Dopo otto anni di mostre in giro per il mondo, torna a casa al museo nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma il Pugilatore, o Pugile a riposo, scultura in bronzo capolavoro dell’arte greca
Otto anni di viaggi ed esposizioni per il mondo, ma ora è finalmente tornato a casa. Definitivamente. Il Pugilatore, capolavoro assoluto dell’arte greca, è di nuovo nella sua sede di Palazzo Massimo a Roma dopo essere stato nel 2008 a Berlino, nel 2013 a New York e a Francoforte, e nel 2015 a Firenze (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2015/03/13/mostra-kolossal-a-firenze-potere-e-pathos-bronzi-del-mondo-ellenistico-capolavori-per-la-prima-volta-insieme-poi-andranno-a-los-angeles-e-washington/) e Los Angeles, star della mostra “Power and Pathos: Bronze Sculpture of the Hellenistic World” al Getty Museum dove è stata visitata da oltre 170mila persone. Ad accoglierlo nella sala del museo nazionale Romano, il soprintendente Francesco Prosperetti, il direttore del museo Rita Paris e il pugile Nino Benvenuti (campione olimpico e campione mondiale dei pesi medi) il quale, dopo essersi inginocchiato di fronte a quello che è uno dei rarissimi bronzi dell’antichità pervenutici, si è detto ”estasiato ed emozionato”. Durante la delicata fase di sballaggio ecco emergere per primo il volto, l’espressione stupita e interrogante, che lo ha reso famoso nel mondo, poi dalla cassa che lo ha protetto nel viaggio di ritorno da Los Angeles esce anche il corpo possente liberato dalle imbracature usate per tenerlo fermo. I tecnici della società Montenovi (addetta al movimentazione del capolavoro) abilmente rimuovono i piani di legno che hanno tenuto bloccato il bronzo ellenistico durante gli spostamenti, seguiti attraverso sensori capaci di riportare continuamente ai restauratori della soprintendenza i dati delle condizioni microclimatiche o delle inclinazioni eventuali della cassa. Del resto, a proteggerlo ulteriormente, nei tre mesi di esposizione al Getty Museum, c’era una base antisismica, mentre anche lì venivano rispettate tutte le procedure di salvaguardia. Un capolavoro comunque in buone condizioni, restaurato da Olimpia Colicicchi negli anni ’80 e sottoposto a un intervento di manutenzione nel 2005. L’attrazione della statua, spiegato Prosperetti, “deriva non solo dalla sua bellezza, ma da quest’aura di mistero che lo circonda. Il mistero che avvolge i Bronzi di Riace è stato sempre un motivo di grandissimo interesse per il pubblico. Questo non è successo per il Pugilatore, ma le circostanze del ritrovamento e la mancanza di notizie ne fanno veramente un mistero”.
La statua bronzea del Pugile in riposo, conosciuta anche come Pugile delle Terme o Pugile del Quirinale, scultura greca alta 128 cm, datata alla seconda metà del IV secolo a.C. e attribuita a Lisippo o alla sua immediata cerchia, fu rinvenuta nel 1885 a Roma alle pendici del Quirinale nell’area del convento di San Silvestro, insieme al cosiddetto Principe ellenistico, altro bronzo però non faceva parte dello stesso gruppo, probabilmente sculture che abbellivano le Terme di Costantino. L’opera, realizzata con la tecnica della fusione a cera persa e con il metodo indiretto, è un insieme di otto segmenti. Le labbra, le ferite e le cicatrici del volto erano fuse separatamente in una lega più scura o in rame massiccio. Separatamente erano fuse anche le dita centrali dei piedi (un aspetto tecnico già riscontrato nei bronzi di Riace) per permettere una più accurata modellazione degli spazi interdigitali. Lo stesso si dica per la calotta cranica che doveva permettere l’inserimento degli occhi policromi dall’interno.
La scultura rappresenta un pugile seduto, colto probabilmente in un momento di riposo dopo un incontro; le mani sono protette dai cesti (dal latino: caestus), grossi e complessi guantoni introdotti nella pratica pugilistica dal IV secolo a.C.: le quattro dita sono infilate in un pesante anello costituito da tre fasce di cuoio tenute insieme da borchie metalliche. “La forze di quest’opera”, spiegano gli storici dell’arte antica, “sta nel contrasto fra la quiete e il contenimento geometrico espressi dalle braccia appoggiate sulle gambe, e l’improvviso scatto della testa che si volta verso destra aprendo all’estetica lisippea del kairos”. Gli inserti in rame, sulla spalla destra, sull’avambraccio, sui guanti e sulla coscia, rappresentano gocce di sangue colate dalle ferite nell’atto del volgersi della testa.
Il corpo è muscoloso, reso con un trattamento non dissimile da quello riscontrabile nell’Eracle a riposo della versione Pitti-Farnese (Ercole Farnese); il viso, di cui si notano la cura della barba e della pettinatura, è di un uomo maturo e presenta i segni del tempo e dei numerosi incontri passati. Le tumefazioni sulle orecchie, in particolare, anche oggi riscontrabili negli atleti dediti alla lotta greco-romana o al Judo senza pregiudicarne le funzioni uditive, rimarcando le innumerevoli lotte passate sembrano indicare in una sordità traumatica la ragione di quel volgersi repentino e teso della testa, in contrasto con la spossatezza del corpo contribuendo all’impatto realistico dell’opera. Alcune estremità della statua si presentano leggermente più lucide a causa dello sfregamento di antichi ammiratori, ciò dimostra quanto l’opera fosse tenuta in considerazione. L’enfasi sulle ferite da combattimento ha portato a identificare il pugile con quel Mys di Taranto che vinse per la prima volta nel 336 a Olimpia al termine di una carriera coronata da sconfitte.
“Giocare in termini di comunicazione sulla grande attrattiva proposta da pezzi di questa importanza”, prosegue il soprintendente Prosperetti, “è fondamentale in una prospettiva in cui i beni culturali devono diventare la molla di un rinnovamento di questa città”. Più in generale, riferendosi al museo nazionale Romano di Palazzo Massimo, Prosperetti sottolinea che “merita un ripensamento perché lo straordinario valore dei pezzi che sono stati portati qui dentro merita un ambiente più al passo con i tempi. Stiamo studiando un progetto, ne parleremo quando sarà pronto”.
Dallas restituisce sei reperti trafugati dall’Italia
I dubbi che fossero oggetti antichi – etruschi e italici – di provenienza illegale il direttore del Dallas Museum of Art li aveva avuti fin dal suo insediamento, un po’ perché non era ben chiaro dove fossero stati trovati un po’ perché offerti da mercanti d’arte come Almagià, Becchina e Symes che avevano avuto guai con la giustizia proprio per la loro attività. Così due anni fa il direttore del Dma, Maxwell L. Anderson, decise di restituire all’Italia scudi, crateri, antefisse, in tutto sei capolavori provenienti da vari siti archeologici italiani. E in questi giorni si è concretizzato l’accordo di cooperazione tra Dallas e il nostro ministero per i Beni culturali che intensifica e promuove lo scambio interculturale tra gli Stati Uniti e l’Italia.
Non è la prima volta che le istituzioni americane ci restituiscono reperti trafugati dalla nostra penisola. Lo hanno fatto il Paul Getty di Los Angeles, il Metropolitan di New York, i musei di Boston, Princeton e Cleveland, alla fine – spesso – di un lungo braccio di ferro con le autorità italiane. Stavolta invece si tratta di una restituzione spontanea, premiata dall’Italia con un prestito lungo a Dallas di alcuni reperti da una tomba della necropoli di Spina, conservati nel museo Archeologico Nazionale di Ferrara. A dare l’annuncio lo stesso ministro per i Beni culturali, Massimo Bray: “Sono particolarmente soddisfatto per la felice risoluzione dei negoziati sia per la restituzione di sei oggetti di provenienza italiana che per lo splendido prestito da Spina, fruibile dal pubblico americano. Ringrazio, inoltre, il direttore del Museo di Dallas per la sua comprensione e anche tutti coloro che hanno contribuito alla felice conclusione di questo importante accordo culturale”. L’accordo prevede la restituzione di una coppia di scudi bronzei con testa di Acheloo; due crateri a volute; un cratere a calice e un’antefissa etrusca a testa femminile. Le opere rientreranno in Italia al termine di un periodo di prestito prolungato di 4 anni. Una volta tornate a casa, saranno consegnate alla direzione generale per le Antichità per essere sottoposte a studi scientifici e dopo saranno restituite ai territori di provenienza.
I tesori tornano a casa Tre delle opere verrebbero dall’Etruria. Per i due scudi di bronzo (del VI sec. a.C.) quasi mezzo metro di diametro, venduti al museo nel 1988, decorati con la testa di Acheloo – divinità fluviale della mitologia greca, che sfidò Eracle per contestargli il diritto di sposare Deianira, figlia di Eneo re degli Etoli, come narra Ovidio nelle Metamorfosi – la provenienza è incerta. Ma potrebbero provenire da Tarquinia dove una tomba ha restituito oggetti simili. Mentre l’antefissa, risalente al 500 a. C. circa, ancora policroma alta un palmo di mano, sarebbe riconducibile al contesto dell’Etruria meridionale, visto che l’immagine ha numerosi riscontri nell’area di Cerveteri. Sono invece dall’Italia meridionale due vasi restituiti: un grande cratere apulo a volute del IV secolo a.C. attribuito al pittore di Underworld e alto quasi un metro; un cratere apulo a calice del IV secolo e un coevo cratere a calice campano.
Prestito lungo a Dallas Gli oggetti in mostra a Dallas, prestati dal museo Archeologico Nazionale di Ferrara, provengono dalla tomba 512 del V sec. a.C. scavata a Spina ai primi del Novecento: ne fanno parte vasi attici a figure rosse, una fibula d’argento, una statuetta di bronzo e un vaso di alabastro. In tutto una trentina di opere (il museo ne possiede tantissime: è quindi una privazione che quindi non inficia le collezioni ferraresi) che saranno esposte fino al 2017 nelle gallerie al secondo piano del museo di Dallas. Il complesso 512 fu scoperto nell’estate del 1926 in una delle quattromila tombe della necropoli di Spina. “Siamo onorati ed entusiasti di continuare la nostra collaborazione – commenta il direttore del Museo di Dallas, Maxwell L. Anderson – con i nostri colleghi italiani. È una rara opportunità poter ammirare questi oggetti tutti insieme, ed evidenziare il loro ruolo combinato nelle pratiche funerarie antiche”.
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