seppelliti. I signori, le signore, i re, le regine e gli imperatori del mondo andino incarnavano gli Dei. Gli abiti preziosi ed i gioielli che indossavano simboleggiavano ciò che erano su questa terra e quello che potevano diventare dopo la morte. I capi politici e religiosi delle comunità, i governanti, personificavano le forze che rendono possibile la vita in questo luogo di acque gelide, deserti aridi e foreste pluviali tropicali. Essi erano in grado di canalizzare il potere del Sole, della Luna e delle stelle con l’oro e l’argento. I metalli preziosi che indossavano non venivano scelti per il valore monetario, bensì per ciò che rappresentavano per l’intera comunità: l’oro era il sudore del Sole e l’argento le lacrime della Luna. I metalli erano il simbolo dei poteri divini che legittimavano il potere dei governanti. Splendenti come corpi celesti, i capi davano la possibilità alla vita di prosperare per il bene dell’intera comunità. Quando morivano venivano sepolti indossando tutto lo splendore dei metalli e si trasformavano in esseri soprannaturali.

Il sito archeologico di Machu Picchu in Perù (foto tomas sobek unsplash)
Machu Picchu oggi. Al di là della Porta del Sole, un murale di Machu Picchu incombe attraverso la foresta nebulosa. Siamo tornati alla cittadella di pietra degli Inca e siamo rientrati nel ventunesimo secolo. Alcune persone impegnate in un progetto di conservazione, che ha avuto inizio nel 1975, descrivono il loro ruolo e l’impatto della riforestazione in quest’area. Testimonianze video di sciamani e di membri delle comunità andine contemporanee spiegano al pubblico l’importanza e il potere della natura nella vita sulle Ande, il valore del Rito e del suo perpetuarsi nelle celebrazioni e nei cerimoniali, ancora oggi.

La postazione integrata di realtà virtuale a movimento VR visivo e sonoro nella mostra del Mudec (foto mudec)
L’esperienza immersiva. La mostra offre infine l’opportunità di sperimentare – attraverso una sala immersiva a parte rispetto al percorso espositivo – una vera e propria simulazione di volo sopra la città sacra di Machu Picchu che stimolerà i sensi della vista, dell’udito e il senso del movimento attraverso una postazione integrata di realtà virtuale a movimento VR visivo e sonoro. Si potrà così provare la sensazione reale, ‘fisica’ di volare sopra i resti del Monumento Patrimonio Unesco e sopra le montagne sacre e la foresta amazzonica, in compagnia di una guida virtuale che ‘volerà’ con noi raccontando la storia di questo magico sito, accompagnandoci in un vero e proprio viaggio emozionale.
“Il mondo che non c’era” a Palazzo Loredan. Dopo Firenze, Rovereto e Napoli, i capolavori della collezione Ligabue tornano a Venezia: oltre 150 opere raccontano vita, costumi e cosmogonie delle culture Meso e Sudamericane prima di Colombo

Il manifesto della mostra “Il mondo che non c’era. Capolavori della collezione Ligabue” a Venezia dal 12 gennaio al 30 giugno 2018
Prima Firenze, poi Rovereto, quindi Napoli, e ora Venezia: se uniamo con un tratto di penna sembra di seguire lo zigzagare di una nave che cerca di catturare il vento a favore. Un po’ quello che successe più di mezzo millennio fa alle caravelle di Cristoforo Colombo che, sulle vie delle Indie, trovò “il mondo che non c’era”. Quella del 12 ottobre 1492 fu una scoperta epocale, un fatto che scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma – Grecia – Oriente; l’incontro di un nuovo continente che, secondo l’antropologo Claude Lévi-Strauss, è forse l’evento più importante nella storia dell’umanità. La scoperta delle Americhe rappresenta l’incontro di due civiltà che sono parte della medesima umanità. Un’umanità fatta di comunanze e differenze di cui ci si rende ben conto grazie alle opere esposte nella mostra “Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue” che, appunto, dopo il museo Archeologico nazionale di Firenze, Palazzo Alberti Poja a Rovereto, e il museo Archeologico nazionale di Napoli, approda a Venezia, a Palazzo Loredan sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, dal 12 gennaio al 30 giugno 2018, promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue. Oltre 150 opere d’arte che raccontano le tante e diverse civiltà precolombiane che avevano prosperato per migliaia di anni nel continente americano prima dell’incontro con gli Europei: sono le antiche culture della cosiddetta Mesoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador), il territorio di Panama, le Ande (Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fino a Cile e Argentina): dalla cultura Chavin a Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca.

Uno straordinario copricapo e un tessuto della cultura Nazca (200 a.C.) con piume di uccelli amazzonici e corda (collezione Ligabue)
Per i capolavori della collezione Ligabue concludere il tour italiano a Venezia è un ritorno a casa. E non solo perché Ligabue e Venezia rappresentano un binomio indissolubile (Giancarlo Ligabue, scomparso nel 2015, imprenditore ma anche paleontologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore e appassionato collezionista, è sempre stato molto legato alla città Serenissima: e questa mostra è un omaggio alla sua figura da parte del figlio Inti Ligabue, che con la “Fondazione Giancarlo Ligabue” da lui creata continua l’impegno nell’attività culturale, nella ricerca scientifica e nella divulgazione dopo l’esperienza del Centro Studi e Ricerche fondato oltre 40 anni fa dal padre Giancarlo). Ma perché Venezia, pure estranea alla corsa al nuovo Continente, finì in realtà con il “conquistare” quelle terre grazie alla forza del proprio immaginario, al punto che nelle cronache del tempo tante città sull’acqua le furono paragonate o vennero chiamate da esploratori e conquistatori rifacendosi alla città veneta – in particolare la capitale azteca di Tenochtitlan fu spesso definita “un’altra Venezia” e raffigurata accanto ad essa – sarà la Serenissima uno dei principali centri propulsori di quella che potremmo definire come la “scoperta letteraria” delle Americhe. Gli stampatori veneziani furono infatti tra i principali protagonisti della rapida e massiccia diffusione europea delle notizie che giungevano dal Nuovo Mondo (Venezia venne superata solo da Parigi per numero di testi sulle Americhe pubblicati nel Cinquecento) e in alcuni casi i testi veneziani rappresentano le fonti più antiche, essendo andati perduti i relativi manoscritti.

Figura femminile con funzione di sonaglio in ceramica con decorazione policroma. Cultura Maya, 600-800 d.C. (collezione Ligabue)
I capolavori della collezione Ligabue sono il cuore della mostra curata da Jacques Blazy specialista delle arti pre-ispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud. Tra i membri del comitato scientifico anche André Delpuech, Direttore del Musée de l’Homme – Muséum d’Histoire Nationale Naturelle di Parigi e già responsabile delle Collezioni delle Americhe al Musée du quai Branly e l’archeologo peruviano Federico Kauffmann Doig, entrambi anche componenti del comitato scientifico della Fondazione Giancarlo Ligabue. Dalle rarissime maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della Mesoamerica, primo vero centro urbano del Messico Centrale, ai vasi Maya d’epoca classica preziose fonti d’informazione, con le loro decorazioni e iscrizioni, sulla civiltà e la scrittura di questa popolazione; dalle statuette antropomorfe della cultura Olmeca, che tanto affascinarono anche i pittori Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e diversi artisti surrealisti (con la loro evidente deformazione cranica, elaborate acconciature e il corpo appena abbozzato) alle sculture Mezcala tanto enigmatiche nella loro semplicità quanto misteriose nelle origini, al punto che ne restarono profondamente suggestionati divenendone collezionisti anche André Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore. E poi, sempre dal Messico, statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro, il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C. – notevole esemplare in mostra la Grande Venere con la mani congiunte sul ventre – urne cinerarie (dal 200 a.C. al 200 d.C.) della cultura Zapoteca con effige spesso antropomorfa, sculture Azteche, esempi pregevoli delle Veneri ecuadoriane di Valdivia (la prima ceramica prodotta in Sud America nel III millennio a.C.), oggetti Inca, tessuti e vasi della regione di Nazca – manufatti dell’affascinante cultura Moche, straordinari oggetti in oro. Si tratta in realtà di culture che in molta parte devono ancora essere e studiate e comprese: annientate, annichilite e ignorate per lunghi anni dopo la scoperta di quelle terre, da parte dei Conquistatores ammaliati solo dalle ricchezze materiali, autori di stragi e razzie.

Pendente in oro a forma d’aquila con le ali aperte e con collane al collo. Cultura Tairona, 800-1300 d.C. (collezione Ligabue)
L’oro, come quello dei Tairona (puro o in una lega con rame chiamata “tumbaga”) spingerà nelle Ande spagnoli e avventurieri alla ricerca dell’“El Dorado”, uno dei grandi miti che alimentarono la Conquista. In pochi decenni dall’arrivo di Colombo (nessuno degli oggetti da lui riportati si è conservato) le culture degli Aztechi e degli Inca saranno schiacciate con le armi e con la schiavitù e quella dei Taino praticamente annientata: già verso il 1530, secondo gli storici, non esisteva più un solo Taino vivente. Milioni di indio moriranno anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti di queste culture.
Un giaguaro Moche ospite della 25. Rassegna internazionale del Cinema archeologico: è stato prestato dalla Fondazione Sergio Poggianella
La Rassegna internazionale del Cinema archeologico di Rovereto (7-11 ottobre) ha accolto un ospite inatteso: un giaguaro del Perù. Ma il pubblico è al sicuro! Si tratta di un vaso rituale zoomorfo, trasferito al foyer dell’auditorium Melotti (sede principale della Rassegna) dalla Fondazione Sergio Poggianella (Fsp), e lì vi rimarrà per tutta la durata della Rassegna: è uno splendido oggetto di cultura Mochica – la più raffinata e avanzata cultura pre-Inca – risalente al Periodo Intermedio Antico peruviano (100 a.C. – 550 d.C.). La FSP si è costituita a Rovereto, in Trentino, il 26 marzo 2013, senza scopo di lucro, per iniziativa del suo attuale presidente, Sergio Poggianella, che ha voluto creare una struttura in grado di gestire la conservazione e la valorizzazione di circa tremila tra opere d’arte e manufatti, collezionati dal fondatore nel corso della carriera di gallerista e curatore di mostre, e in occasione dei viaggi nei Paesi extraeuropei, e dallo stesso conferiti alla FSP. Del patrimonio della FPS fanno parte anche la biblioteca specialistica con quattromila volumi di scienze antropologiche e di arte moderna e contemporanea, l’archivio personale, le raccolte di fotografie e i documentari di viaggio che confluiranno in una mediateca on line.
Le collezioni della FSP consistono in una raccolta di 3000 opere d’arte e manufatti provenienti dai Paesi extraeuropei. Esse sono l’espressione degli interessi che Sergio Poggianella ha maturato nel corso dei quarant’anni di attività professionale, il segno e il senso delle ricerche e degli studi etno-antropologici intrapresi, la traccia dei viaggi compiuti e degli incontri casuali che si sono trasformati in sincere amicizie e solide collaborazioni. Le collezioni vengono incrementate attraverso nuove acquisizioni, donazioni e depositi. Tra queste c’è anche il giaguaro Moche in mostra alla Rassegna di Rovereto.
L’opera, molto ben eseguita, raffigura un felino (identificato come giaguaro) sdraiato su un fianco con la testa eretta: un’iconografia tipica ma qui riprodotta in una dimensione considerevole, particolare che, secondo gli esperti, la renderebbe “assolutamente rara nel panorama della coroplastica peruviana che di norma ha prodotto oggetti di più piccole dimensioni”. Un esemplare simile (differisce per la più comune foggia “a bottiglia” con ansa a staffa e per le dimensioni ridotte, 19 x 21) si trova al Museo Cileno di Arte Precolombiana (Chile, Santiago).
Arroccata sulla costa settentrionale del Perù, la cultura Moche si è sviluppata tra il Pacifico e le Ande, nelle valli di Lambayeque, Chicama, Moche e Viru: una regione caratterizzata dalla presenza del deserto. Era una società organizzata in classi e molto gerarchizzata, dedita all’agricoltura (le loro tecniche di irrigazione erano tali da garantire la sopravvivenza di grandi coltivazioni anche nell’area desertica) e alla pesca, alla metallurgia (producevano leghe dalle più rozze alle più pregiate per utensili, armi e gioielli) e all’arte. La cultura Moche è rinomata per i tesori delle tombe di Sipan e, soprattutto, per la sua produzione di ceramiche, immediatamente riconoscibili per qualità e per l’aspetto liscio e lucido.
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