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#buonconsiglioadomicilio. Giorgia Sossass dei Servizi Educativi del museo del Buonconsiglio ci porta in due ambienti particolarmente suggestivi e significativi del Castello: il Refettorio, affrescato dal Fogolino, e la Cantina scavata interamente nella roccia

Nel dettaglio di un affresco di Marcello Fogolino nel Magno Palazzo un banchetto del principe vescovo Bernardo Cles (foto buonconsiglio)

Nuovo appuntamento, è il 33.mo, con i video #buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Giorgia Sossass dei Servizi Educativi del museo del Buonconsiglio ci porta in due ambienti particolarmente suggestivi e significativi del Castello: il Refettorio, affrescato magistralmente da Marcello Fogolino intorno al 1532 e la Cantina scavata interamente nella roccia.

“Spigola, lavanda e le viole, le rose varie, i garofani eletti, e ciascun fior che il prezzo aver si suole, fan nel vago giardin mille boschetti. Parano intorno intorno al muro il sole, sopra le strade dardeggianti tetti di nobili viti che nei caldi mesi tengan di Bacco i vari frutti appesi. Avendo visto il superbo giardino passavo via per una porta bella finché arrivammo dove ogni buon vino ha ‘l sito suo, la bellissima cella”: così scrive nel 1539 Pietro Andrea Mattioli, medico personale del principe vescovo Bernardo Cles. “È proprio in questo suggestivo ambiente che la storia del Magno Palazzo ebbe inizio”, spiega Giorgio Sossass. “Sulla prima colonna a sinistra dell’entrata è infatti tuttora visibile un’incisione, ricavata direttamente nella pietra del primo pilone, che ricorda la fondazione dell’edificio. È quindi probabile che l’intera fabbrica del Magno Palazzo prese le mosse dalla posa della prima pietra in questo suggestivo ambiente. L’epigrafe recita: Bernardus episcopus tridentinus a fondamenta erexit die 25 febbraio 1528. I lavori di costruzione cominciarono effettivamente nella primavera del 1528 in concomitanza con una festa di inaugurazione della fabbrica del Magno Palazzo. Un tempo, sopra l’epigrafe, era direttamente murata una medaglia in bronzo commemorativa della figura di Bernardo Cles, il committente d questa nuova grandiosa impresa architettonica. Colpiscono tuttora le dimensioni dell’ambiente. E il fatto che la cantina sia stata realizzata scavando direttamente nella roccia del dosso che fa da base all’intero edificio. Le botti attualmente visibili all’interno di questo spazio provengono dalla cantina storica dell’istituto agrario di San Michele e contribuiscono in qualche modo a ricreare l’atmosfera anche olfattiva di questo ambiente adibito alla conservazione e alla fermentazione del vino”.

La volta del Refettorio del Magno Palazzo del Buonconsiglio, affrescata da Marcello Fogolino (foto buonconsiglio)

“La degustazione dei pregiati vini prodotti nella cantina – continua Sossass – avveniva direttamente nello spazio adiacente, il cosiddetto revolto fuori della caneva. L’ambiente fu interamente decorato ad affresco dal pittore Marcello Fogolino tra il 1531 e il 1532. La decorazione è strettamente legata alla funzione di questo luogo destinato ai divertimenti e agli svaghi della corte. Qui sappiamo che si tenevano dei sontuosi banchetti offerti dal principe vescovo ai suoi ospiti organizzati utilizzando le pregevoli stoviglie di proprietà del committente che vediamo esemplarmente raffigurate nella decorazione ad affresco. In particolare nella splendida natura morta che immortala una piattaia ricolma di piatti, bicchieri e stoviglie, realizzati in metalli preziosi come l’oro, l’argento e il peltro. La figura del maestro di casa che sorveglia con attenzione le stoviglie insieme a quell’architetto che impugna il compasso e probabilmente a quella del buffone di corte, ritratti sulla parete rivolta verso il giardino testimoniano uno straordinario spaccato di vita all’epoca di Bernardo Cles e allo stesso tempo sembrano documentare la volontà del committente di ritrarre le maestranze attive nell’edificazione dell’edificio ma anche nell’organizzazione degli svaghi della corte. Tutte le altre decorazioni di questo ambiente sono infatti dedicate al diletto e agli svaghi che il principe vescovo offriva ai suoi ospiti. Sono raffigurati dei musici intenti nell’esecuzione di concerti con strumenti da camera e, nella lunetta sopra il lavabo sono ritratte delle scene di danze e balli campestri. In questo ambiente più appartato anche il pittore di corte Marcello Fogolino si sente probabilmente più libero di dar sfogo alla sua vena più inventiva e bizzarra, e riempie infatti la volta di decorazioni vegetali, animali reali e mostruosi, mascheroni, tendaggi, ispirati alle cosiddette decorazioni a grottesche che proprio pochi anni prima erano state riscoperte a Roma nella Domus Aurea di Nerone”.

La fontana del Refettorio del Magno Palazzo del castello (foto buonconsiglio)

“Per tornare alla descrizione del Mattioli – sottolinea la curatrice – in questo ambiente è tuttora presente la fontana originale che veniva alimentata attraverso un complesso sistema di conduttore d’acqua che scendevano direttamente dalla roccia realizzato ancora all’epoca di Giovanni Hinderbach. La vasca è sorretta da una base decorata da quattro delfini, mentre lo zampillo dell’acqua usciva direttamente dalla conchiglia incassata nel muro. La fontana poteva essere utilizzata per lavarsi le mani alla fine e all’inizio del banchetto, oppure per lavare le stoviglie prima di riporle nei lacunari ricavati direttamente nella parete di fronte”. Così ancora il Mattioli: “Dinanzi alla cantina è posto a fronte un refettorio eccellente e decoro, ove discende d’un propinquo monte con sottil arte e pregiato lavoro un chiaro fresco ameno e nobil fonte da guazzare cristalli e vasi d’oro in cui il dolce liquor si tira e mesce quando spumante dalle gran botti esce”.

#buonconsiglioadomicilio. Morena Dallemule racconta la storia dell’antico mosaico della chiesa paleocristiana del Doss Trento

Nuovo appuntamento, è il 32.mo, con i video #buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Morena Dallemule, del settore Archeologia del Buonconsiglio, racconta la storia dell’antico mosaico della chiesa paleocristiana del Doss Trento, conservato nelle collezioni archeologiche del Castello del Buonconsiglio e ne svela alcune curiosità.

“Oggi andiamo fuori dalle mura del castello”, annuncia Morena Dallemule, “e raggiungiamo la cima del rilievo che più di ogni altro ha intrecciato la sua storia con quella della città: il Doss Trento. Ci soffermeremo su una pagina particolare del suo passato, torneremo al VI secolo quando sulla sua sommità sorgeva un’antica chiesa paleocristiana. Ma per arrivare a questo dobbiamo fare una tappa intermedia. È l’ottobre del 1900 e gli addetti del genio militare austriaco stanno lavorando sulla cima del rilievo, stanno semplicemente fissando un parafulmine che doveva proteggere una vicina polveriera. Durante gli scavi intercettano una superficie a mosaico che si rivela essere la pavimentazione di un’antica chiesa cristiana. Per garantire la conservazione del mosaico le autorità austriache ne dispongono il distacco. Questo viene quindi asportato dalla sua sede, viene restaurato e infine consegnato al museo civico di Trento, le cui collezioni qualche anno più tardi sarebbero transitate in quelle del nuovo museo nazionale con sede al castello del Buonconsiglio. Negli anni successivi ulteriori scavi porteranno alla luce le fondazioni della chiesa permettendoci di tracciarne a grandi linee la pianta. È costituita da due edifici affiancati, entrambi absidati, e da una serie di vani più piccoli che probabilmente avevano una funzione accessoria rispetto alla pratica liturgica”.

Il mosaico proveniente dalla chiesa paleocristiana del Doss Trento ed esposto al Castello del Buonconsiglio (foto buonconsiglio)

“Il mosaico era collocato nell’edificio settentrionale, quello di dimensioni minori, dove costituiva una sorta di soglia che separava lo spazio presbiteriale dove il sacerdote celebrava la liturgia e l’aula riservata ai fedeli”, spiega l’archeologa. “È un frammento piuttosto ampio, e anche se presenta molte lacune ci dice diverse cose sulla chiesa a cui apparteneva. Vediamo che una lunga iscrizione orizzontale posta su un’unica linea divide lo spazio della superficie in due quadri figurativi. Quello superiore è dominato da un kantharos, un recipiente biansato da cui fuoriesce un petalo e dei tralci di vite. Ai suoi lati abbiamo due riquadri con delle decorazioni a nastri intrecciati. A noi oggi possono sembrare puramente geometriche. In realtà per un fedele di VI secolo dovevano essere molto familiari, perché visivamente richiamano quegli elementi lapidei che costituivano la recinzione presbiteriale, ossia quell’elemento architettonico che divideva il presbiterio dove stavano i celebranti dall’aula in cui stava l’assemblea. La parte inferiore doveva presentare una composizione speculare. Il riquadro centrale oggi è andato perduto. Ne rimane una piccola traccia in un tratto di cornice nel settore destro. Sopravvivono invece le decorazioni geometriche fatte da quadrati ed esagoni che vanno a combinarsi formando degli ottagoni policromi. I temi e la composizione di questo mosaico trovano moltissimi riscontri nelle chiese paleocristiane, tuttavia i collegamenti più diretti e forse per noi più interessanti sono quelli con i mosaici che nello stesso periodo, V-VI secolo, venivano realizzati nei maggiori poli religiosi della città di Trento. L’ecclesia che sorgeva nell’area dove ora c’è la chiesa di Santa Maria Maggiore e la basilica di Giuliana, tuttora visibile sotto la chiesa cattedrale. Va detto che il mosaico del Doss Trento si pone a un livello qualitativo inferiore rispetto a quanto realizzato in ambito urbano. Il disegno più grossolano e alcune imprecisioni sono particolarmente evidenti guardando l’iscrizione i cui caratteri sono tracciati in maniera un po’ irregolare e vano infittendosi via via che si procede verso destra con la lettura, come se l’artigiano non avesse ben calcolato lo spazio a disposizione per il testo. L’iscrizione si apre con la formula tipica “de donis dei” che sta a significare come l’offerente, grato a Dio per le ricchezze materiali che questi ha voluto donargli, intende mostrare la propria riconoscenza restituendo parte di questi beni materiali sotto forma di finanziamento, finanziamento a un’opera che possa risultare a lui gradita. In questo mosaico a Dio sono associati i santi Cosma e Damiano. È molto importante trovare questi due martiri citati nel nostro mosaico – continua -. Il loro culto è di origine orientale ed era sostenuto e promosso dalla casa imperiale bizantina, e soprattutto dall’imperatore Giustiniano. Se noi pensiamo che nel VI secolo il territorio trentino è stato conteso tra goti, franchi, bizantini e longobardi, capiamo come dedicare un mosaico, se non un’intera chiesa, ai santi protettori dell’imperatore Giustiniano avesse una precisa valenza politica. L’iscrizione prosegue informandoci che l’opera è stata realizzata al tempo del vescovo Eugippio il cui episcopato sappiamo collocarsi tra 530 e 570 d.C.”.

Particolare del mosaico dal Doss Trento con la citazione di Laurentius cantore (foto buonconsiglio)

“L’ultimo dei personaggi che il mosaico riporta in vita è l’offerente, Laurentius il cantore, colui che ha pagato per questo mosaico. Di lui conosciamo soltanto il nome e il ruolo che ricopriva nell’organizzazione ecclesiastica”, sottolinea Dallemule. “Ma quest’ultimo aspetto è comunque molto interessante perché ci dà un’ulteriore aggancio per la datazione cronologica del mosaico. Il ruolo di cantore viene infatti introdotto in occidente solo nella seconda metà del VI secolo. Prima esisteva un’unica figura, quella del lettore, che durante la liturgia era incaricato sia di richiamare le Scritture che di intonare gli inni e i salmi. Nel VI secolo questi due compiti vengono separati non tanto perché si intendesse affidare la parte musicale a un individuo dalle spiccate doti vocali, ma perché era necessaria una persona dedicata che memorizzasse, eseguisse e tramandasse tutto il repertorio musicale che doveva coprire l’anno liturgico in un’epoca in cui non si aveva ancora un sistema codificato di notazione musicale. Se per il ruolo di lettore nei primi anni dell’età cristiana abbiamo numerose attestazioni, numerose testimonianze, le citazioni dei cantori sono rarissime, e Laurentius è a tutt’oggi uno dei pochi cantori di cui conosciamo”.

Plutei e pilastrini dalla chiesa paleocristiana del Doss Trento (foto buonconsiglio)

“Sono ancora molti gli aspetti da chiarire sul significato e sulla funzione che la chiesa rivestiva nell’ambito della Trento cristiana dei primi secoli e altrettanto oscuro rimane il suo destino. Sappiamo che era ancora in uso nell’VIII secolo. Ce lo dicono alcuni frammenti di pilastrini e di plutei che sono stati rinvenuti tra i resti della chiesa e che sono tutt’oggi esposti al castello del Buonconsiglio. Dopo questo piccolo squarcio – conclude Dallemule – l’edificio scompare dalla fonti e non ne sappiamo più niente. Forse perduto, forse trasformato in quella chiesa di San Biagio che le fonti ci segnalano sullo Spento del XIII-XIV secolo. Ma questa è un’altra storia”.

Trento. “A tu per tu” con la mostra di Natale “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio: negli ultimi tre video scopriamo il collezionismo erudito, l’etimologia della parola bronzo, e la tecnica fusoria a cera persa

La locandina della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio dal 22 dicembre 2020 al 5 aprile 2021

Ultimi tre contributi video “A tu per tu” del Castello del Buonconsiglio per illustrare i contenuti della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi”, curata da Giuseppe Sava, inaugurata il 22 dicembre 2020 (quando il museo era chiuso per emergenza sanitaria),  e programmata fino al 5 aprile 2021 nella sala del Torrion da Basso al Castello del Buonconsiglio a Trento. La mostra, organizzata dal museo con l’aiuto della soprintendenza per i Beni culturali, racconta l’affascinante storia di un fortunato ritrovamento di due magnifiche sculture seicentesche in bronzo dorato molto probabilmente commissionate dal principe vescovo e fino al 1803 conservate nella dimora del principe vescovo al Castello del Buonconsiglio. In questi nuovi contributi introdotti da Alessandro Casagrande, per la regia di Alessandro Ferrini, Francesca Jurman ci racconta di un collezionismo molto erudito e legato all’amore per l’antico; Tiziana Gatti ci parla proprio della parola bronzo, la sua etimologia e alcuni modi di dire legati a questa parola; infine Mirco Longhi si sofferma sulla complessa tecnica utilizzata da Niccolò Roccatagliata per realizzare i due magnifici bronzetti esposti in mostra, ovvero la tecnica della fusione a cera persa.

Il collezionismo erudito tra XV e XVI secolo. “Tra Quattro e Cinquecento il diffuso interesse per l’antico da parte di umanisti o di intenditori d’arte, sostenuto anche dal ritrovamento di molti reperti di epoca romana”, spiega Francesca Jurman, “determina una forma molto raffinata di collezionismo. Possedere una raccolta di antichità diventa un segno di prestigio, un’ostentazione di raffinatezza e di agio economico. All’interno delle dimore signorili, delle gallerie, degli studioli vengono quindi esibiti questi reperti tra sculture in marmo, medaglie e monete, ceramiche, epigrafi, accanto però a delle creazioni di epoca moderna che devono rievocare il gusto per l’antichità. Sono frequentemente dei bronzetti, delle piccole sculture in bronzo che si ispirano proprio ai modelli dell’antichità nelle forme e anche nelle scelte iconografiche, privilegiando le forme più bizzarre anche cercando di recuperare un repertorio di creature fantastiche o di sculture antiche. Questi oggetti vengono soprattutto realizzati per essere d’arredo e d’uso sullo scrittoio degli umanisti, che quindi si attorniano di questo gusto, di questa evocazione della classicità”.

Le parole del bronzo. “L’utilizzo di una parola e dei suoi derivati all’interno di una lingua”, interviene Tiziana Gatti, “è collegato strettamente all’importanza dell’oggetto che essa definisce. Ciò vale naturalmente anche per la parola bronzo, un termine che definisce un materiale di larghissimo uso nei secoli: una lega di rame e stagno. Non si conosce l’origine della parola. Forse è giunta nel latino medievale e poi nell’italiano da una parola persiana che aveva valore di rame. Nella lingua latina si usava invece una parola del tutto diversa, aes, che indicava sia il bronzo, sia poi successivamente anche la moneta. La voce bronzo è usata oggi anche per indicare un oggetto realizzato con tale materiale. Si parla di bronzo per una scultura oppure per una medaglia assegnata al terzo classificato. Poi infine sono detti bronzi anche le campane tuttora realizzate in questo materiale. Nel linguaggio dell’arte bronzetti sono detti sculture di dimensione minore, mentre bronzino è un recipiente in bronzo oppure anche un campanello usato soprattutto per gli animali. L’espressione che forse ci è più familiare è faccia di bronzo, una forma figurata che si riferisce in generale a una persona che non si vergogna di nulla. Quindi il suo viso resta impassibile come fosse realizzato in bronzo. Ovviamente non è il caso dei volti espressivi in bronzo dorato dei due apostoli esposti in mostra”.

La tecnica fusoria a cera persa. “I due bronzetti raffiguranti San Filippo e San Paolo”, sottolinea Mirco Longhi, “sono l’evidente riflesso dell’abilità raggiunta da Roccatagliata nel sapersi destreggiare in tecniche di fusione e di rifinitura conosciute fin dall’antichità, come la tecnica di fusione per antonomasia: a cera persa. Il metodo classico prevedeva che su un modello in argilla o comunque in materiale refrattario l’artista riprendesse minuziosamente le forme sottostanti con uno strato di cera, appunto. Il tutto a sua volta veniva racchiuso in un involucro, sempre refrattario al calore: la cera appunto si perdeva all’interno dei canali realizzati in questo involucro – chiamato anche tonaca – alle alte temperature cui veniva sottoposto il tutto. La sottilissima intercapedine che si otteneva veniva poi riempita con il metallo, la lega in bronzo, che doveva rivestire uniformemente in maniera omogenea l’intero involucro. All’epoca Roccatagliata, dalla seconda metà del Cinquecento, in particolare sul finire e agli inizi del Seicento, riprese invece il metodo che permetteva un grado di perfezione elevatissimo, il cosiddetto metodo indiretto, molto simile al precedente solo – potremmo dire – quasi inverso. Questa volta dal modello in argilla originale si otteneva un calco in gesso che si staccava poi dal modello. Si spalmava lo strato di cera sull’involucro all’interno del calco in gesso mentre la parte esterna, una volta tolto il calco in gesso, veniva ricoperta dalla tonaca appunto, e attraversata – come dicevo prima – da tutta una serie di canali che permettono al bronzo fuso di ricoprire interamente l’involucro e allo stesso tempo fungono anche da sfiati per l’alta pressione della temperatura della lega in bronzo fuso. Il metodo indiretto permetteva un vantaggio impensato prima del Cinquecento, quello che preservando il modello originale si può portare avanti una produzione seriale. È chiaro allora che vi è discrimine per capire l’intervento del maestro. In questo caso di Roccatagliata la fa la qualità dell’opera. E in particolare di fronte ai due bronzetti dorati è evidente che l’intervento del maestro non è solo nella fase di modellazione del modello in argilla e in cera, ma è anche successivo come nella fase di rifinitura. Ecco quindi che anche la doratura fa la differenza, e soprattutto in tutti quei lavori diciamo di attenzione minuziosa, quasi da miniatore della scultura, in cui vediamo questa resa dei panneggi che rendono le opere estremamente realistiche e dinamiche, tali da fare di questi due bronzetti due opere di un’eccellenza unica”.

#buonconsiglioadomicilio. Claudio Strocchi ci conduce nella elegante Sala Specchi per svelarci alcuni capolavori della collezione di bronzetti, tra cui “Venere che castiga Amore”

La Sala Specchi al Castello del Buonconsiglio ospita una collezione di bronzetti (foto buonconsiglio)

Nuovo appuntamento con i video #buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Claudio Strocchi del settore storico-artistico del museo del Castello del Buonconsiglio (Tn) ci conduce nella elegante Sala Specchi per svelarci alcuni capolavori della collezione di bronzetti, raccolta esposta in questa sala dal 2012. Tra queste opere spicca la magnifica Venere che castiga Amore opera di Niccolò Roccatagliata scultore che trovò fama a Venezia nei primi anni del Seicento come valente bronzista.

Siamo in Sala Specchi al castello del Buonconsiglio di Trento. L’ambiente è anche detto Camerone del Torrione, perché si trova all’ultima piano del Torrione, costruito per volontà di Giovanni Hinderbach alla fine del ‘400, che venne inglobato nel Magno Palazzo durante i lavori del cardinale Bernardo Cles. “L’ambiente – spiega Strocchi – oggi si presenta in una veste completamente diversa da quella originaria. I restauri dell’inizio degli anni Trenta, promossi dal soprintendente Giuseppe Gerola, hanno consentito il recupero dell’aspetto settecentesco della sala, quell’aspetto che era stato voluto dal principe vescovo Francesco Felice Alberti di Enno nel 1759, che aveva fatto eseguire le cornici in stucco all’interno delle quali erano posizionati dei dipinti di carattere biblico eseguiti dal pittore veneziano Francesco Fontebasso. A testimonianza dei lavori promossi nel 1759 dal principe vescovo Francesco Felice Alberti di Enno è ancora oggi visibile il suo stemma al centro della sala nel pavimento eseguito a intarsio di marmi policromi”.

Testa di giovane moro, bronzetto di Severo Calzetta (foto buonconsiglio)

Dal 2012 la sala Specchi ospita la collezione dei bronzetti. La raccolta si è formata nella seconda metà dell’Ottocento e nel 1921 è passata in deposito al museo nazionale, oggi museo del Castello del Buonconsiglio. “Tra i suoi capolavori – ricorda Strocchi – sono da annoverare la testa di giovane moro di Severo Calzetta da Ravenna, la testa di fanciullo, poi ancora il calamaio a forma di granchio così come i secchielli, il picchiotto con amorino che doma il leone, eseguiti dai fratelli Grandi, e il torso della Venus pudica capolavoro della bronzistica veneziana. Di grande interesse sono anche gli elementi di fontana rappresentati da un delfino e da un fanciullo che cavalca il delfino: appartenevano a fontane, l’una cinquecentesca e l’altra seicentesca”.

“Venere castiga Amore”, bronzetto di Nicolò Roccatagliata (foto buonconsiglio)

“Venere castiga Amore è un gruppo scultoreo composto da una figura femminile ignuda, eretta, che sostiene con la mano destra un flagello e nella sinistra ha un libro”, descrive Strocchi. “In basso, due puttini che si stanno coprendo l’un l’altro per difendersi. La figura femminile, caratterizzata da una linea serpentinata, ha un corpo dalle forme arrotondate. L’ispirazione del gruppo è derivata da una incisione eseguita da Agostino Carracci nel 1595, dove però uno dei putti è bendato e quindi simboleggia Amore mentre nel nostro gruppo bronzeo nessuno dei puttini è bendato. È possibile quindi che l’interpretazione possa essere diversa. Potrebbe trattarsi infatti della raffigurazione di Grammatica, una delle arti liberali, anzi la prima arte del trivio. Grammatica con il suo flagello sta infatti punendo i fanciulli che sono indisciplinati e li corregge bacchettandoli sulla bocca. L’autore del gruppo è Nicolò Roccatagliata, un artista nato a Genova nel 1560 circa, che ben presto si traferì a Venezia dove divenne molto celebre come bronzista e dove morì nel 1633. Allo stesso autore è riconducibile anche un gruppo raffigurante l’Astronomia oggi conservato in una collezione statunitense che presenta affinità stilistiche al gruppo conservato al Castello del Buonconsiglio. Un’altra raffigurazione di Grammatica sempre visibile al Castello del Buonconsiglio è l’affresco dipinto da Dosso Dossi del 1532 nella camera del Camino Nero dove la Grammatica è rappresentata da una donna vecchia che insegna a leggere a un giovane bambino e vicino a lei è presente anche la frusta o flagello che serve per punire gli indisciplinati”.

Trento. “A tu per tu” con la mostra di Natale “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio: nei tre nuovi video scopriamo gli attributi che fanno riconoscere San Filippo e San Paolo, la foto storica che ha fatto riconoscere i bronzetti, e i dettagli morelliani per l’attribuzione a Roccatagliata

La locandina della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio dal 22 dicembre 2020 al 5 aprile 2021

Tre nuovi contributi video “A tu per tu” del Castello del Buonconsiglio illustrano i contenuti della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi”, curata da Giuseppe Sava, inaugurata il 22 dicembre 2020 (quando il museo era chiuso per emergenza sanitaria),  e programmata fino al 5 aprile 2021 nella sala del Torrion da Basso al Castello del Buonconsiglio a Trento. La mostra, organizzata dal museo con l’aiuto della soprintendenza per i Beni culturali, racconta l’affascinante storia di un fortunato ritrovamento di due magnifiche sculture seicentesche in bronzo dorato molto probabilmente commissionate dal principe vescovo e fino al 1803 conservate nella dimora del principe vescovo al Castello del Buonconsiglio. In questi nuovi contributi introdotti da Alessandro Casagrande, per la regia di Alessandro Ferrini, la direttrice del museo Laura Dal Prà ci parla di iconografia e ci svela quali sono i dettagli utilizzati da Nicolò Roccatagliata per far riconoscere facilmente alla gente i due apostoli San Filippo e San Paolo. Invece Roberta Zuech sottolinea l’importante ruolo che ricopre la fotografia nel ritrovamento di opere d’arte che si pensavano perdute, e come proprio la riscoperta dei due bronzetti la si deve soprattutto a una fotografia di inizio Novecento di Giuseppe Brunner che si conserva negli archivi del Buonconsiglio. Infine Denis Ton ci svela uno dei più importanti criteri utilizzati dagli storici dell’arte per attribuire la paternità di un’opera d’arte: il metodo morelliano.

L’iconografia dei Santi Filippo e Paolo. “Tutta l’arte sacra occidentale si poggia su un codice figurativo molto preciso che permette di identificare i singoli personaggi”, spiega Laura Dal Pra. “È fatto di segni, di simboli e di attributi. Nel caso di San Filippo è evidente la particolarità del vestiario, una veste all’antica, ma soprattutto l’attributo della croce, simbolo del suo martirio nel corso del suo apostolato presso i pagani. Quindi ha un attributo abbastanza evidente, che si ritrova anche nel secondo apostolo, in realtà San Paolo: l’apostolo delle genti, che si trovò a sostituire nell’iconografia cristiana la figura dell’apostolo traditore, ossia Giuda. Quindi l’apostolo delle genti, anch’esso raffigurato in veste all’antica, porta in mano il volume, il simbolo della religione del Libro, cioè del Cristianesimo. L’altro attributo, ormai perso, era molto probabilmente la spada, ovvero lo strumento del suo martirio, la decapitazione, che era la pena capitale riservata ai cittadini romani. Un altro elemento fondamentale nell’iconografia di San Paolo, che la si scopre soprattutto se la si pone a confronto con San Pietro, è quello della barba fluente e dell’inizio di un po’ di calvizie, fatto che invece nelle iconografie di San Pietro non è presente”.

Il ruolo cruciale delle foto storiche. “Le nostre vite sono nelle fotografie, come le fotografie sono nelle nostre vite”: così scriveva Lucia Moholy nel 1939 al termine del suo saggio sui Cento anni della fotografia. “E ancora oggi”, sottolinea Roberta Zuech, “è assolutamente attuale questa interconnessione tra fotografia e vita. Ne abbiamo un esempio con la fotografia che ha permesso la scoperta dei due bronzetti. È una fotografia scattata nei primi anni del Novecento dal fotografo Brunner, noto ritrattista, che rappresenta otto sculture, otto statuette bronzee di casa Consolati. Questa fotografia, scattata probabilmente nel momento in cui veniva apposto il vincolo sulle statuette, è stata per anni conservata nell’archivio fotografico del museo del Buonconsiglio. Lì è stata studiata, catalogata, insieme a tutto il fondo fotografico, e questo ha permesso agli studiosi di scoprirla, di rivederla e di pubblicarla all’interno di un saggio proprio sulle collezioni della famiglia Consolati. Lì ulteriormente è stata vista, studiata, notata, apprezzata da uno studioso, Giuseppe Sava, che ha avuto il merito di riconoscere fuori contesto, inaspettatamente, due delle otto sculture rappresentate in foto e permettere così alla Provincia autonoma di Trento di acquisirle e al museo di esporle e quindi di renderle fruibili al pubblico trentino riportandole sostanzialmente a casa. Ecco un esempio di connessione tra vita e fotografia”.

La paternità delle opere d’arte: il metodo morelliano. “Nel corso degli anni la storia dell’arte ha realizzato una serie di strumenti e metodi con cui giungere all’attribuzione”, interviene Denis Ton. “Strumenti di analisi visiva, documentaria, tecnologica, ma molto è affidato ancora all’occhio del conoscitore. Alla fine dell’Ottocento uno studioso di origine svizzera, Giovanni Morelli, realizzò un metodo basato sui cosiddetti motivi sigla, motivi firma o – da lui – dettagli morelliani. Sono motivi, come i dettagli dei lobi delle orecchie, delle sopracciglia, delle palpebre, che si ripetono costantemente nell’artista e consentono di arrivare a un orientamento stilistico e a un’attribuzione. Sebbene questo metodo sia oggi considerato in parte superato consente un primo riferimento per quanto riguarda la paternità delle opere, e si può applicare anche nell’ambito della scultura. Questo ha consentito al curatore Giuseppe Sava di giungere all’attribuzione dei bronzetti degli apostoli tornati al castello del Buonconsiglio a Nicolò Roccatagliata”.

#buonconsiglioadomicilio. Denis Ton ci parla della Fama e di come è cambiato il concetto di notorietà nei secoli, attraverso due Allegorie della Fama conservate al Castello

Nel disegno la Giunta Albertiana tra il Magno Palazzo e il Castelvecchio (foto buonconsiglio)

Nuovo appuntamento con i video #buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Denis Ton, storico dell’arte entrato a far parte dello staff del museo pochi mesi fa, ci parlerà della Fama e di come è cambiata il concetto di notorietà nel corso dei secoli, raccontandoci la storia di due celebri dipinti seicenteschi, Allegoria della Fama, di Pietro Liberi e Pietro Ricchi, esposti nella pinacoteca del Castello del Buonconsiglio, allestita nella Giunta Albertiana, quel corpo di fabbrica aggiunto nel Seicento per riunire il Magno Palazzo con il Castelvecchio.

“Le due opere, di Liberi e di Ricchi”, spiega Ton, “sono legate a un’ossessione che contagiò molti dei grandi committenti di quest’epoca, vale a dire l’ossessione per la Fama. La Fama è un concetto molto diverso dalla popolarità a cui siamo abituati oggi, in cui si può dire si sia avverata la profezia di Andy Warhol per cui ognuno di noi ha diritto al suo quarto d’ora di celebrità, non si misura nei follower ma è una prospettiva eterna. La Fama per l’uomo del Seicento e anche del Settecento è l’ambizione di durare nel tempo, che il proprio nome risuoni oltre la vita. Francesco Alberti Poja, il principe vescovo che realizzo la Giunta Albertiana, non fa eccezione. E commissionò a un artista veneto, Pietro Liberi, un importante ciclo di dipinti che, secondo le fonti, ornava due ambienti al secondo piano del palazzo. Purtroppo la decorazione che le fonti, in particolare Daniele Bartoli nel 1780, ci descrivono come rappresentanti soggetti dell’Antico Testamento e varie allegorie, è quasi del tutto scomparsa”.

“L’Allegoria della Fama” di Pietro Liberi conservata nelle collezioni del Castello del Buonconsiglio (foto buonconsiglio)

“Di questo ciclo disperso, realizzato tra il 1686 e il 1687 da Pietro Liberi in collaborazione col figlio Marco”, continua Ton, “si conserva tuttavia al castello un dipinto, acquisito all’inizio del Novecento, che rappresenta la Fama con il consueto attributo della tromba e insieme l’allegoria della Giustizia perché, come si vede, nell’altra mano tiene la spada. Utilizzando quindi gli attributi tipici scritti nel celebre manuale di iconologia di Cesare Ripa, Pietro Liberi combina insieme elementi differenti, e insieme allude anche alla sconfitta del Vizio. Come si vede sullo sfondo del dipinto, quasi un monocromo, i toni molto più scuri, Minerva con l’elmo, lo scudo e la lancia caccia alcune figure. L’allusione quindi che attraverso l’esercizio della Giustizia il principe vescovo ottiene la Fama. In questo modo Pietro Liberi si qualifica, come descritto anche dalle fonti, come un artista intellettuale, capace di parlare per allusioni, per geroglifici – come dicevano i contemporanei – perfettamente sintonizzato su un clima culturale che è quello delle Accademie, popolari a Venezia quanto anche a Trento come l’Accademia degli Accesi sostenuta dallo stesso principe vescovo”.

“L’Allegoria della Fama” di Pietro Ricchi conservata nelle collezioni del Castello del Buonconsiglio (foto buonconsiglio)

“Naturalmente sta all’abilità degli artisti trasformare queste allegorie, questi concetti che possono suonare un po’ cerebrali, in creature vive. E l’opera di Pietro Ricchi, sempre delle collezioni del Castello del Buonconsiglio, lo testimonia perfettamente. Ricchi è un artista lucchese che però ha molto viaggiato, si è fermato a Bologna e poi è stato in Francia via Milano, a Brescia, a Venezia. E ha lavorato molto anche in Trentino. Sua è ad esempio l’Assunzione della Vergine nella chiesa di Santa Maria. Pietro Ricchi concepisce un dipinto, probabilmente per una collezione privata, un quadro da portego, essendo un’opera del periodo veneziano degli anni ’50-’60 del Seicento, in cui la Fama giace addormentata. Questa meravigliosa creatura dall’incarnato quasi opalescente il viso incorporato nel sonno, mentre la Lascivia, rappresentata da un satiro, è intenta a tagliarle le ali. Alcuni amorini invece le sottraggono gli attributi tipici: la tromba con cui lei dovrebbe propagare il nome del committente. Quindi ci troviamo di fronte a una libera invenzione che ricombina insieme elementi diversi per creare un monito intellettuale, invece che una celebrazione tout court: la Lascivia sottrae gli attributi alla Fama. E l’invito quindi è quello di non cedere alla Lussuria perché questo tarpa le ali alla Fama e alla celebrità. Che cosa sta concependo Pietro Ricchi? Una sorta di poesia per immagini secondo il principio prettamente seicentesco ut pictura poesis (come nella pittura così nella poesia): l’ambizione – conclude Ton – è quella di creare delle rappresentazioni che possono rivaleggiare con la letteratura nel concetto della poesia barocca, ma soprattutto è la qualità di una pittura che sa giostrare molto bene tra una situazione di luminosità contrastata, ben rappresentata dalle figure che contornano l’allegoria, a quella invece di una Fama che diagonalmente imbastisce tutta la composizione della scena”.

Trento. “A tu per tu” con la mostra di Natale “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio: nei tre nuovi video scopriamo l’opera Venere e Amore, e conosciamo le figure dello scultore Alessandro Vittoria e del conte Simone Consolati

La locandina della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio dal 22 dicembre 2020 al 5 aprile 2021

Tre nuovi contributi video del Castello del Buonconsiglio anticipano i contenuti della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi”, curata da Giuseppe Sava, inaugurata il 22 dicembre 2020 (ma purtroppo a museo chiuso per emergenza sanitaria),  e programmata fino al 5 aprile 2021 nella sala del Torrion da Basso al Castello del Buonconsiglio a Trento. La mostra, organizzata dal museo con l’aiuto della soprintendenza per i Beni culturali, racconta l’affascinante storia di un fortunato ritrovamento di due magnifiche sculture seicentesche in bronzo dorato molto probabilmente commissionate dal principe vescovo e fino al 1803 conservate nella dimora del principe vescovo al Castello del Buonconsiglio. In questi nuovi contributi introdotti da Alessandro Casagrande, per la regia di Alessandro Ferrini, Elisa Nicolini ci parla di “Venere che castiga Amore, un’altra opera d’arte del Roccatagliata, scultore che è noto anche come il maestro dei putti, poiché sono soggetti spesso presenti in molte sue opere. Invece Elisa Colla ci parla del più grande scultore cinquecentesco trentino, Alessandro Vittoria, che ispirò e influenzò il lavoro di Nicolò Roccatagliata quando andò a lavorare a Venezia. Infine Claudio Strocchi ci presenta il conte Simone Consolati e ci parla del suo ruolo strategico per le collezioni museali del Castello del Buonconsiglio.

Venere, Amore e le fusioni seriali. “La statuetta di Venere che punisce Amore si ispira a un’incisione di Agostino Carracci”, spiega Elisa Niccolini, “e ripropone un tema noto nell’arte bronzistica veneta di inizio Cinquecento. I tratti assottigliati del volto, le palpebre pesanti, il modellato morbido, le capigliature ricciute dei bambini riportano all’opera di Nicolò Roccatagliata, artista che ha ideato questa statuetta che poi viene eseguita dalla bottega. Questa statuetta potrebbe essere esempio di una produzione di bronzetti destinata al mercato o comunque a una più ampia circolazione. Una produzione caratterizzata da una rifinitura non sempre così attenta. Diverso il caso degli “Apostoli ritrovati”, qui in mostra, che, destinati a una committenza specifica e raffinata, sono di altissima qualità. I bronzetti sono opere apprezzate e richieste e la fusione del bronzo, realizzata con la tecnica a getto indiretto, ne consente la produzione seriale. Questa tecnica, con l’utilizzo di stampi, predilige la quantità alla qualità, e consente una prolificazione dei soggetti più graditi. Nella bottega dei Roccatagliata è feconda la produzione di bronzetti raffiguranti un putto: non a caso Nicolò Roccatagliata è conosciuto come maestro del putto”.

Alessandro Vittoria e Nicolò Roccatagliata. “Volendo ricostruire l’ambito culturale e artistico che vede la nascita delle statuette degli apostoli attribuite al genovese Nicolò Roccatagliata”, interviene Elisa Colla, “non possiamo non guardare all’operato di un altro grande scultore dell’epoca, Alessandro Vittoria. Nato a Trento, Vittoria fu attivo nella seconda metà del Cinquecento a Venezia e in Veneto. E si distinse come scultore, stuccatore e ritrattista. In particolare ritrasse la gerontocrazia veneziana nei classici busti-ritratto che lui seppe interpretare. Sapeva dare alla fisicità quella tipica controllata torsione del tardo-manierismo veneziano e nello stesso tempo sapeva indagare la psicologia degli effigiati. Roccatagliata fu a Venezia nell’ultimo decennio del Cinquecento e sicuramente guarda con attenzione all’operato di Vittoria. Quindi la mostra mette in relazione l’opera di questi due artisti in tutti gli aspetti in cui Roccatagliata seppe cogliere appunto il controllato movimento dei drappeggi e la fisicità che ritroviamo nelle statuette degli apostoli”.

Caminetto e stipo di Simone Consolati. “Nel 1803”, ricorda Claudio Strocchi, “avviene la secolarizzazione del principato vescovile di Trento. La residenza del principe vescovo il Castello del Buonconsiglio viene quindi depredato di tutti i suoi arredi. Molti finiscono sul mercato e il caminetto della sala grande viene acquistato da Simone Consolati. Lo stesso Simone Consolati acquista anche uno stipo in ebano con intarsi in pietre dure. Simone Consolati in qualità di cultore delle arti riutilizza i materiali recuperati al Castello del Buonconsiglio per arredare la propria villa a Fontanasanta nei dintorni di Trento. E proprio a Fontanasanta si trovavano anche i bronzetti, alcuni dei quali erano stati collocati al di sopra lo stipo in ebano. Manufatti che Giuseppe Gerola recuperò negli anni Venti e Trenta del 1900 e che ancora oggi si possono ammirare nel Castello del Buonconsiglio”.

Cartolina natalizia dal Castello del Buonconsiglio (Tn): atmosfere e suggestioni particolari nei giardini d’inverno coperti da una coltre di neve

Cartolina natalizia dal Castello del Buonconsiglio (Tn). Nelle immagini di Alessandro Ferrini le immagini dei giardini d’inverno. “Anche quest’anno la magia del Natale è stata protagonista al Castello del Buonconsiglio”, spiegano al museo trentino, “con i giardini decorati a festa nel periodo delle festività. E la neve caduta negli ultimi giorni dell’anno 2020 ha reso ancora più affascinanti gli spazi esterni del Castello del Buonconsiglio regalando nuove suggestioni a tutti i visitatori che hanno approfittato dell’apertura dei giardini per fare una passeggiata al loro interno”.

#buonconsiglioadomicilio. Alessandro Casagrande ci porta nelle “Stanze nascoste” del castello: la stanza del famiglio e lo studiolo, non visitabili ma legate alla vita privata del principe vescovo Bernardo Cles

#buonconsiglioadomicilio ci porta nelle stanze segrete del principe vescovo

Nuovo appuntamento con i video #buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Alessandro Casagrande, responsabile ufficio Promozione e Comunicazione del museo del Buonconsiglio con “Stanze nascoste: stanza del famiglio e studiolo” ci svela alcune sale del Castello del Buonconsiglio chiuse al pubblico e non visitabili ma legate alla vita privata del principe vescovo Bernardo Cles.

“Uno degli ambienti molto particolari legati alla vita più intima del principe Bernardo Cles è sicuramente la sua camera da letto”, spiega Casagrande. “Lui qui veniva a riposare, a dormire. È una stanza affrescata da Gerolamo Romanino nel 1531; anzi fu il primo ambiente che il pittore bresciano ha eseguito in Castello nel Magno Palazzo voluto dal principe vescovo. La decorazione ha un fregio che riporta i putti con i simboli del principe vescovo e dei busti di imperatori romani. La peculiarità di questa stanza è che è completamente affrescata, nel senso che anche la parete è tutta affrescata. Nelle altre stanze del Castello infatti la decorazione si limita al fregio sommitale. Ma perché questa stanza è molto intima? Perché qui il principe vescovo veniva costantemente sorvegliato da alcune persone. Da chi? Da una finestra sulla parte alta della stanza, verso il soffitto, si intravede una stanzetta, sempre chiusa al pubblico, ma molto interessante perché ospitava la stanza del famiglio. Per scoprire questa stanza segreta bisogna salire le scale”.

La stanza del famiglio con la finestrella per vegliare sul sonno del principe vescovo (foto buonconsiglio)

“La stanza del famiglio è solitamente chiusa al pubblico”, continua Casagrande. “Il soffitto è molto basso, semplicemente perché qui i famigli venivano a dormire e a sorvegliare il sonno del principe vescovo Bernardo Cles. Ma chi erano questi famigli? I famigli erano a volte parenti, a volte no, persone molto fidate che appunto dovevano sorvegliare il sonno del principe vescovo. Bernardo Cles – va ricordato – fu il principe vescovo che sedò col sangue la rivolta dei contadini, per cui aveva qualche timore mentre dormiva. La stanza è completamente decorata con bande rosse e bianche verticali. Una decorazione che ricorda molto quella della fascia inferiore di torre Aquila. È una decorazione di quegli anni – siamo nel 1531 – in parte poi è stata ridipinta, ma alcune parti sono completamente originali. Quando il principe vescovo Bernardo Cles risiedeva qui in Castello e non era a Vienna presso l’imperatore, la corte qui era molto numerosa: vi erano molte guardie, poi vi era il medico di corte Pietro Andrea Mattioli, vi era il giullare di corte Paolo Alemanno, vi erano i prelati, ma naturalmente vi erano anche i famigli, queste persone che erano molto vicine al principe vescovo tanto da dormire ogni notte con lui e sorvegliarlo. Dalla finestrella i famigli guardavano che il principe vescovo non avesse brutte sorprese o brutti incontri durante il sonno”.

Il foro segreto nello studiolo privato del principe vescovo attraverso il quale Bernardo Cles poteva ascoltare la messa (foto buonconsiglio)

Un altro ambiente molto importante ma sempre chiuso al pubblico e legato alla figura del principe vescovo Bernardo Cles è il suo studiolo privato. “Per accedervi bisogna passare da Sala Scarlatti”, spiega Casagrande, “un ambiente decorato e affrescato dai fratelli Dossi e un tempo completamente decorato con una tappezzeria color scarlatto con dei preziosi ricami in oro. Superata la parete allestitiva si entra finalmente nello studiolo privato del principe vescovo. Qui veniva a meditare, veniva a pregare, veniva a passare alcune ore in tranquillità. Lo studiolo è composto da due stanze. Una è completamente ricoperta con una base in legno novecentesca, e una stanza al piano superiore che conserva ancora oggi un fregio a grottesche di scuola fogoliniana. La stanza al piano inferiore nasconde anche un piccolo segreto, un segreto che si cela dietro la parete di legno. Tirando la parete infatti si svela un piccolo foro, un piccolo cunicolo dal quale il principe vescovo poteva ascoltare la messa che si celebrava nella cappella clesiana”.

Trento. “A tu per tu” con la mostra di Natale “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio: nei due nuovi video conosciamo meglio i due bronzetti e la croce astile di Nago

La locandina della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio dal 22 dicembre 2020 al 5 aprile 2021

Due nuovi contributi video del Castello del Buonconsiglio anticipano i contenuti della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi”, curata da Giuseppe Sava, inaugurata il 22 dicembre 2020 (ma purtroppo a museo chiuso per emergenza sanitaria),  e programmata fino al 5 aprile 2021 nella sala del Torrion da Basso al Castello del Buonconsiglio a Trento. La mostra, organizzata dal museo con l’aiuto della soprintendenza per i Beni culturali, racconta l’affascinante storia di un fortunato ritrovamento di due magnifiche sculture seicentesche in bronzo dorato molto probabilmente commissionate dal principe vescovo e fino al 1803 conservate nella dimora del principe vescovo al Castello del Buonconsiglio. Dopo il primo video di Alessandro Casagrande che ha raccontato il “dietro le quinte” della mostra,  Giuseppe Sava, storico dell’arte, curatore della mostra e soprattutto colui che ha scoperto sul mercato antiquario milanese i due apostoli attribuiti a Niccolò Roccatagliata,  racconta la storia di questi magnifici bronzetti tornati a far parte delle collezioni museali; e Maddalena Ferrari descrive un’altra opera esposta in mostra: la Croce astile di Nago, un lavoro commissionato ai Roccatagliata dalla comunità di Nago Torbole. La regia è sempre di Alessandro Ferrini.

San Filippo e San Paolo. Il ritrovamento di queste due sculture in bronzo dorato si deve a un giovane storico dell’arte trentino Giuseppe Sava. “Questa coppia di apostoli – racconta Sava – faceva parte di una piccola serie composta da tredici pezzi, cioè i dodici apostoli più il Cristo redentore, che si trovavano nella residenza dei principi vescovi al Castello del Buonconsiglio nel 1803. Con la fine del principato vescovile i beni vengono alienati e prontamente acquisiti da Simone Consolati che negli stessi anni si era distinto per alcune acquisizioni chiave come il Camino di Vincenzo e Giangirolamo Grandi. In possesso della famiglia Consolati fino almeno al 1920, i bronzi vengono alienati, e seguono destini diversi. Almeno sei finiscono oltralpe dopo essere passati per un antiquario meranese, mentre è proprio la coppia di cui stiamo parlando ad essere finita in una collezione privata”. La vera novità di questa mostra su “Gli apostoli ritrovati” è anche l’attribuzione a Nicolò Roccatagliata di questi due manufatti. “Entrambe le sculture si caratterizzano per una cura straordinaria del dettaglio, una cura che chiama in causa davvero il mestiere dell’orafo più ancora che  quello dello scultore. È eccezionale il modo in cui vengono rese le vesti riccamente decorate da motivi floreali, fiori di melagrana ed elementi vegetali. San Paolo è rappresentato con il canonico attributo del libro alludente alla parola di Dio, inoltre si intuisce dalla gestualità della figura che in origine doveva reggere una lunga spada, simbolo del suo martirio per decapitazione. San Filippo è un apostolo giovane con la barba corta e ricciata, dalla posa scattante, dallo sguardo intenso, reca una slanciata croce simbolo del suo martirio. Proprio come San Paolo – conclude Sava – si apprezza anche in questa figura la cura straordinaria e la lavorazione di altissimo livello del metallo del bronzo dorato con la resa ruvida della tunica grezza e la decorazione lucida e lucente del panneggio e del mantello”.

La Croce astile di Nago, una magnifica croce anch’essa attribuita a Roccatagliata. “Questa croce astile – spiega Maddalena Ferrari – è un’opera di grande valore realizzata in collaborazione da un maestro orafo veneziano e dagli scultori Roccatagliata, responsabili della realizzazione del modello in cera per la fusione delle placchette. Si tratta di un dono che, come reca l’iscrizione sopra il nodo, ha fatto la comunità di Nago e di Torbole alla sua chiesa pievana nel 1620 che è l’anno della riconsacrazione della chiesa dopo importanti lavori di ristrutturazione e ampliamento. Dobbiamo immaginarci questa croce che apre proprio la processione che accompagnò il sacerdote all’altare in quel giorno così importante. È molto ricca di figure presenti sia sul recto che su un verso e anche sul nodo. Tra queste segnalo in particolare San Vigilio patrono di Nago, Sant’Andrea apostolo patrono di Torbole, e un bellissimo Cristo in pietà sorretto dagli angeli che è un soggetto particolarmente raro per una croce astile”.