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“Etiopia. Lontano lungo il fiume”: l’ultimo film di Lucio Rosa è stato scelto per la rassegna di Rovereto e per la rassegna di Licodia Eubea. Foto e immagini, rese più potenti dal viraggio in B/N, raccontano un viaggio che testimonia l’agonia dei popoli indigeni della valle dell’Omo la cui esistenza è gravemente minacciata

La valle dell’Omo, in Etiopia, raccontata dal film di Lucio Rosa (foto lucio rosa)

licodia-eubea_rassegna-del-documentario-e-della-comunciazione-archeologica-logorovereto_ram-film-festival_logo-colori_foto-fmcr.jpg.pngIl suo cuore è sempre in Africa. Lo dimostra anche il suo ultimo film “Etiopia. Lontano lungo il fiume” (Italia, 2021, 43’). Ma stavolta il regista Lucio Rosa, veneziano di nascita e bolzanino di adozione, farà fatica a essere presente in sala alla premier della sua opera, lui che ama confondersi tra il pubblico per cogliere le reazioni in diretta al messaggio lanciato dal grande schermo, perché il film “Etiopia. Lontano lungo il fiume” è stato selezionato sia per la prima edizione di Ram – Rovereto Archeologia Memorie (32ma Rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto), dal 13 al 17 ottobre 2021 (dove sarà proiettato il 13 ottobre) che per l’11ma Rassegna del Documentario e della Comunicazione archeologica di Licodia Eubea, dal 14 al 17 ottobre 2021 (dove sarà presentato il 16 ottobre), . E quest’anno – per una scelta incomprensibile – sono programmate entrambe nella seconda settimana di ottobre (tradizionalmente appannaggio della rassegna siciliana). “Mi sono sempre interessate le culture lontane“, confessa Rosa, “ed eccomi con questo film, che racconta di gruppi etnici che vivono in Etiopia, nel Sud della valle dell’OMO. Conosco abbastanza l’Etiopia per averci lavorato per alcune mie produzioni di film, in tempi ormai lontani. La vera scoperta di questi viaggi è stata l’Africa, un continente dalla storia millenaria, fatto di realtà molteplici e caleidoscopiche, che diventa per me un luogo dell’anima”.

Il regista Lucio Rosa, il “ragazzo con la Nikon (foto lucio rosa)

E così è tornato in campo “il ragazzo con la Nikon” (vedi Il regista Lucio Rosa regala un messaggio di speranza al 2019 con il nuovo film “Il ragazzo con la Nikon”, realizzato assemblando migliaia di foto di antichi villaggi, antiche dimore, antichi magazzini berberi: omaggio d’amore alla Libia che oggi per lui è “irraggiungibile” | archeologiavocidalpassato) ed ecco il nuovo film, con foto e immagini filmate originariamente a colori, e poi virate in BN, “il vero colore della fotografia e del cinema…”: “Con la macchina fotografica e  l’essenzialità del bianco e nero – che strappa via l’inutile colore che rende troppo vasto, e nello stesso tempo ridotto, il campo delle emozioni da tradurre -, abbiamo voluto documentare  quello che, oggi ancora, rimane di questa “anima originaria”  di popoli eredi di storie millenarie e di una cultura che li rende unici al mondo, “storie” di realtà complesse e sfuggenti”. E continua: “Adopero il mio obiettivo per raccontare il presente e il passato di questa Terra, delle sue genti, alcune delle quali oggi a rischio di estinzione. Tutto ciò mi ha condotto a una ricerca continua nel Continente che ci ha dato la vita, e mi ha permesso di “raccontare” infinite storie di varia umanità, di entrare nella gente per comprenderne l’animo e la loro vicenda umana colma di insidie ma  non solo”.

Il regista Lucio Rosa tra i Mursi in Etiopia (foto lucio rosa)

Per realizzare il film Lucio Rosa si è avvalso di immagini realizzate negli anni 2014, 2015, 2016, mixate con filmati, alcuni dei quali (come l’abbattimento delle foreste, o l’agricoltura con aratro) sono stati raccolti nel suo “enciclopedico archivio”. Ma il testo è attuale, ed è al contempo un appello disperato per queste popolazioni a rischio e al contempo un atto di denuncia in un contesto geo-politico difficile: “Descrivo la situazione attuale di decadenza e di pericolo di estinzione di queste genti, di queste fragili culture. Le usanze, gli stili di vita ancestrali di queste genti, rimasti intatti per millenni grazie al loro totale isolamento, costituivano un vero museo etnografico vivente. Ma ci ha pensato l’uomo moderno a distruggere questa umanità diversa e straordinaria, “strappandola” dal proprio mondo”. Alla fine di questo viaggio, Lucio Rosa si chiede: “Siamo stati, forse, testimoni dell’agonia di questi popoli indigeni che hanno la loro esistenza gravemente minacciata e che vanamente lotteranno contro “golia” per mantenere intatta la loro identità?”.

La cartina della valle dell’Omo, nel Sud dell’Etiopia, con i gruppi etnici che qui vi vivono (foto lucio rosa)

La valle dell’OMO. “È un’Africa profonda, quella del Sud della valle dell’Omo”. Il racconto di Lucio Rosa si snoda tra frammenti di filmati e fotografie che fissano volti, gesti, tradizioni di questi popoli lontani. “Il tempo resta sospeso, quasi voltando le spalle. Si cela nel lungo passato, dal quale emergono tracce tuttora vivide. Natura e uomo indissolubilmente intrecciati danno forma e razze ed etnie adagiate su un mosaico inclinato e multiforme. Noi occidentali dobbiamo denudarci senza indugio per tentare di cogliere le anime originarie e ancestrali della valle dell’Omo. Solo così può emergere un pensiero d’Africa remota, in equilibrio sui pilastri ancestrali della magia e delle origini dell’uomo. Un microcosmo fragile e compatto preserva i tratti dei Karo, dei Konso, dei Mursi, degli Hamer, dei Dassanech… Eppure, perfettamente visibili, queste isole arcaiche non si sottraggono del tutto alla vista delle nostre presunte civiltà globalizzate. La minaccia resta intatta. La distruzione di queste fragili culture è sempre una previsione per taluni fin troppo facile. Sarà così?”.

Donne Dassanech al lavoro davanti a una capanna del villaggio (foto lucio rosa)

Gruppo etnico DASSANECH. Nella parte più meridionale della valle dell’Omo, non lontano dal delta del fiume che si spinge in Kenya verso il lago Turkana, vivono i Dassanech, il “Popolo del delta”. I Dassanech sono  una popolazione seminomade di circa 30mila individui. Parlano un idioma che appartiene al ceppo linguistico delle lingue cuscitiche ed è il gruppo tribale che vive nella zona più meridionale dell’Etiopia. I Dassanech sono tradizionalmente dediti alla pastorizia e gli uomini sono spesso lontani dai villaggi con le mandrie costretti a spostarsi alla ricerca di nuovi pascoli e dell’acqua necessaria per la vita degli armenti. L’agricoltura non è comunque estranea alla cultura dei Dassanech che riescono a praticarla  esclusivamente in prossimità del corso del fiume Omo, dato che il clima estremamente arido lo impedisce nel resto del loro territorio. Il fiume fornisce in abbondanza l’acqua necessaria. È una lotta continua per avere qualche alternativa al pasto quotidiano, solitamente composto da latte, miglio o sorgo, l’alimento principale nella dieta dei Dassanech. La carne appare solo in certe particolari occasioni di festa.

Le ricche collane e l’elaborata acconciatura di una donna Dassanech (foto lucio rosa)

I Dassanech prestano molta cura al loro aspetto. Donne, ma anche gli uomini, non si sottraggono al voler apparire. Collane, bracciali, orecchini, la fanno da padroni. Si indossano a tutte le età. Sono  come una seconda pelle. Le donne raccolgono i capelli in complicate acconciature che identificano anche il loro status sociale. Una consuetudine delle giovani Dassanech è quella  di praticarsi un foro sotto il labbro inferiore per inserirvi delle piume. Può sembrare una civetteria, ma si tratta di una usanza molto antica.

Uomini Karo lungo la riva orientale del fiume Omo (foto lucio rosa)

Gruppo etnico KARO. Lungo le rive dell’Omo inferiore si incontrano i villaggi dei Karo, una popolazione di poco più di 1000 individui la cui sopravvivenza è seriamente minacciata. “Un tempo, i Karo, vivevano su entrambe le sponde del fiume ma, a causa dei conflitti sanguinosi degli anni tra il 1980 ed il 1990 con la tribù dei Nyangatom, loro storici avversari, sono stati costretti a migrare sulla riva orientale. Per il continuo pericolo di aggressioni, sempre possibili, i villaggi dei Karo sono protetti da recinti di rami e piccoli tronchi. Guerrieri armati vigilano giorno e notte, sulla vita della comunità. Per le armi ci pensa il Sudan, sempre un solerte fornitore”. Il popolo dei Karo è comunque destinato ad estinguersi e nei pochi villaggi ancora esistenti sopravvivono solo alcune centinaia di individui. Basterebbe una epidemia per causare la loro estinzione. Inoltre sono molte le ragazze Karo che preferiscono sposare uomini di un gruppo etnico più forte che offra loro maggior sicurezza. È nel gruppo etnico degli Hamer, che le giovani Karo sperano di trovare “l’anima gemella” che possa offrire loro una vita confortevole.

Donna Borana con il figlioletta (foto lucio rosa)

Gruppo etnico BORANA, “genti dell’aurora” in lingua Boru. Sono un gruppo etnico che vive distribuito nel sud dell’Etiopia, Oromia, tra il lago Stefania e l’arido Nord del Kenya. Appartengono al vasto gruppo degli Oromo che occupa buona parte dell’Etiopia e di cui ritengono  essere “l’etnia primigenia”. Parlano un dialetto della lingua Oromo l’afaani Boraana. Si stima siano tra i 400 e i 500mila individui, sparsi nei due paesi e divisi in più di un centinaio di clan. Sono pastori semi-nomadi. Allevano zebù, mucche, ovini, che forniscono latte e carne per le esigenze alimentari. Vivono in raggruppamenti di poche capanne circolari. Alla base della cultura dei Borana vige il concetto dell’ordine, dell’equilibrio fra giovani e anziani, fra uomini e donne, e fra tutto ciò che  è fisico e quello che è spirituale. Se perdi l’equilibrio, entri nel regno del caos.

Una delle strette stradine che corrono all’interno di un villaggio Konso (foto lucio rosa)

Gruppo etnico KONSO. Tra le colline a sud del lago Chamo, in un territorio montagnoso che si estende lungo il margine orientale della valle dell’Omo ad una altezza intorno ai 1500 metri, vivono i Konso, un popolo di agricoltori sedentari. I villaggi dei Konso, a scopo difensivo, sono arroccati sulle falesie che dominano le ampie vallate. Legno e pietra sono gli elementi che caratterizzano questi insediamenti. I Konso sono una popolazione di circa 20.000 individui. Possono essere di religione cattolica, cristiana-ortodossa o musulmana, ma effettuano ancora riti pagani propri della religione animista. Sono un popolo unito da una forte solidarietà. I Konso abitano un vasto territorio. Vivono sparpagliati in 48 villaggi e suddivisi in 9 clan esogamici.

La decorazione del viso di una donna Hamer (foto lucio rosa)

Gruppo etnico HAMER, una popolazione di circa 50mila individui. Le origini di questo popolo sono ignote, ma alcuni racconti tradizionali riferiscono che gli Hamer discendono dall’unione di tribù che provenivano dal Nord, dall’Est e dall’Ovest, e che, migrate verso Sud, si sono stabilite in questi luoghi sulle montagne a Nord del lago Turkana. Gli Hamer vivono in villaggi tradizionali, dove abitano più famiglie imparentate tra loro ma dove ogni famiglia vive nella propria capanna. Il bestiame per gli Hamer, oltre ad essere una importante fonte per la sopravvivenza e uno status symbol. Un uomo è tanto più ricco quanti più capi di bestiame possiede, inoltre per potersi sposare deve pagare un prezzo ai genitori della sposa quantificato in capi di bestiame. Gli Hamer prestano molta attenzione e dedicano molto tempo alla cura del loro aspetto fisico. Un segno di una certa ambizione nell’apparire si intuisce, sia tra le donne che tra gli uomini, nella cura, quasi maniacale,  con cui ornano il proprio corpo.

La cerimonia del “salto dei tori” tra gli Hamer (foto lucio rosa)

L’usanza più radicata e controversa della cultura Hamer è la cerimonia del “salto dei tori”, Uklì Bulà, una prova di coraggio e di forza, prova che consiste nel correre sulle schiene di una fila di tori affiancati, senza cadere. L’iniziato,”ukuli”, nell’idioma degli Hamer, secondo consuetudine si è rasato metà del capo e attende impaziente che giunga il suo momento per entrare in campo. L’attesa è lunga ed estenuante e il sole è già scomparso oltre la corona di montagne quando si dà il via alla “cerimonia”. Si tratta di un evento molto atteso, che richiama sempre molta gente anche da villaggi lontani. La prova dell’Uklì Bulà è preceduta da un “prologo” che agli occhi di noi occidentali può apparire arcaico e cruento.

Una coppia del gruppo etnico Arbore tra le capanne del villaggio (foto lucio rosa)

Gruppo etnico ARBORE. In vicinanza del lago  Chew Bahir, (si legge ciù bahìr) ex lago Stefania, nella regione sud-occidentale della valle dell’Omo, vive il popolo degli Arbore, un gruppo etnico che non supera i 4mila individui. Sono di religione islamica, ma sono ancora molto presenti credenze tradizionali. L’allevamento del bestiame è la loro principale risorsa, rappresenta la primaria fonte di sussistenza e, come per molti altri popoli che vivono in queste regioni, è anche indice di appartenenza ad una classe socio-economica elevata. Per antica tradizione le ragazze non ancora sposate hanno il capo rasato. È un simbolo di verginità. Dal collo delle donne scendono a grappoli numerose collane di perline multicolori. Oggi le perline hanno perso  il fascino del vetro al quale si è sostituita la volgare e grossolana plastica.

Donne Mursi con il caratteristico piattello labiale (foto lucio rosa)

Gruppo etnico MURSI. Nei territori situati al confine settentrionale del parco Mago, incontriamo i Mursi, un  popolo di circa 8mila individui. Un gruppo tribale che ha vissuto isolato per secoli dal resto della società etiope e dall’influsso straniero. Ma dagli ultimi decenni non è più così e sono rare le possibilità di incontrare un gruppo che abbia mantenuto integri gli elementi culturali originari. Ogni incontro con questa cultura deve avvenire quasi in silenzio, con molto rispetto. L’usanza del piattello labiale, caratteristica delle donne Mursi, per alcuni antropologi, pare abbia avuto origine nel periodo della tratta degli schiavi. Il volto così sfigurato poteva essere un deterrente, un modo per deprezzare la donna e quindi utile a dissuadere gli schiavisti dal portarla via e una opportunità di salvezza per lei. Il piattello labiale è un segno di prestigio per la donna che lo porta ma è anche un segno di ricchezza. Sicuro è il valore economico del piattello. Più grande è, maggiore sarà il numero di capi di bestiame che la sua famiglia chiederà al pretendente per cederla in sposa.

“ETIOPIA. “Lontano”, lungo il fiume”: a Bolzano la mostra fotografica di Lucio Rosa, reportage sui gruppi etnici (molti a rischio estinzione) che popolano la bassa valle del fiume Omo

La locandina della mostra fotografica di Lucio Rosa “ETIOPIA. “Lontano”, lungo il fiume” alla Galleria civica di Bolzano (foto Lucio Rosa)

La galleria civica di Bolzano (foto Lucio Rosa)

L’Africa resta nel suo cuore, perché quella vera per ora è irraggiungibile. Così Luco Rosa, il regista fotografo, veneziano di nascita e bolzanino di adozione, da quasi mezzo secolo impegnato nella realizzazione di film documentari, reportage anche fotografici, programmi televisivi, per televisioni nazionali ed estere, l’Africa ha deciso di portarla nella sua Bolzano con la mostra fotografica “ETIOPIA. “Lontano”, lungo il fiume” alla Galleria civica di piazza Domenicani dal 9 al 28 gennaio 2020 (vernice l’8 gennaio, alle 18). “È un’Africa profonda, quella del sud della valle dell’Omo”, sintetizza Lucio Rosa. “Il tempo resta sospeso, quasi voltando le spalle. Si cela nel lungo passato, dal quale emergono tracce tuttora vivide”. Nella bassa valle del fiume Omo, in Etiopia, esistono ancora dei luoghi che conservano, in una dimensione senza tempo, un incredibile mosaico di razze e di gruppi etnici, vive tracce di antiche tradizioni, una commistione tra le radici dell’uomo e la natura. Natura e uomo, indissolubilmente intrecciati, danno forma a razze e gruppi etnici adagiati su un mosaico multiforme. Un microcosmo fragile e compatto preserva i tratti dei Dassanech, dei Karo, dei Borana, dei Konso, degli Hamer, degli Arbore, dei Mursi. “Per potersi avvicinare a questo mondo, cercare di comprendere l’anima originaria delle tribù che qui vivono”, spiega il regista, “dobbiamo abbandonare le nostre certezze ed ogni pregiudizio occidentale. Solo così si può cogliere la ricchezza di culture di un mondo da noi così distante e cogliere l’autentica Africa, l’anima originaria di genti “lontane”. Eppure, perfettamente visibili, queste isole arcaiche non si sottraggono del tutto alla vista delle nostre presunte civiltà globalizzate”. La minaccia resta intatta e la distruzione di queste fragili e preziose culture è sempre una previsione per taluni fin troppo facile. “Sarà così?” è l’emblematica domanda-denuncia che Lucio Rosa lancia attraverso la mostra a quanti sono in potere di fare qualcosa.

La cartina della bassa valle dell’Omo in Etiopia con i gruppi etnici presenti

Etiopia “Land Grabbing”. È dal 2008 che in tutta la bassa valle dell’Omo si sta verificando un rapido cambiamento delle condizioni di vita a scapito dei deboli della Terra, come sono i gruppi etnici che qui cercano di sopravvivere. Il governo etiope disbosca ampi territori sottraendoli brutalmente ai gruppi tribali distruggendo i loro pascoli. E il bestiame è l’unica fonte di sostentamento di questa gente. Questi vastissimi territori vengono dati in concessione ad imprese multinazionali malesi, finlandesi, turche, olandesi, italiane, coreane, specializzate nella coltivazione della canna da zucchero, cotone, palma da olio, mais per produrre biocarburanti. I gruppi etnici che vivono nella bassa valle dell’Omo e che non dispongono più degli spazi necessari per la vita dei loro armenti, sono destinati a scomparire. O diventano braccianti agricoli, perdendo la loro identità, costretti ad accettare salari da sfruttamento imposti dalle multinazionali, oppure sono costretti ad andarsene, non si sa dove. Chi si oppone e fa resistenza rischia il carcere o l’isolamento in villaggi “riserva”. E così sparirà da questi luoghi anche il turismo, culturale o non che sia, che ancora oggi è attratto da questo mondo “antico” e da queste “lontane” culture.

Una donna del gruppo etnico Dassanech (foto Lucio Rosa)

Gruppo etnico Dassanech. Nella parte più meridionale della valle dell’Omo, in un territorio semi arido, non lontano dal delta del fiume Omo che si spinge in Kenya verso il lago Turkana, vivono i Dassanech, il “Popolo del delta”. Sono una popolazione di circa 30mila individui. Originariamente erano stanziati in Kenya, lungo entrambe le rive del lago Turkana, ma negli ultimi 60 anni, sono stati esclusi da questi territori e quindi, avendo perso la maggior parte delle loro terre tradizionali, una gran parte dei Dassanech è migrata nella bassa valle dell’Omo. Nonostante l’influenza del fiume e del lago, il territorio è estremamente secco, un deserto. I Dassanech sono tradizionalmente dediti alla pastorizia, ma negli ultimi anni praticano anche una agricoltura di sussistenza, lottando contro un ambiente a loro ostile.

Donne del gruppo etnico Karo (foto Lucio Rosa)

Gruppo etnico Karo. Lungo le rive dell’Omo inferiore si trovano i villaggi dei Karo, una popolazione di poco più di 1000 individui la cui sopravvivenza è seriamente minacciata. Nonostante le incertezze che colpiscono la loro dura esistenza, un innocente entusiasmo sembra coinvolgere i Karo nel “vestire” i loro corpi con pitture eseguite con il gesso. Sono motivi elaborati che non hanno un significato simbolico ma un carattere puramente estetico. Un tempo vivevano su entrambe le sponde del fiume ma, a causa dei conflitti sanguinosi degli anni tra il 1980 ed il 1990 con la tribù dei Nyangatom, loro storici avversari, sono stati costretti a migrare sulla riva orientale. ll popolo dei Karo è comunque destinato ad estinguersi e nei pochi villaggi ancora esistenti sopravvivono solo alcune centinaia di individui. Basterebbe una epidemia per causare l’estinzione dell’etnia. Inoltre sono molte le giovani Karo che preferiscono sposare uomini di un gruppo etnico più forte che offra maggior sicurezza, vedi gli Hamer, e che lasciano il villaggio paterno per formare una nuova famiglia nel villaggio del futuro marito. Nel villaggio Karo tutto ciò determina una crisi demografica senza fine che porterà all’estinzione dell’etnia e all’assimilazione di un intero popolo.

Un uomo del gruppo etnico Borana (foto Lucio Rosa)

Gruppo etnico Borana. I Borana (“genti del mattino”) sono un gruppo etnico che vive distribuito tra il Sud dell’Etiopia (Oromia) e l’arido Nord del Kenya. Appartengono al vasto gruppo degli Oromo, di cui ritengono essere “l’etnia primigenia” e di essere gli unici a vivere ancora secondo le antiche tradizioni. Si stima siano tra i 400 e i 500mila individui, sparsi nei due Paesi e divisi in più di un centinaio di clan. Sono un popolo semi-nomade di pastori. Allevano zebù, mucche, cammelli, capre, pecore, asini. Recentemente hanno iniziato a dedicarsi anche all’agricoltura e sono diventati sempre più sedentari. La religione tradizionale è fondata sulla concezione del Dio unico, Waaka. Parlano un dialetto della lingua Oromo, l’afaani Boraana. I Borana sono provetti ingegneri idraulici. Nelle loro aride terre in cui vivono, l’acqua non è sempre disponibile. Per procurarsela i Borana hanno scavato profondi pozzi a gradoni che arrivano a superare anche i 30 metri di profondità e che ancora oggi utilizzano nei periodi di siccità. Nella stagione secca, i giovani Borana si calano lungo il pozzo nelle viscere della terra per prelevare l’acqua che, formando una vera catena umana, con la tecnica del passamano, portano in superficie in recipienti ricolmi. Il lavoro è accompagnato dal loro canto da cui il nome di “pozzi cantanti”. Il canto dà al lavoro un senso di gioia e aiuta a mantenere il ritmo nel ripetersi dei gesti.

Un villaggio del gruppo etnico Konso (foto Lucio Rosa)

Gruppo etnico Konso. Tra le colline a Sud del lago Chamo, in un territorio montagnoso che si estende lungo il margine orientale della valle dell’Omo a una altezza intorno ai 1500 metri, vivono i Konso, un popolo di agricoltori sedentari, un gruppo etnico di lingua cuscitica. I villaggi dei Konso, a scopo difensivo, sono arroccati sulle falesie che dominano le ampie vallate. Legno e pietra sono gli elementi che caratterizzano questi insediamenti. Strade e stradine, delimitate da muretti in pietra a secco, intersecano i villaggi che si presentano come un fitto labirinto di recinti. I vicoli si fanno sempre più stretti mano a mano che salgono verso la sommità della falesia. Un vero dedalo per disorientare e rendere difficile l’accesso al villaggio ad eventuali nemici. I Konso sono una popolazione di circa 20mila individui. Possono essere di religione cattolica, cristiana-ortodossa o musulmana, ma effettuano ancora riti pagani propri della religione animista. La loro abitazione è una capanna circolare con il tetto di paglia. Sulla sommità un vaso di terracotta, privato della base, ne sigilla l’apertura. La sua forma, sempre diversa, identifica la famiglia che ci abita. Al centro del villaggio si trova un alto “totem” (olahita), l’albero delle generazioni. È costruito con tronchi di juniper, un legno molto duraturo. Ogni 18 anni si aggiunge un nuovo tronco per segnare l’inizio di una nuova generazione. Diventa quindi una sorta di calendario tradizionale, un indicatore dei passaggi generazionali.

Le Wagas, caratteristiche statute in legno dei Konso (foto Lucio Rosa)

Gruppo etnico Konso: le Wagas. Suggestive, enigmatiche appaiono queste nude figure in legno, corrose dalla pioggia e dal tempo, che vogliono essere espressione delle imprese dell’uomo. Sono chiamate Wagas nella lingua dei Konso, cioé “qualche cosa dei padri”. Sono statue commemorative dedicate a un defunto dal passato importante, un uomo che ha protetto la sua gente, che ha ucciso un nemico o un animale feroce, come un leone o un leopardo. Si trovavano presso la sua tomba, spesso, con accanto la Wagas della moglie. Il culto degli antenati, attraverso le sembianze di questi Totem, ha per i Konso una grande importanza, perché tramanda la vita e la storia personale di un eroe, di un uomo importante. Tale usanza è solo un ricordo ed è affidata a vecchie fotografie come questa che mostriamo scattata nel 1905 da Renato Biasutti, geografo, etnologo. Fortunatamente, questi Totem vengono ora protetti e tutelati in un museo.

Un giovane del gruppo etnico Hamer (foto Lucio Rosa)

Gruppo etnico Hamer. Hamer è un gruppo etnico indigeno che vive nel sud dell’Etiopia, nel bacino della valle del fiume Omo. Il censimento del 2007 ha contato 46.532 individui di etnia Hamer. Sono pastori, ma praticano anche una agricoltura di sussistenza. Nella popolazione dei pastori Hamer, sia le donne che gli uomini sono molto “ambiziosi” e prestano molta cura al proprio corpo. Le donne Hamer, altere e bellissime, sono infaticabili. Impegnate nell’allevare i figli, nel preparare i pasti per la famiglia, nell’accudire all’abitazione. Ma tutto ciò non impedisce loro di dedicarsi anche alla cura della bellezza. Una caratteristica estetica, un segno inconfondibile delle donne Hamer, è l’elaborata pettinatura, sfoggiata con fierezza. La tipica acconciatura, chiamata “goscha”, è ottenuta dall’intreccio di sottilissime treccine spalmate di burro, ocra, polvere di ferro e argilla. Le donne indossano strette collane di ferro, gli “ensente”. Si tratta del dono di fidanzamento che la donna porterà per tutta la vita. Al momento del matrimonio, e se si tratta della prima moglie, la donna può portare un secondo collare di ferro, chiamato “bignere”, che presenta una protuberanza fallica e che viene aggiunto ai collari del fidanzamento. Gli uomini che abbiano ucciso un nemico oppure un animale feroce, pericoloso come un leone o un leopardo, si fregiano di una particolare acconciatura sul capo. Con l’argilla, che viene impastata direttamente sulla testa, formano una originale crocchia, una specie di caschetto che viene dipinto con ocra. Un piumaggio, preferibilmente di struzzo, completa l’acconciatura. È un segno di riconoscimento per il coraggio dimostrato. Come in molte altre culture, anche tra gli Hamer vige un complesso sistema di classi sociali. Un evento chiave della cultura di tutte le comunità che abitano nel cuore della valle dell’Omo, è il rito che celebra il passaggio di classe d’età dei giovani adolescenti. Uno dei riti più radicati e controversi della cultura Hamer è la cerimonia del “salto dei tori”, Uklì Bulà, rito che sancisce il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. I giovani Hamer sono chiamati a dimostrare forza e coraggio saltando e correndo sui dorsi dei tori senza cadere, il che li farebbe risultare “sconfitti”. Superata la prova, i giovani diventano “adulti” e potranno sposarsi, possedere del bestiame ed avere dei figli. La cerimonia inizia con un “prologo” che agli occhi di noi occidentali può apparire arcaico e cruento. Le giovani Hamer, per mostrare che il loro coraggio è pari a quello degli uomini, si lasciano fustigare dai Maza, cioè da giovani che hanno già superato la prova del salto in anni precedenti, ma che sono ancora da sposare. Le giovani Hamer non subiscono questa che a noi appare una violenza. Anzi, per dimostrare la loro fierezza sfrontatamente affrontano i Maza per invitarli a colpirle. Questo atto violento lascerà sui corpi delle ragazze profonde cicatrici che verranno ostentate con orgoglio.

Una giovane del gruppo etnico Arbore (foto Lucio Rosa)

Gruppo etnico Arbore. Un popolo fiero, quello degli Arbore, che ora non supera i 4000 individui. Vivono nei pressi del lago Chew Bahir (ex lago Stefania) nella pianura ad ovest del fiume Woito. Sono di religione islamica, ma sono ancora molto presenti credenze tradizionali che riconoscono un unico Dio creatore, chiamato Waaqa. Grazie all’acqua presente nel loro territorio, si dedicano ad una piccola agricoltura. Ma sono anche pastori. Dal collo delle donne scendono a grappoli numerose collane. Donne molto belle con un portamento fiero e deciso, quasi di sfida. Si ritiene che gli Arbore provengano da lontane terre orientali e che, quasi certamente, il loro sangue sia misto. La loro discendenza li pone tra i popoli che anticamente abitavano la valle dell’Omo e gli altopiani di Konso, come i Borana e i Dassanech.

Donne di etnia Mursi con il caratteristico piattello labiale (foto Lucio Rosa)

Gruppo etnico Mursi. “Queste tribù selvagge hanno tendenze detestabili e abitudini bestiali, eppure non mostrano l’indole feroce”. Così appuntavano, nel 1896, nel loro diario di viaggio Lamberto Vannutelli e Carlo Citerni al seguito della spedizione condotta da Vittorio Bottego alla scoperta del fiume Omo e della sua foce, primi occidentali ad incontrare questo popolo. L’incontro dei primi esploratori con una donna Mursi non può non averli lasciati sbalorditi. Il piattello labiale altera le sembianze del volto e può sembrare una usanza, come hanno riportato Vannutelli e Citerni, “detestabile e bestiale”. L’usanza del piattello labiale, per alcuni antropologi, pare abbia avuto origine nel periodo della tratta degli schiavi. Il volto così sfigurato poteva essere un deterrente, un modo per deprezzare la donna e quindi utile a dissuadere gli schiavisti dal portarla via e una opportunità di salvezza per lei. Il piattello labiale è un segno di prestigio per la donna che lo porta ma è anche un segno di ricchezza. Sicuro è il valore economico del piattello. Più grande è, maggiore sarà il numero di capi di bestiame che la sua famiglia chiederà al pretendente per cederla in sposa. I Mursi, o Murzu, sono pastori nomadi, in continuo movimento alla ricerca di pascoli e acqua per il loro bestiame. Per proteggersi da attacchi di possibili nemici, i Mursi, donne e uomini, presidiano armati con armi automatiche i loro villaggi. Le mandrie di bovini rappresentano la ricchezza di questa gente, ma fanno anche gola a molti altri e l’abigeato è un male assai comune, qui. Secondo il censimento del 2007 i Mursi costituiscono una comunità di circa 7500 persone. Ma il loro numero diminuisce sempre più a causa delle condizioni sanitarie estremamente precarie, dei prolungati periodi di siccità e del loro spostamento forzato verso le terre aride dell’Est.

Il regista Lucio Rosa, “Il ragazzo con la Nikon”, fa capolino dietro la sua macchina fotografica

“Questo mio “viaggio” è finito”, chiude Lucio Rosa. “Sono 115 le immagini che propongo. Immagini che non si limitano a mostrare le genti che vivono in questo estremo angolo d’Africa nel sud dell’Etiopia. Sono immagini che indagano, scrutano i loro volti, i loro sguardi, ogni loro atteggiamento, le loro fattezze e che “raccontano” a volte fierezza, a volte gioia, a volte tristezza. Genti “lontane” di un mondo che, forse, è giunto alla fine del suo “viaggio” e che inevitabilmente stiamo perdendo”. A corollario della mostra fotografica “ETIOPIA. “Lontano”, lungo il fiume”, il museo civico di Bolzano propone, nella sala delle Stufe, la proiezione di alcuni film del regista Lucio Rosa: mercoledì 15 gennaio 2020, alle 18, “BILAD CHINQIT” (59’); giovedì 16 gennaio 2020, alle 18, “IL SEGNO SULLA PIETRA” (59’); venerdì 17 gennaio 2020, alle 18, “BABINGA, piccoli uomini della foresta” (25’) e, a seguire, “IL “RAGAZZO” CON LA NIKON” (30’).