“Le Passeggiate del Direttore”: col 24.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco fa un approfondimento sulle mummie degli animali, manifestazione animale del dio, deposte come ex voto. E poi parla dell’enoteismo e delle divinità poliadiche
“Le mummie animali e il visir Gemenefherbak” sono il tema affrontato da Christian Greco nel 24.mo appuntamento con le “Passeggiate del direttore”. Un elemento interessante del culto in Antico Egitto è quello delle mummie animali. Esse fanno parte di quel culto che gli egizi rivolgevano agli dei, anzi alla manifestazione che determinati dei potevano avere in forma animale. Esistono diverse tipologie di mummie. In giare di argilla ci sono mummie di un uccello, l’ibis. Ma si trovano anche mummie di serpente, di pesci, di toro, di falco, di babbuino. “Ci sono quindi quasi tutte le tipologie di animali che possono essere messe in connessione con la manifestazione del dio alle quali si poteva dare una mummia. Una mummia come ex voto”, spiega Greco. Perché qual è la funzione delle mummie animali? “Le mummie animali potevano essere preparate come cibo per l’aldilà, e in quel caso hanno un aspetto relativamente diverso. Al museo Egizio di Torino sono conservate mummie preparate come cibo. Gli uccelli, per esempio, vengono spennati, l’oca viene preparata e messa in un contenitore di modo che il defunto possa essere assicurato di cibo nell’aldilà. Ci sono anche i casi, ma sono molto limitati, di animali domestici che venivano poi mummificati e sepolti insieme al proprietario”.
Ma la stragrande maggioranza delle mummie animali sono ex voto: si portava una mummia che aveva le stesse sembianze della manifestazione animale del dio come ex voto perché il dio potesse essere benevolente e potesse dare tutti i favori che il fedele richiedeva. “Ma quando parliamo di dio e di dei nell’antico Egitto, cosa intendiamo?”, si chiede Greco. “È un sistema molto complesso, un sistema che si può definire un sistema politeistico, ma che già studiosi negli anni Ottanta del secolo scorso un sistema enoteistico”. Al museo Egizio di Torino una cartina dell’Egitto con il Nilo mostra una serie di divinità collegate al luogo in cui principalmente erano adorate. Ad Abido, per esempio, è associato il dio Osiride. “Ma Osiride era una divinità nazionale. Certo, però Osiride nasce innanzitutto da una divinità locale che si chiamava Khenti-mentju, il primo degli Occidentali. Tra l’altro Khenti-mentju è anche uno degli epiteti di Osiride. Osiride è il primo degli Occidentali perché Osiride è colui che è morto e poi è resuscitato. I morti si trovano in Occidente perché l’Occidente è il luogo in cui il sole tramonta e comincia a viaggiare nell’aldilà per le 12 ore della notte. Ma allora cosa significa che una divinità è legata a una città? Ritorno al termine enoteismo: possiamo dire che per quanto concerne lo sviluppo cronologico della religione nell’antico Egitto non parliamo di monoteismo, ovvero di dio unico, ma parliamo di enoteismo, di dio 1, cioè in ogni città vi è una particolare divinità che era importante. Quindi ad Abido ad esempio era molto importante Osiride che si riconnetteva al culto tradizionale di Khenti-mentju prima che questa diventasse una divinità nazionale. Ebbene, gli abitanti di Abido pregavano essenzialmente Osiride come una divinità poliadica e a questa divinità facevano convenire tutte le loro richieste”. E continua: “Se consideriamo le varie forme o kheperu che gli dei possono assumere, forme che in greco si chiamano epistaseis, manifestazioni, capiamo un altro concetto fondamentale: le divinità dell’antico Egitto abitavano in Egitto. L’Egitto era la “ta meri”, la terra amata dagli dei. Il prof. Assmann ha detto che mai una religione è stata così immanente come la religione antico-egizia, e che la prima separazione tra gli uomini e gli dei avviene in Grecia quando gli dei vanno ad abitare nell’Olimpo. Allora se il divino pervade completamente il mondo, pervade l’ecumene, il divino si manifesta in vari modi e quindi divino diventa il Nilo con il dio Hapi, diventano divine l’acqua e l’atmosfera con il dio Shu. Tutto in sostanza è divino. Il mondo è abitato dagli dei. Il divino poi si manifesta in vari modi, però stiamo anche attenti che queste kheperu, manifestazioni, a volte sono semplicemente caratteristiche del divino. Vediamo nella barca solare nell’Amduat che il dio sole è accompagnato da Sia ed Heka, ovvero da eloquenza e magia, che sono due caratteri stessi del divino. Allora forse per sintetizzare possiamo dire che tutto il mondo dell’antico Egitto è pervaso dal divino, che l’Egitto aveva davvero una religione assolutamente immanente, ma che al contempo le divinità poliadiche, ovvero le divinità che avevano un certo ruolo all’interno della città, per quella città sono quelle più importanti. Ed ecco quindi che ad Abido Osiride aveva un ruolo particolare, ma come lo aveva Ptah a Menfi, e Amon-Ra a Tebe”.

Il meraviglioso sarcofago in pietra del visir Gemenefherbak conservato al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)
Questo ricollegarsi alle divinità, al ruolo che esse hanno nella vita dell’antico Egitto, ma anche nella vita dopo la morte, lo ritroviamo anche nei sarcofagi. Come nel meraviglioso esemplare in pietra del sarcofago di Gemenefherbak. “È un esempio meraviglioso di uno stile che diventa quasi minimalista. E se leggiamo alcune parole del testo iniziale, ritroviamo l’elemento dell’offerta funeraria che il sovrano e Osiride devono dare. E ritroviamo Osiride che è Khenti-imentet, il primo degli Occidentali, colui che è risorto dal regno dei morti e continua nell’aldilà. Ed è il “necer aa”, il dio grande. Osiride e il sovrano devono fare in modo di dare un’offerta di voce, un’offerta magica, fatta di pane e di birra. Ecco il potere reificante della parola: se si scrivono le offerte di cui il defunto ha bisogno, queste offerte in qualche modo potranno essere garantite al defunto che ci si augura possa navigare, possa arrivare fino ai campi di Iaru, i campi elisi dove potrà continuare a svolgere la sua vita in eterno”.
#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 19.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco ci fa conoscere l’Amduat, il viaggio notturno del sole col papiro dell’Amduat e i testi sul sarcofago dello scriba Butehamon
Il 19.mo appuntamento con le “Passeggiate con il direttore” è il secondo dedicato al Terzo Periodo Intermedio. Il direttore Christian Greco illustra “L’Amduat, il viaggio notturno del Dio Sole” ancora attraverso il magnifico sarcofago dello scriba Butehamon. L’Amduat è un testo che comincia a trovarsi decorato nelle pareti dei sovrani del Nuovo Regno nella Valle dei Re. E per tutto il Nuovo Regno questo testo riguarderà solo i sovrani. A partire dal Terzo Periodo Intermedio invece lo cominciamo a trovare nei papiri, lo cominciamo a trovare degli excerpta usati nei sarcofagi perché l’unità salda politica del Paese viene meno e quindi anche i privati possono ambire a avere degli excerpta di questo testo. Cosa ci racconta? “Ci racconta il periplo solare del sole durante la notte quando il sole tramonta a Occidente”, spiega Greco. “Gli egizi credevano che il sole viaggiasse per dodici ore nelle profondità della terra per poi risorgere di nuovo ad Oriente al mattino. E questo viaggio non era un viaggio che potesse lasciare il sovrano e il mondo indifferenti perché ogni notte vi era una lotta cosmica tra il dio Sole e Apophis, tra il bene e il male. Apophis tentava di impedire che il dio Sole potesse risorgere. Se questo avesse avuto seguito la vita nella terra sarebbe venuta a finire. Ed ecco quindi in questo papiro che ci narra il viaggio del dio Sole durante la notte, vediamo che il viaggio è scandito da delle pause, ci sono dodici ore nella notte. Ed è anche rappresentato in tre registri diversi. Nel registro principale si vede la barca del dio Sole. Qui il dio Sole si trova con la sua fattezza a testa di ariete, quindi il dio Sole criocefalo, contenuto all’interno del serpente Mehen, che è un serpente protettivo. E il dio Sole è accompagnato da altre persone di equipaggio all’interno della barca. Il suo viaggio continua finché alla fine del viaggio, al mattino, il dio Sole che adesso non ha più la testa di ariete ma ha la forma di scarabeo, arriva all’orizzonte orientale e tramite Shu il disco solare viene spinto sulla terra e il dio resuscita. Ecco quindi che la vita sulla terra può andare avanti ed ecco anche che avviene una separazione tra il dio Sole che torna sulla terra e Osiride che invece rimane nell’aldilà, dopo che durante le ore della notte Osiride e il dio Sole sono stati unificati, sono stati “necer aa”, dio grande”.

La parte posteriore del coperchio del sarcofago interno di Butehamon al museo Egizio di Torino con il testo dell’Amduat in ieratico (foto museo Egizio)
L’Amduat lo troviamo anche nei sarcofagi. Un esempio è il sarcofago di Butehamon. “La parte posteriore del coperchio del sarcofago interno e la cosiddetta copertura di mummia sono iscritti da un testo in ieratico, una forma corsiva di scrittura. E questo è il cosiddetto Libro delle Respirazioni e attiene ovviamente al rituale dell’apertura della bocca, che era il momento in cui prima che il defunto fosse messo all’interno della tomba, il sarcofago veniva messo in posizione verticale e veniva chiamato un sacerdote sem, che utilizzando uno strumento nelle sue mani, perpetrava questo rituale dell’apertura della bocca in modo che il defunto potesse tornare a respirare, a vivere, a fruire delle offerte nell’aldilà. Quindi l’Amduat adesso non è più rappresentato in una parete e quindi viene traslato all’interno del coperchio di modo che il defunto abbia tutte quelle informazioni di cui ha bisogno. Per quanto concerne la storia del nostro museo – ricorda Greco -, questo testo ha anche un’importanza fondamentale. Fu oggetto della tesi dottorale di Ernesto Schiaparelli quando andò a studiare a Parigi sotto la guisa di Gaston Maspero, che era segretario generale del Service des Antiquités, ed è colui che poi diede le concessioni di scavo a Ernesto Schiaparelli. Ebbene quando Schiaparelli va a perfezionare le sue conoscenze da egittologo a Parigi nel 1880, studia il Libro dell’Apertura della Bocca e pubblica questo testo che rimane un libro fondamentale per molti anni fino alla pubblicazione di Eberhard Otto”.
#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 18.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, con la Galleria dei Sarcofagi ci porta nel Terzo Periodo Intermedio illustrando il magnifico sarcofago dello scriba Butehamon
Il 18.mo appuntamento con le “Passeggiate con il direttore” è il primo dedicato al Terzo Periodo Intermedio. Il direttore Christian Greco illustra il magnifico sarcofago dello scriba Butehamon che si trova all’inizio della Galleria dei Sarcofagi, ma che forse – precisa Greco – “andrebbe meglio definita come Galleria del Terzo Periodo Intermedio che ci fa capire cosa avviene alla fine del Nuovo Regno, all’epoca di Ramses XI”. Butehamon. è lo scriba della necropoli e probabilmente è lui ad abbandonare il villaggio di Deir el Medina e andare a vivere a Medinet Habu.
“Osservando il sarcofago di Butehamon”, spiega Greco, “colpiscono subito degli elementi di differenza rispetto ai sarcofagi visti in precedenza. Qui c’è un esplodere di colori e di decorazioni. Sembra quasi che ci sia un horror vacui, che ogni centimetro quadrato del coperchio sia coperto dalla decorazione. Perché? In questo momento non si costruiscono più tombe con decorazioni parietali come avevamo conosciuto nel Nuovo Regno. La crisi economica e politica dell’Egitto spinge quindi a cambiare il culto. Però tutti quei testi che decoravano le pareti sono fondamentali perché permettono la trasfigurazione del defunto, permettono al defunto di accedere alla vita dell’aldilà e allora vengono trasferiti nel sarcofago. Così il sarcofago sopperisce alla mancanza di decorazione della tomba e ne acquisisce tutti gli elementi”.
Questo sarcofago ci introduce in quella tipologia dei “sarcofagi gialli”. Il termine è evidente e si vedrà bene con i sarcofagi di Tabakenkhonsu e di Khonsumes: questo colore giallo predominante va a sostituire l’oro che non viene più utilizzato. Il colore è ottenuto grazie all’orpimento, un pigmento a base di arsenico che dà appunto questa colorazione molto forte. “Osserviamo alcuni elementi: si vede che il coperchio esterno del sarcofago di Butehamon presenta nella parte superiore un collare wsekh sui cui lati c’è la testa di falco e di Horus; ha le braccia incrociate sul petto, con le mani chiuse a pugno, elemento tipico per definire il fatto che questo è un sarcofago di un uomo e non di una donna. Vedremo poi che le donne presentavano i sarcofagi con due mani distese. E poi al centro vi è un elemento importantissimo: la solarizzazione, il culto del dio Sole. C’è il simbolo dell’orizzonte con il disco solare sopra, e sotto vediamo il dio nella sua forma mattutina, nella sua forma di scarabeo khepri che spinge il disco solare. E poi la dea del cielo Nut che divide quasi in due il sarcofago.
“La cassa presenta elementi importantissimi legati al culto, legati proprio al fatto che il sarcofago sia un cosmogramma, che raccolga in sé in nuce tutti gli elementi fondamentali per la resurrezione del defunto. Ad esempio, su un lato, c’è una divinità maschile verde stesa, che è il dio Geb, la terra. Al di sopra, a fare quasi una volta, è la divinità femminile Nut, che è il cielo, sostenuta da Shu, dio dell’aria e dell’atmosfera. Bene questo è anche l’inizio di quella che noi potremmo chiamare teo-genesi ma anche antropogenesi. Non è solo la creazione degli dei ma anche la creazione degli uomini. Dall’unione del cielo e della terra, di Nut e Geb, nasceranno quattro divinità Iside, Nefti, Osiride e Seth, che rappresentano anche la lotta manichea tra il bene e il male. Osiride che entra poi in contrasto con Seth. Osiride è il primo sovrano dell’Egitto che viene combattuto e ucciso da Seth. Il bene però sappiamo vincerà perché Osiride, nonostante venga ucciso dal fratello, potrà poi resuscitare grazie all’opera di Iside e Nefti e diventare il sovrano dell’oltretomba. Qui in nuce quindi è rappresentato l’inizio di tutto, l’inizio della creazione degli dei, l’inizio della creazione del mondo. Il sarcofago però ci fa vedere dall’altra parte anche un qualcosa di estremamente interessante. Ci fa entrare, per quando gli umani lo possano fare, nel mondo dell’oltretomba. La campitura bianca a un certo punto si squarcia e dove il bianco non fa più da sottofondo vi sono delle scale che scendono nell’oltretomba. Questa è la Duat, l’oltretomba. Quindi possiamo aver uno sguardo nella Duat, nell’oltretomba, in quello che avverrà nell’aldilà. Ovviamente Osiride è ben presente e lo vediamo sul fondo della cassa con la rappresentazione del cosiddetto pilastro djed, che qui è quasi personificato perché ai lati le braccia del dio tengono in mano lo scettro e il flagello. I due occhi udjat e la corona atef sono sopra il pilastro djed. Il pilastro djed è esso stesso una rappresentazione di Osiride, rappresenta la sua colonna vertebrale. Quindi ancora una volta il sarcofago è il segno dell’unità solare osiriaca, di quello che l’Amduat, ovvero testo cosmografico dell’oltretomba che ci racconta del periplo solare nell’aldilà”.
Alla scoperta del grande fiume, il Nilo, personificato dal dio Hapi: a Jesolo nella mostra “Egitto. Dei, faraoni. uomini” si risale il Nilo incontrando le grandi città di Alessandria, Menfi e Tebe

Il logo della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” che Jesolo ospita dal 26 dicembre 2017 al 15 settembre 2018
“Thalassa! Thalassa!” (“Mare! Mare!”) gridò Senofonte giunto in vista del mar Nero: per i reduci dei diecimila dopo aver perso il loro generale Clearco vedere le sponde del Ponto Eusino significava la fine del loro lungo viaggio verso la meta, l’amata Patria. Dopo aver navigato virtualmente attraverso il Mediterraneo di alcuni millenni fa, incontrando popoli e naviganti che lo solcavano intessendo molti rapporti anche con l’antico Egitto, tema della prima sala della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” aperta fino al 15 settembre 2018, nello Spazio Aquileia di Jesolo: un viaggio nello spazio e nel tempo che ti porta a tu per tu con la grande civiltà del Nilo, ora possiamo parafrasare la famosa esclamazione dell’Anabasi con “Il Nilo! Il Nilo!”. Perché la nostra navigazione è giunta alla meta, il grande fiume, che ci porta direttamente nella terra dei faraoni (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/04/12/jesolo-ve-alla-mostra-egitto-dei-faraoni-uomini-viaggio-nello-spazio-e-nel-tempo-dalla-laguna-veneta-alla-scoperta-della-grande-civilta-del-nilo-attraversando-il-mediterraneo/). Scendiamo virtualmente dalla grande imbarcazione a remi che ci ha permesso di attraversare il Mediterraneo e saliamo su una più agevole barca egizia di giunco e papiro che ci permetterà di venire a contatto con gli antichi egizi. La sala 2 della mostra jesolana, dedicata al grande fiume, presenta pochi reperti, ma ci introduce nell’atmosfera della civiltà – non a caso chiamata – del Nilo.
La mitica fonte del Nilo Il primo contatto con il Nilo ci porta a conoscere un aspetto poco noto. “Gli egizi credevano nell’esistenza di un fiume sotterraneo, un Nilo-Nun, che scorreva nella Amduat, cioè nell’Oltretomba”, interviene l’egittologa Stefania Mimmo. “Si trattava dello stesso Nilo che inondava ogni anno, uscendo dalla sua cavità sotterranea. L’acqua della piena fuoriesce dalla terra, si trova nel mondo sotterraneo e il luogo dove risiede è chiamato Tephet, che si può tradurre con caverna. La credenza che esistesse una caverna dove Hapi (il Nilo) risiedeva non era diffusa né nell’Antico né nel Medio Regno, ma solo a partire dalla XVIII dinastia (Nuovo Regno). La caverna di Nun e Hapi rappresentano insieme l’acqua primordiale dalla quale tutto è stato creato e il rinnovamento annuale di tale creazione”. Ma c’è un altro termine che nei testi antichi si trova collegato a Hapi (il Nilo): è Qerti, che si può tradurre con le due caverne della fonte dalla quale sgorga il Nilo. “Le due fonti – continua Mimmo – che rappresentano le due fonti della piena del Nilo, possono essere considerate come l’espressione mitizzata del carattere della piena del Nilo, buono e terribile al tempo stesso”.
L’Inno al Nilo “Salute a te, o Nilo, che esci da questa terra e vieni a vivificare l’Egitto… che inondi i campi fecondati dal Sole per vivificare tutti gli animali selvatici, che sazi il deserto lontano dall’acqua, giacché è la rugiada di te che scende dal cielo”. Inizia così “L’inno al Nilo” che conferma, se ce ne fosse stato bisogno, l’importanza del grande fiume per l’Egitto. Nell’inno si fa riferimento a Elefantina e all’Alto Egitto attraverso il dio Khnum e la caverna della sorgente, mentre il Medio Egitto è citato con il dio Ptah, l’artigiano divino, originario di Menfi e Ra che risiede a Eliopoli. “L’inno traccia un percorso secondo cui la piena del Nilo è creta da Khnum di Elefantina e attraversa le Due Terre a partire dall’Alto Egitto, nel Basso Egitto, poi torna nuovamente nel mondo sotterraneo presso Kheraha, poco a sud del Cairo, dove c’era un importante luogo di culto. E dove c’era anche un nilometro usato nel Medio Regno per misurare ufficialmente il livello della piena.

Una rappresentazione di fantasia del Faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo antico
Risalendo il Nilo incontriamo le tre grandi città che hanno fatto la storia dell’antico Egitto. La prima che incontriamo è anche la più recente, Alessandria, sul delta occidentale del Nilo, affacciata sul Mediterraneo, dove la volle e fondò Alessandro Magno dopo aver conquistato l’Egitto nel 332 a.C. “In realtà non si trattava di un luogo isolato”, intervengono gli esperti: “nell’entroterra, a poche decine di chilometri, sorgeva la città di Sais, antichissimo centro che in epoca tarda divenne la capitale della XXVI dinastia, periodo in cui i greci si erano stabiliti al vicino porto di Naucrati, che rimase il principale mercato tra greci ed egizi prima della fondazione di Alessandria. Nel III sec. a.C., Alessandria divenne il centro ellenistico più importante del Mediterraneo, politicamente, culturalmente ed economicamente, pur conservando egualmente un’anima egizia. Oggi riconoscere l’Alessandria tolemaica è molto difficile, dopo due millenni di profonde modificazioni. E soprattutto non c’è più il faro, una delle sette meraviglie del mondo antico”.
Dove il Nilo inizia a rallentare la sua corrente prima di aprirsi nel delta, sorse la città di Menfi, molto vicino alla moderna città del Cairo. “Punto di passaggio obbligato delle vie commerciali”, spiegano gli archeologi, “qui fin dal IV millennio a.C. si sono susseguiti gli insediamenti più importanti dell’Egitto, di cui sono rimaste vastissime rovine ma relativamente pochi monumenti. L’abitato comprendeva un importante porto sul Nilo, e aveva come riferimenti verso Est Eliopoli (toponimo greco, “Città del Sole”, che si affianca al toponimo indigeno Iunu, “Città del Pilastro”, perché secondo la tradizione sarebbe stata la prima terra emersa alla creazione), e verso Ovest una corona di piramidi, sepolcro dei faraoni per tutto il terzo millennio. Come si vede tutti simboli solari”. Fu proprio una di queste piramidi, quella di Pepi I (VI dinastia, 2400 a.C.), a imporre successivamente il nome di Menfi (che significa “stabile e perfetta”), inizialmente il nome della piramide. Nei primi secoli del II millennio a.C., durante il Medio Regno, i faraoni della XII dinastia spostarono la capitale più a Sud, a Lisht. I romani fortificarono il loro insediamento nel luogo allora chiamato Babilonia, e oggi Fustat (dal latino fossatum) nome del quartiere bizantino del Cairo.
La terza grande città antica che incontriamo è Tebe, l’odierna Luxor. La Bibbia ricorda Tebe come la “città di Amon”, nota anche come “Eliopoli meridionale” per il binomio Amon-Ra, il dio protettore dei faraoni dal Medio Regno (inizio II millennio a.C.) quando il dio Amon fu accostato al dio Sole Ra. Già nel IV millennio a.C. (predi nastico) erano sorti centri come Nagada a Nord e Ieracompoli a Sud. Ma è con la riunificazione dell’Egitto nel II millennio a.C. che Tebe divenne un centro politico dominante. “La città fu dotata di edifici religiosi di pietra capaci di rivaleggiare con quelli di Menfi ed Eliopoli”, ricordano i curatori della mostra, “e quando gli Hyksos fecero dell’Egitto settentrionale un loro protettorato, Tebe divenne sede della necropoli reale. La celebre Valle dei Re accolse sepolcri monumentali per tutto il Nuovo Regno (dinastie XVIII-XIX-XX) quando fu capitale di un impero dalla Nubia alla Siria. Il clima più arido e la posizione più defilata hanno permesso la conservazione di manufatti in quantità superiore ad ogni altro luogo d’Egitto”.
(2 – continua; precedente post il 12 aprile 2018)
“Nefertari e la Valle delle Regine. Dal museo Egizio di Torino”: all’Ermitage in mostra i capolavori conservati nella città sabauda parte delle ricche collezioni Drovetti e Schiaparelli

La regina Nefertari, grande sposa reale di Ramses II, ritratta nella sua tomba scoperta nel 1904 da Schiaparelli

Il curatore Mikhail Borisovich Piotrovsky, lo sponsor Francesca Lavazza, e il direttore dell’Egizio Christian Greco
La regina Nefertari col suo ricco corredo ha lasciato la sua “casa”, il museo Egizio di Torino, per approdare – fino al 10 gennaio 2018 – nella prestigioso palazzo del museo dell’Ermitage a San Pietroburgo, grazie al protocollo firmato tra la fondazione Ermitage Italia e la fondazione museo Egizio di Torino con la mediazione di Villaggio Globale International e il supporto fondamentale della società Lavazza che, nella persona di Francesca Lavazza, ha permesso l’arrivo dei preziosi reperti nella capitale culturale russa. La mostra “Nefertari e la Valle delle Regine. Dal Museo Egizio di Torino”, curata da Andrei Olegovich Bol’sakov, responsabile del settore Antico Oriente nel dipartimento d’Oriente dell’Ermitage, e da Andrei Nikolayevich Nikolayev, vice capo del dipartimento d’Oriente, presenta i reperti provenienti dalla valle delle Regine nell’antica Tebe e acquisiti dagli scavi di Drovetti e Schiaparelli, e dove la regina Nefertari, della quale proprio Schiaparelli scoprì la sua tomba monumentale nel 1904, rappresenta la protagonista assoluta. È noto, infatti, che il nucleo principale del museo Egizio di Torino, il più importante al mondo dopo il museo Egizio del Cairo, è il risultato di due eventi: il primo, l’acquisizione nel 1824 da parte di Carlo Felice, Duca di Savoia e Re di Sardegna, della collezione di Bernardino Michele Maria Drovetti, diplomatico italiano al servizio della Francia, che ha portato a Torino gli oggetti più grandi (statue e sarcofagi), insieme a un gran numero di stele, corredi funerari e una ricchissima gamma di papiri, principalmente dalla regione di Tebe. Il secondo, gli scavi condotti dal grande egittologo Ernesto Schiaparelli, direttore dell’Egizio di Torino dal 1894 al 1928, anno della sua morte. Nel 1903 Schiaparelli inaugurò l’attività della Missione Archeologica Italiana in Egitto, portando a termine una quindicina di fruttuose campagne di scavi, tra le quali spiccano per importanza e notorietà la scoperta nel 1904 della splendida tomba di Nefertari, grande sposa reale di Ramses II e una delle regine più influenti dell’Antico Egitto, considerata tra le tombe più belle della Valle delle Regine; e la scoperta, fatta nel 1906 nella necropoli di Tebe, della famosa tomba dell’architetto reale Kha perfettamente intatta e con un ricco corredo funerario, splendidamente conservata a Torino. I risultati degli scavi nella Valle delle Regine (1903-1905) e a Deir el-Medina (1905-1908) hanno fatto del museo Egizio di Torino una delle più belle collezioni di reperti di Tebe e uno dei centri più importanti per lo studio della cultura egizia nel Nuovo Regno e il primo millennio a.C.
La mostra all’Ermitage si apre con una sezione dedicata a Nefertari, la grande sposa reale di Ramses II, considerata l’incarnazione vivente della dea Hathor, la moglie del dio-sole. Statue monumentali da Tebe illustrano le funzioni del re, che era non solo sovrano del paese, ma anche l’intermediario tra il popolo e gli dei, e della sua consorte. Molti elementi in questa parte della mostra illustrano la fusione dell’immagine di Nefertari con una serie di dee. Particolarmente importanti gli oggetti trovati nella camera di sepoltura della regina Nefertari e un modello della tomba che è stata fatta immediatamente dopo la sua scoperta nel 1904. Nei corredi di Nefertari in mostra ci sono frammenti del coperchio del sarcofago fracassato da tombaroli, amuleti, vasi, sandali intrecciati da foglie di palma che la regina potrebbe avere indossato e 34 ushabti in legno rifinito con vernice nera che portano il suo nome. Inoltre alcuni oggetti rituali e di uso quotidiano appartenuti a nobili dame e utilizzati alla corte reale, come statue e rilievi, articoli igienici, articoli cosmetici e gioielli, aiutano il visitatore ad avere un quadro della vita di corte e della posizione della donna in Egitto al tempo di Nefertari, cioè nella XIX dinastia, durante i primi 30 anni del regno di Ramses II. Mentre alcuni rari reperti – oggetti decorativi, frammenti di strumenti musicali, un poggiatesta in legno a sostegno della base del cranio durante il sonno, vasi e ciotole – danno un’idea delle condizioni in cui vivevano la famiglia reale e la nobiltà.

La sala n° 6 nel nuovo percorso del museo Egizio di Torino con i reperti provenienti da Deir el Medina
Un’altra sezione della mostra è dedicata agli operai e artigiani impegnati nel tagliare e decorare le monumentali tombe rupestri dei re e delle regine del Nuovo Regno. I reperti esposti a San Pietroburgo, che costituiscono una componente importante delle collezioni del museo Egizio di Torino, provengono dal villaggio di artigiani e artisti posto in una conca tra le montagne di Tebe e la collina Qurnet Murai, in un sito ora conosciuto come Deir el-Medina. Le tombe realizzate dagli abitanti di Deir el-Medina hanno avuto un destino complicato. Sono state saccheggiate, probabilmente già alla fine del Nuovo Regno, e alcune sono state utilizzate per sepolture successive. Per molti secoli, le tombe dei principi reali dimenticati sono servite come tombe di famiglia per l’elite di Tebe. Completano l’esposizione un certo numero di sarcofagi, trovati nelle tombe di Khaemwaset e Seth-suo-khopsef, due figli di Ramses III (1198-1166 a.C.), e utilizzati come depositi per una famiglia sacerdotale del XXV dinastia (722-656 a.C.). Tracce di bruciature ancora visibili su alcuni dei sarcofagi possono essere collegate al saccheggio delle tombe, senza dimenticare che monaci cristiani sono noti per aver usato gli antichi sarcofagi come legna da ardere.
Chiude il percorso della mostra la presentazione dei papiri funerari della ricca collezione Drovetti che, probabilmente, provengono anch’essi dalla necropoli tebana. Questi papiri sono della stessa età dei sarcofagi e riportano i capitoli del Libro dei Morti (una raccolta di formule rituali che consentono al defunto di passare in modo sicuro attraverso il mondo prossimo e unirsi con Osiride e le anime dei beati) e l’Amduat, un importante testo funerario che descrive il viaggio notturno del Sole e la sua vittoria contro tutti i pericoli. Il defunto, identificato con il Sole nel corso di questo viaggio, vince i suoi nemici e diventa immortale come il dio Ra.
Commenti recenti