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Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 7. Dedalo e l’ingegno etrusco, l’8. Fetonte e l’ambra, il 9. i Pelasgi e le origini di Spina e degli Etruschi

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Locandina della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia dal 10 novembre 2023 al 7 aprile 2024

Si sa che i Greci amavano metamorfosi e metafore e, probabilmente, gli Etruschi non erano da meno. Il mito offriva una materia quasi infinita da plasmare e una delle metafore miti-storiche più interessanti e seducenti riguarda l’archetipo stesso dell’uomo ingegnoso, Dedalo, l’inventore del labirinto, il primo uomo a volare, il costruttore di automi, in grado di competere per abilità e tecnica con il dio Efesto. Diverse fonti collocavano alcune sue imprese alla foce del Po, dove poi sarebbe nata Spina e, probabilmente, tali leggende hanno avuto origine proprio per via della presenza e dell’importanza acquisita nel tempo da Spina che seppe evidentemente manipolare e veicolare a proprio vantaggio l’immaginario di quei Greci che non potevano fare a meno di frequentarla per coltivare le proprie necessità e interessi commerciali. Di questo parla il settimo episodio del video-racconto in 19 puntate “Rasna. Una serie etrusca”, a cura e con Valentino Nizzo, fino a dicembre 2023 direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, prodotto dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, approfondimento della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Dopo aver conosciuto i primi sei episodi – 1. la Grande Etruria, 2. Ulisse ed Eracle, 3. Caere/Pyrgi e Delfi, il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina (per episodi 4, 5, 6 vedi Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina | archeologiavocidalpassato) – ecco altri tre video: il 7, l’8 e il 9.

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Valle Fattibello, tipico paesaggio delle Valli di Comacchio (foto wikipedia)

Un paesaggio inospitale e paludoso, questo ci raccontano le fonti e così si presentava la foce del Po agli occhi degli Etruschi. Non possiamo certo dire che si persero d’animo. Viene loro riconosciuta una grande capacità organizzativa nel plasmare il paesaggio, domare il territorio, renderlo fertile e abitabile, ponendo le basi per espandere produzione e commerci. Da questa sistematica opera di bonifica e di riassetto idraulico vide la nascita Spina, fra il 530 e il 520 a.C. Il racconto di RASNA. UNA SERIE ETRUSCA riparte da qui, dalle Valli di Comacchio, unendo sapientemente mito e storia.

“7. DEDALO O DELL’INGEGNO”. “Gli Etruschi abitano una regione che produce di tutto e ingegnandosi nel lavoro hanno frutti con cui non solo possono nutrirsi a sufficienza ma anche concedersi una vita di piaceri e di lusso. Così Diodoro Siculo nel I sec. a.C. ricordava quella che è stata una delle prerogative degli Etruschi: la fertilità e la ricchezza dei luoghi nei quali scelsero di insediarsi. Questa ricchezza – spiega Valentino Nizzo – è diventata un motivo per criticarli da un certo momento in poi della loro storia. Agli occhi dei Greci e poi anche dei Romani, gli Etruschi erano proverbiali per la loro mollezza, per la loro oziosità. Orazio ha reso celeberrimo l’obesus etruscus, quello che noi vediamo e immaginiamo attraverso quei sarcofagi del III e II secolo a.C., in particolare da Tarquinia, dove si vedono uomini di grande stazza adagiati su un letto per l’eternità, così come facevano durante la vita quotidiana bevendo del buon vino o banchettando. Questa mollezza e questo lusso, però, sono frutto del lavoro, come diceva Diodoro, della loro capacità di plasmare il paesaggio e di renderlo adatto alla vita. Alle mie spalle si vede uno dei paesaggi più inospitali che gli Etruschi sono stati in grado di domare, quello delle valli di Comacchio.

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Le Valli di Comacchio che conservano le tracce dell’antica città etrusca di Spina (foto http://www.rivadelpo.it)

“Abbiamo dovuto aspettare il 1922 – continua Nizzo -, l’anno della scoperta di Spina e della bonifica di Valle Trebba, per raggiungere un’organizzazione, un livello tecnologico in grado di rendere nuovamente popolose terre che erano state per secoli malariche. Gli Etruschi hanno fatto lo stesso, lo hanno fatto oltre due millenni prima. E hanno dovuto raggiungere però quel livello organizzativo che nel VI secolo ha consentito a una federazione di città dell’Etruria padana con l’aiuto delle città tirreniche dell’Etruria interna di realizzare qualcosa di grandioso: un’opera sistematica di bonifica che ha consentito di fondare intorno al 530-520 a.C. la città di Spina, in un periodo di generale riassetto del territorio. Nei secoli precedenti queste zone non erano disabitate. Lo dimostra il transito di merci che ha sempre caratterizzato il Po con i suoi affluenti e la sua foce. Adria è stata una precorritrice di quelle che sono state poi le intenzioni concretizzatesi con la fondazione di Spina. Tuttavia ci vuole un impegno, una strategia, una capacità sociale per arrivare a risultati come questi.

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Un tratto della cloaca maxima a Roma ancora funzionante (foto sovrintendenza capitolina)

“Negli stessi anni in cui nasce Spina, a Roma gli Etruschi dell’ultimo dei Tarquini, il Superbo, realizzano opere grandiose come la Cloaca massima, una fognatura che ha consentito anche la bonifica della valle del Foro boario, dove gli Etruschi avevano il loro quartiere abitativo, il Vicus Tuscus. Negli stessi anni viene bonificata anche la valle Murcia, quella dove sarà realizzato il Circo massimo, una delle glorie della grande Roma dei Tarquini. Queste capacità organizzative, questa loro proverbiale capacità nell’ingegneria idraulica e nell’architettura sono delle prerogative che agli Etruschi sono state riconosciute dai Romani e dai Greci, che di solito non davano soddisfazione ai popoli considerati barbari. Siamo quindi in un contesto che rappresenta magnificamente quella che è stata una capacità concreta di domare la natura e renderla virtuosa, renderla ben soddisfacente alle esigenze di uomini che miravano a divenire grandi, al lusso, e a quel benessere che poi raggiunsero.

Nelle isole Elettridi, che si trovano nel golfo dell’Adriatico, dicono che ci siano due statue: una di stagno, una di bronzo, lavorate in stile arcaico. Si dice che sono opera di Dedalo, ricordo del passato, di quando egli fuggendo Minosse, dalla Sicilia e da Creta si spinse in questi luoghi. Dicono che il fiume Eridano abbia formato davanti alla sua foce queste isole. C’è anche una palude, secondo quanto si racconta, presso il fiume, la cui acqua è calda. Esala da essa un odore pesante e aspro. Gli animali non vi si abbeverano e gli uccelli non possono sorvolarlo perché cadono e muoiono. Le genti del luogo raccontano di Fetonte che cadde in questo lago, colpito dal fulmine, e che ci sono intorno molti pioppi dai quali cade il cosiddetto electron. Orbene, dicono che Dedalo sia giunto a queste isole, che se ne sia impadronito e che abbia dedicato in una di esse un’immagine sua e una di suo figlio Icaro. Poi essendo giunti per mare fino a loro i Pelasgi, profughi da Argo, Dedalo fuggì e raggiunse l’isola di Icaro. In questo passo, attribuito ad Aristotele, ma in realtà non è opera sua, un componimento nel quale vengono descritte le meraviglie del mondo, non solo quelle appartenenti all’orizzonte del mito, ma tutte le meraviglie naturali, abbiamo uno straordinario affresco di come doveva apparire ancora intorno al III secolo a.C. questa zona: la foce di un fiume mitico, l’Eridano, che noi identifichiamo con il Po, e che è documentato fin dall’epoca di Esiodo dalla fine dell’VIII secolo a.C., come luogo inospitale, paludoso, connesso – come dice Aristotele – al mito di Fetonte e alle lacrime delle Eliadi.

“Ma questa connessione di questi luoghi a Dedalo è rivelatrice di quanto ho detto poco fa – riprende Nizzo -. È una metafora che collega la capacità di vivere in questi luoghi alla foce del Po, dove erano le isole Elettridi, al più grande inventore del mito dell’antichità, Dedalo. Colui che aveva realizzato il labirinto, che aveva dotato se stesso e suo figlio Icaro di ali con le quali volare, che aveva realizzato automi e sculture straordinarie come quelle che li raffiguravano alla foce del Po, secondo questo passo.

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Olpe in bucchero (640 a.C.) dalla tomba 2 del tumulo in località San Paolo di Cerveteri, con Medea che ringiovanisce Giasone, gli argonauti che trasportano un drappo, due lottatori e Dedalo alato, conservata al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)

“C’è un vaso al museo di Villa Giulia straordinario – ricorda Nizzo -: un’olpe in bucchero risalente al 640 a.C. che raffigura Medea, il mito degli Argonauti e raffigura anche, a una delle estremità, Dedalo con le ali, Taitale in etrusco. Non conosciamo nessi tra il mito degli Argonauti e quello di Dedalo, ma sappiamo che anche gli Argonauti si fermarono alla foce del Po, lungo l’Eridano. Quindi, chissà, forse quel vaso, che precede di oltre un secolo la nascita di Spina racconta una leggenda che si è persa, che non si è conservata, una leggenda che doveva unire gli Argonauti a Dedalo. Certamente quello che sappiamo attraverso oggetti come la bulla d’oro, emigrata purtroppo a Baltimora, che doveva comporre una collana probabilmente con ulteriori inserti d’ambra, e da altre raffigurazioni rinvenute a Felsina e in altre aree delle città etrusche della pianura Padana, Dedalo qui era particolarmente venerato. Questa venerazione non faceva altro che richiamare quanto gli Etruschi di sé sapevano: essere maestri dell’idraulica e l’orgoglio per essere riusciti a rendere non solo abitabili e fertili questi luoghi, ma a trasformare la pianura Padana in un motore economico per l’intera Etruria. Quelle pianure Padana e Campana che fecero grande l’Etruria, come ricordava Polibio ancora nel II secolo a.C. e che resero gli Etruschi in grado di dominare su quasi tutta l’Italia, come ricordavano Tito Livio e Catone. “Paene omnis Italia in Tuscorum iure fuerat (Quasi tutta l’Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi)”, dicevano. E questa è la grandezza degli Etruschi e un’eredità che ci hanno lasciato”.

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Collana in ambra, vetro e oro da Spina conservata nel museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Lacrime che diventano pietre”, spiega Nizzo. “Così i Greci spiegavano le origini dell’elektron, come chiamavano l’ambra e, in questo modo, davano un senso a quanto empiricamente potevano constatare semplicemente sfregandola. Le cariche elettriche che rilasciava non sembravano infatti lasciare dubbi in merito all’origine divina di quella sostanza, scaturita dalle lacrime delle Elettridi, le figlie del Sole disperate per la morte del fratello Fetonte, fulminato da Zeus, per la sua pericolosa incapacità di guidare il carro paterno. Il mito, non a caso, era ambientato dove i Greci da secoli erano soliti procurarsi quella preziosa resina fossile: la foce del Po, sull’Adriatico. Il terminale ideale per tutti quei beni e quelle merci che vi giungevano tramite la sua fitta rete di affluenti dall’area appenninica, da quella alpina e dalle più estreme propaggini dell’Europa centrale e settentrionale. Gli Etruschi avevano saputo a lungo nascondere la provenienza baltica dell’ambra, facendo credere che i pioppi in cui le Elettridi erano state pietosamente tramutate fossero proprio lì, dove Spina sarebbe sorta, intorno al 520 a.C., accentrando presso il suo porto anche quel redditizio traffico commerciale. Ne parliamo nell’ottavo episodio di “Rasna. Una serie etrusca”.

“8. FETONTE E L’AMBRA O DELLA CAPACITÀ ECONOMICA”. “La nave era corsa lontano a vela. Entrarono profondamente nel corso del fiume Eridano, laddove un tempo Fetonte, colpito al cuore dal fulmine ardente e bruciato a metà, cadde dal carro del Sole nelle acque di questa profonda palude. Ed essa ancora oggi esala dalla ferita bruciante un tremendo vapore. Nessun uccello può sorvolare quelle acque spiegando le ali leggere, ma spezza il suo volo e piomba in mezzo alle fiamme. In questo brano Apollonio Rodio, nel III secolo a.C., descrive il viaggio degli Argonauti verso Occidente. Ed è una tappa che non era prevista in tutte le versioni del mito. Una tappa che toccava il fiume Eridano che, al tempo, il mito e la fantasia geografica dei Greci univa al Danubio in un percorso continuo. Gli Argonauti si muovono in terre ancora non civilizzate, dominate da paesaggi selvaggi e spiegate dai Greci alla luce di miti come quello di Fetonte. Un mito straordinario che è perdurato a lungo nel corso dell’antichità. E il mito con il quale i Greci spiegavano l’origine dell’ambra. Il figlio del Sole, di Helios Apollo, Fetonte lo splendente, un giorno riesce a convincere il padre a prestargli il carro del sole. Si vuole cimentare in qualcosa più grande di lui, una corsa attraverso il cielo. Tuttavia non riesce a domare i cavalli alati. Arriva a sfiorare il cielo. Secondo una versione del mito producendo quella Via Lattea che ancora oggi vediamo e che sarebbe stata realizzata dall’avvicinamento del sole alle stelle. Poi avvicinandosi alla Terra la desertificò, e rese gli Etiopi del colore scuro della pelle. Desertificò l’Africa. Insomma, alla fine, indusse il padre degli dei, Zeus, a fulminarlo. E tutto questo avvenne, secondo il mito, alla foce del Po, dove dovevano aver constatato i Greci la presenza di sorgenti sulfuree termali, quelle che ancora oggi alimentano la zona dei colli Euganei, Montegrotto, Abano Terme, legate al culto di Aponos-Apollo. Tutto questo quindi aveva un collegamento con la realtà geografica. Il mito prosegue dicendo che appunto nel luogo in cui Fetonte cade, la sua ferita prodotta dal fulmine continua ad emanare sostanze che avvelenano tutti gli animali che passano nei dintorni. E tutto questo avviene in presenza delle sorelle di Fetonte, le Eliadi, cui erano consacrate alcune isole alla foce del fiume Po.

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Pendente di ambra a testa femminile con tutulus (prima metà del V secolo a.C.) proveniente da Spina, Valle Pega, Tomba 740 Dosso A, e conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Le Eliadi, vedendo il fratello morente, colpito al corpo da Zeus – continua Nizzo -, cominciano a piangere. Ed è un pianto incessante, che non smette mai. E Zeus, impietosito per il loro dolore, le trasforma in pioppi e le loro lacrime si trasformano in quell’ambra, che vediamo magnificamente rappresentata in questa vetrina. Il termine greco per ambra era electron, un termine che significa anch’esso splendente come Phaeton, così come le Eliadi derivano il loro nome da Helios, il dio del sole. Il motivo è che già gli antichi conoscevano una delle caratteristiche, delle peculiarità dell’ambra che, se sfregata su un tessuto come la lana, produce delle cariche elettrostatiche che sono quelle che alla fine del Settecento hanno indotto a usare la parola greca per l’ambra per definire l’elettricità. Un fenomeno che poi sarebbe stato approfondito nel corso dell’Ottocento. Quindi idealmente questa materia, che non è altro che una resina fossile, quindi era giusto una parte del mito, si pensava che imprigionasse la potenza e i raggi del sole, che poi liberava in quelle cariche elettrostatiche che la rendevano così particolare. Si pensava che avesse delle facoltà curative, che non fosse quindi soltanto un ornamento ma qualcosa di più, anche un amuleto. E qui vediamo una rassegna della straordinaria quantità di ambre che a Spina sono state ritrovate nella necropoli, ma che da Spina venivano distribuite in tutto il Mediterraneo. Perché nessuno poteva fare a meno dell’ambra. Anzi, questa materia era commerciata fin dall’età del Bronzo, era molto ricercata in ambito miceneo. E veniva da molto lontano. Veniva dal Baltico, dal Nord Europa, e poi veniva smistata tra il Veneto e l’Emilia a quanti arrivavano alla foce del Po per procurarsi beni come queste. Prima ancora di Spina, Verucchio era stato uno dei centri di smistamento dell’ambra, poi la stessa Felsina. E poi naturalmente Spina diventa l’epicentro. E gli Etruschi di Spina molto probabilmente sono quelli che hanno fatto credere ai Greci la leggenda che l’ambra traesse origine dalle lacrime delle Eliadi e dalla morte di Fetonte, avvenuta in quest’area. Dobbiamo immaginare le Eliadi forse non diverse da queste donne, volti di donne, raffigurate in questa vetrina. O dobbiamo immaginare la passione degli Etruschi per questa materia prima, che li indusse a realizzare anche un dado in ambra, una pedina da gioco di quelle che gli Etruschi amavano, al punto che Erodoto attribuiva loro l’invenzione dei dadi.

“Ma la verità sull’ambra è un’altra – sottolinea Nizzo -, e la scoprirono ben presto i Greci. Ce lo racconta molto bene un passo di Luciano. Siamo nel II secolo d.C. Sono passati quasi 500 anni dall’epoca di Apollonio Rodio e quasi un millennio da quando Esiodo, per la prima volta, cita il fiume Eridano e la leggenda di Fetonte. Luciano ne parla in uno dei suoi Dialoghi ironici dal titolo l’Ambra o i cigni, che svela finalmente la verità sulle origini dell’ambra. Veramente anch’io, udendo queste cose dai poeti, speravo se mai capitasse sull’Eridano di andare sotto uno dei pioppi e, aprendo il seno della veste, raccogliere poche lacrime e così avere l’ambra. Finalmente, non è molto, capitai in quella contrada e risalendo in barca l’Eridano non ci vedevo pioppi, per guardare ch’io ci facessi d’intorno, né ambra. Anzi, neppure il nome di Fetonte sapevano quei paesani. Infatti io mi volli informare e domandai: quando verremo a quei pioppi che danno l’ambra? Mi risero in faccia. I barcaioli risposero dicessi più chiaro ciò che volevo. Ed io raccontai loro la favola, come Fetonte era un figliolo dl sole che, fattosi grandicello, chiese al padre di guidare il carro per una sola giornata. Il padre glielo diede, ma egli si ribaltò e morì. E le sorelle sue piangenti in qualche luogo di questi – dicevo io – perché egli cadde sull’Eridano, diventarono pioppi e piangono l’ambra sopra di lui. Qual bugiardo e falso ti ha raccontato questo? Risposero. Noi non vedemmo mai alcun cocchiere ribaltato. Né abbiamo i pioppi che tu dici. Se fosse una cosa simile, credi tu che noi per due oboli vorremo remare o tirare le barche contr’acqua potendo arricchirci raccogliendo le lacrime dei pioppi? Queste parole mi colpirono forte e tacqui, scornato. Che proprio come un fanciullo c’ero caduto a credere ai poeti che dicono le più sperticate bugie e non mai una verità. Probabilmente Luciano sta finalmente apprendendo una verità che forse già conosceva. Ha voluto fare dell’ironia sulla capacità degli Etruschi di nascondere la vera origine di una materia preziosissima, che ha fatto per secoli la loro fortuna”.

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Il tempietto di Alatri realizzato nel 1891 nel giardino del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma (foto etru)

Dove non arriva la storia, si ricorre alla fantasia, costruendo tradizioni e leggende che attraversano il tempo e lo spazio. È il destino dei Pelasgi, il popolo che affonda le origini nel mito e ritenuto, secondo i Greci, artefice delle possenti, titaniche mura poligonali, diffuse nell’Italia centro- meridionale, in Grecia e in Anatolia. Ma cosa lega la città di Spina ai Pelasgi? “Parliamo dell’arrivo dei Pelasgi a Spina, ovvero il mito fondante dell’origine stessa degli Etruschi agli occhi dei Greci. Un complesso coagulo di racconti che hanno contribuito nei millenni ad alimentare il cosiddetto mistero degli Etruschi”, comincia così Valentino Nizzo nell’introdurre il nuovo tema che, spiega, “incredibilmente ancora oggi tocca corde identitarie tutt’altro che sopite nelle quali il mito si intreccia e si confonde con la storia o, sarebbe meglio dire, con la sua manipolazione ideologica. Ho dedicato molti articoli e una monografia a queste tematiche; ne ho parlato in molti video e conferenze, quasi sempre accompagnate da strascichi di sterili polemiche, non prive di interesse per quanti si occupano di storia della mentalità e di persistenza contemporanea della questione pelasgica. Nel video provo a riassumere il tutto in circa 10 minuti, girati volutamente davanti al tempio etrusco-italico di Alatri, un luogo quest’ultimo ancora oggi legato al falso mito delle città pelasgiche”.

“9. IL MITO DEI PELASGI E LE ORIGINI DI SPINA E DEGLI ETRUSCHI”. “È una sensazione unica – ammette Nizzo – quella di trovarsi all’interno di un tempio etrusco-italico del III sec. a.C. È probabilmente il risultato che ambivano ad ottenere Felice Barnabei, il fondatore del museo di Villa Giulia, e l’architetto Adolfo Cozza, quando realizzarono questa ricostruzione in scala 1:1 di un tempio scavato pochi anni prima, tra il 1888 e il 1889, ad Alatri, nel Lazio meridionale, non lontano da Frosinone. Alatri è famosa non tanto per questo tempio ricostruito, di cui gli archeologi portarono alla luce solo le fondamenta, quanto per la poderosa cinta in opera poligonale che ancora oggi desta ammirazione ed è all’origine di miti moderni su chi l’ha realizzata. Sono gli stessi miti che hanno posto al centro di tante città con mura possenti i Ciclopi, i Pelasgi, gli alieni… insomma quanti non hanno il nome di un popolo reale, ma sono considerati in grado di realizzare opere titaniche. I Pelasgi in realtà sono un popolo del mito – spiega Nizzo -. Omero li definiva i divini Pelasgi. Hanno preceduto i Greci nella Grecia stessa, prima dell’arrivo di quelle stirpi elleniche che hanno poi sviluppato la loro identità nella chiave greca che oggi conosciamo. I Pelasgi sono quindi il popolo del mito che precede l’acquisizione di una consapevolezza da parte dei Greci.

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Un tratto delle mura poligonali di Micene, nel Peloponneso, in Grecia (foto graziano tavan)

È il popolo dell’epoca micenea, minoica, quella delle grandi città costruite con possenti mura poligonali: Micene, Tirinto, Gla, Orcomeno, la Grecia ne è circondata e costellata. I Greci nell’interrogarsi sul loro passato più antico, dove la memoria non arrivava, arrivavano con la fantasia. Per questo i Pelasgi sono diventati un popolo migrante e dove si riscontravano città con possenti mura poligonali, spesso nascevano leggende che amplificavano l’irradiazione dei Pelasgi. E questa è una costruzione della tradizione che è durata fino all’impero romano. Si è alimentata laddove non c’era un uso filologico delle fonti e la fantasia costituiva il punto di riferimento principale per colmare quello che la storia non era in grado di recuperare. E quindi attraverso gli occhi e l’osservazione di queste possenti mura di cui non si conservava più il ricordo di quando erano state costruite, anche città più recenti che con i Pelasgi nulla avevano a che fare, sono state considerate costruite dai Pelasgi.

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Un tratto delle mura poligonali / pelasgiche di Alatri (Fr) (foto graziano tavan)

“Questo è il caso di Alatri – puntualizza Nizzo -. Oggi si discute se quelle mura poderose siano state opera dei romani, come quelle di Norba, un’altra città del Lazio cosiddetto pelasgico. E questo deve essere avvenuto anche riguardo Spina e le sue origini. Anche se a Spina non c’è nessuna traccia di mura poligonali, né potrebbe esserci, perché le mura poligonali caratterizzano prevalentemente paesaggi con connotazione calcarea. Sono mura che si prestano a essere realizzate dove vi è una pietra un po’ più difficile da squadrare, che richiede anche una complessa maestria nel gestirla. Il primo che ci parla di Pelasgi a Spina è un contemporaneo di Erodoto, Ellanico di Lesbo, e lo fa indirettamente attraverso un passo di Dionigi di Alicarnasso. Dice: Durante il regno di Anas, i Pelasgi furono scacciati dal loro paese dai Greci e, lasciate le loro navi presso il fiume Spines nel golfo Ionio, presero Crotone, una città dell’interno, e partiti di lì occuparono quella che noi ora chiamiamo Tirrenia. Poche frasi che Dionigi di Alicarnasso pone al principio di una lunga trattazione nella quale si interroga sulle origini degli Etruschi, sulle origini di Roma. Il suo scopo è dimostrare a tutti i costi che Rona è una città greca, una polis ellenis e non una polis tyrrenis, cioè una città etrusca. Per fare questo deve dimostrare che gli Etruschi non hanno a che fare nulla con i Greci. Sono autoctoni, sono indigeni. E quindi non possono avere nulla a che fare con i Pelasgi. Nel farlo però cita anche le fonti che collegano i Tirreni, cioè gli Etruschi, ai Pelasgi o ad altre popolazioni della Grecia. E Ellanico è una delle prime fonti che Dionigi di Alicarnasso pone alla base di quella che poi diverrà nei secoli la questione dell’origine degli Etruschi. Perché i Pelasgi venivano collegati a Spina che non ha testimonianza di mura pelasgiche? Perché Spina nel momento in cui Ellanico scrive, siamo nella metà del V secolo a.C., era senza ombra di dubbio la città etrusca più importante. Le città dell’Etruria tirrenica avevano cominciato a decadere per effetto delle sconfitte avute a Cuma nel 524 a.C. sulla terraferma, e poi sul mare di fronte a Cuma nel 474 a.C. L’asse politico, economico e commerciale degli Etruschi si era cominciato a spostare verso quell’Adriatico, dove intorno al 530-520 a.C. gli Etruschi, insieme, in coalizione, avevano dato vita a questa città portuale alla foce del Po e in posizione strategica sull’Adriatico.

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Mappa della diaspora – secondo Ellanico – della diaspora dei Pelasgi dalla Grecia a Spina e di qui a Cortona e in Etruria (foto etru)

“Gli Ateniesi guardavano a Spina come l’elemento di raffronto e di dialogo più importante in ambito etrusco. Non potevano farne a meno – annota Nizzo -, non potevano fare a meno del grano e delle risorse della pianura Padana che Spina consentiva di far arrivare in Grecia lungo l’Adriatico, un mare che gli Etruschi controllavano e si contendevano con i Greci. Per questo quindi Ellanico e, probabilmente ancora prima di lui, Ecateo, già alla fine del VI sec. a.C., collocarono la diaspora del popolo pre-ellenico per eccellenza dei Pelasgi, a metà strada tra il mito e la storia, subito dopo il diluvio universale, quello greco di Deucalione, proprio a Spina da cui poi si sarebbero irradiati verso il centro della penisola in quella città che chiamano erroneamente Crotone, ma che dobbiamo identificare con la città etrusca di Cortona. Per poi spingersi oltre, verso l’Etruria propria, verso le città di Caere, di Tarquinia, e la stessa Roma lungo le valli del Tevere, dunque verso l’Etruria che noi conosciamo con questo nome. In questo modo, tramite questa irradiazione, continuava Ellanico, dai Pelasgi avrebbero avuto origine gli Etruschi, i Tirreni. Dionigi nel commentare Ellanico, però, approfondisce la questione, e dice che in realtà questi Pelasgi, non avendo nulla a che fare con i Tirreni, sarebbero stati conquistati dai Tirreni stessi, ma prima ancora si sarebbero uniti con gli aborigeni, dando vita a quel seme dei Latini che, unitosi poi con i Troiani, avrebbero fatto scaturire Roma, secondo quella versione resa celeberrima dall’Eneide. Tutto questo per affermare che Roma è città greca, aborigena, troiana, pelasgica e nulla ha a che fare con i Tirreni.

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Mappa della diaspora dei Tirreni – secondo Erodoto – da Smirne (Lidia, in Anatolia) a Spina (foto etru)

“Ma a complicare le cose sulle origini di Spina e su questi racconti-miti storici – riprende Nizzo – si aggiunge lo storico per eccellenza, Erodoto, con un brano che è celebre per il problema dell’origine orientale degli Etruschi. Un brano nel quale ci dice che gli Etruschi, i Tirreni, sarebbero profughi dalla Lidia e si sarebbero diretti in Occidente dopo una lunga carestia durata circa 18 anni, durante i quali avevano anche provato a ingannare il tempo digiunando un giorno e inventandosi giochi come la palla o i dadi, e gli altri giorni mangiando. Alla fine, stressati, Tirreno, il loro comandante, guida una metà della popolazione verso Occidente. Dice Erodoto: questi scesero a Smirne dove costruirono navi e, dopo averle caricate delle vettovaglie necessarie al viaggio, partirono in cerca di nuove terre finché, oltrepassati molti popoli, giunsero presso gli Umbri e là fondarono città e tuttora vi abitano, e dal loro condottiero si chiamano Tirreni. Erodoto localizza la diaspora dei Tirreni della Lidia nel paese degli Umbri, esattamente dove le fonti collocano Spina, in una terra che è ancora umbra prima di diventare tirrenica. Quindi Erodoto sta immaginando una diaspora non pelasgica, ma dei Tirreni della Lidia verso lo stesso orizzonte, verso quella Spina che nel V sec. a.C. era un punto di riferimento imprescindibile.

“Su questi due filoni mitici – conclude Nizzo – si fonda una riflessione miti-storica che segna anche l’evoluzione dei rapporti tra mondo greco e mondo tirrenico. Rapporti positivi laddove gli Etruschi sono assimilati ai Greci e grazie a questa assimilazione avevano potuto avere, Cerveteri e Spina, un thesauros a Delfi, e le altre fonti di matrice dorica in virtù delle quali gli Etruschi sono dei barbari, vanno sconfitti e vanno eliminati per consentire ai Greci di essere liberi in quel mar Tirreno e Adriatico verso il quale da tempo avevano mostrato i loro interessi, in particolare quelli dei Siracusani”.