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Pompei. La Casa di Orione nella Regio V era di un gromatico. Secondo il parco archeologico di Pompei e il Politecnico di Milano i mosaici scoperti mostrano analogia con le illustrazioni dei codici dei gromatici romani

Pianta della Casa di Orione scoperta nella Regio V di Pompei (foto parco archeologico di Pompei)

L’arte degli agrimensori romani emerge dai pavimenti rinvenuti nei nuovi scavi a Pompei. Gli enigmatici mosaici recentemente rivenuti nella Casa di Orione (altrimenti nota come casa di Giove) nella Regio V hanno attirato l’attenzione di Massimo Osanna, direttore generale del Parco Archeologico di Pompei, che, insieme a Luisa Ferro e Giulio Magli della Scuola di Architettura del Politecnico di Milano, ha proposto una nuova interpretazione nel recente articolo “Gromatics illustrations from newly discovered pavements in Pompeii” per la Cornell University: questi mosaici avrebbero una chiara analogia con le illustrazioni dei codici dei gromatici romani, tecnici altamente specializzati che si occupavano della misurazione della terra e del tracciamento delle linee per la fondazione delle città, utilizzando uno speciale strumento topografico chiamato, appunto, groma. Il rinvenimento è avvenuto nel corso dei nuovi scavi della Regio V, nella casa chiamata “di Orione”, dai bei mosaici che ne decorano due stanze, presentati nel libro del direttore Osanna “Pompei. Il tempo Ritrovato” Ediz. Rizzoli (vedi https://archeologiavocidalpassato.com/2019/11/24/lunedi-speciale-a-pompei-riapre-via-del-vesuvio-con-la-recente-scoperta-della-casa-di-leda-e-il-cigno-e-la-casa-degli-amorini-dorati-e-per-la-prima-volta-il-pubblico-ammirera-le-terme-centrali-in/).

Gli ambienti della Casa di Orione nella Regio V di Pompei con i disegni dei cerchi simili a quelli dei codici dei gromatici romani (foto parco archeologico di Pompei)

La scoperta fa pensare che il proprietario dell’edificio fosse un gromatico. Nello specifico, la prima di queste immagini è un quadrato inscritto in un cerchio tagliato da due linee perpendicolari, una delle quali coincide con l’asse longitudinale dell’atrio della casa e appare come una sorta di rosa dei venti che identifica una divisione regolare del cerchio in otto settori equidistanti: l’immagine è sorprendentemente simile a quella usata nel codice medievale per illustrare il modo in cui i Gromatici dividevano lo spazio. La seconda immagine, invece, mostra un cerchio con una croce ortogonale incisa al suo interno, collegata da cinque punti disposti come una sorta di piccolo cerchio a una linea retta con una base: essa appare come la rappresentazione di un Groma.

La ricostruzione di una groma per la mostra “Homo Faber” all’antiquarium di Boscoreale (foto parco archeologico di Pompei)

Le competenze tecniche degli agrimensori romani – i tecnici incaricati delle centuriazioni (divisione delle terre) e di altri sondaggi come la pianificazione delle città e degli acquedotti – sono leggendarie. Ad esempio, progetti di centuriazioni estremamente precisi sono ancora visibili oggi in Italia e in altri paesi del Mediterraneo. Il loro lavoro aveva anche connessioni religiose e simboliche legate alla fondazione di città e alla tradizione etrusca.

Il rilievo di Popidius Nicostratus con la raffigurazione di attrezzi agrimensori all’Antiquarium di Boscoreale (foto parco archeologico di Pompei)

Questi tecnici erano chiamati Gromatici per il loro principale strumento di lavoro, chiamato Groma. Quest’ultima si basava su una croce fatta di quattro bracci perpendicolari, ciascuno dei quali portava corde con pesi identici, che fungevano da filo a piombo. L’Agrimensore poteva allineare con estrema precisione due linee a piombo molto sottili opposte con pali di riferimento tenuti a varie distanze da assistenti o fissati nel terreno, allo stesso modo in cui le paline (pali rossi e bianchi) vengono utilizzate nella moderna rilevazione del teodolite.

Illustrazioni dai testi medievali dei gromatici (foto parco archeologico di Pompei)

Finora l’unico esemplare mai ritrovato di questo strumento proveniva dagli scavi di Pompei mentre le immagini che illustrano il lavoro dei Gromatici vennero trasmesse soltanto dal codice medievale, risalente a molti secoli dopo che l’arte degli Agrimensores non era più praticata. Così sembra che ancora una volta Pompei sia il luogo in cui possano emergere nuove informazioni su questi antichi architetti.

“On the road”: in cammino sulla via Emilia. Nella mostra di Reggio Emilia, si va dalla sala Regium Lepidi 3D al tracciato in epoca preromana, ai miliari fino alla descrizione dell’itinerario da Gades a Roma

Frammento del fregio dalla Basilica Emilia con costruttori di città, conservato al museo nazionale Romano (su concessione del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo)

La locandina della mostra “On the road – Via Emilia 187 a.C. – 2017” a Reggio Emilia

Strada come viaggio della vita, scrive Jack Kerouac nel suo On the road, come luogo di partenza-arrivo-ripartenza, perché l’andare è importante quanto la meta. “Strada, è quanto mai il caso della via Emilia”, sottolinea il sindaco di Reggio Emilia, Luca Vecchi, “in cui è facile tornare, e fermarsi, abitare, incontrare, fondere idee, culture, invenzioni, oggetti, soprattutto popoli e persone”. E allora, dopo esserci fatti un’idea sommaria della mostra “On the road – Via Emilia 187 a.C. – 2017” aperta fino al 1° luglio 2018 al Palazzo dei Musei di Reggio Emilia (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/01/14/on-the-road-la-mostra-di-reggio-emilia-propone-una-riflessione-sulla-storia-della-via-emilia-e-sul-suo-fondatore-sul-significato-della-strada-nella-contemporaneita-in-un-itinerari/), accogliamo l’invito del primo cittadino reggiano e iniziamo il nostro cammino lungo la via Emilia, seguendo l’allestimento dell’esposizione curata da Luigi Malnati, Roberto Macellari e Italo Rota. Nell’atrio del Palazzo dei Musei ci accoglie il portale Aemilio’s Road che, evocando la facciata di un tempio romano, esibisce il particolare del fregio della Basilica Aemilia in Roma, dove viene rappresentato Marco Emilio Lepido come costruttore di città. Superato il portale, prima di affrontare il percorso vero e proprio della mostra, scopriamo le collezioni storiche conservate tutte al piano terra del Palazzo dei Musei.

Due moderni legionari nel portico dei marmi del Palazzo dei Musei di Reggio Emilia

Una postazione olografica nella Sala Regium Lepidi 3D (foto Graziano Tavan)

È qui infatti che si aprono il chiostro dei marmi romani (allestito in forma di giardino archeologico agli inizi del XX Secolo per ospitare i numerosi reperti architettonici romani rinvenuti nella necropoli di San Maurizio) e il portico dei marmi, dove sono esposti in sequenza i monumenti funerari riportati alla luce dal XV Secolo ad oggi fra Villa Ospizio e San Maurizio, vera e propria Via Emilia dei defunti, che ogni viandante avrebbe percorso in arrivo o in uscita da Regium Lepidi. E non dimentichiamo l’installazione in “realtà aumentata”, predisposta dalla Duke University, della ricostruzione della città romana Regium Lepidi 3D, la cui tecnologia è stata implementata, grazie al sostegno del Lions Club Reggio Emilia Host, proprio in occasione dell’avvio del progetto “2200 anni lungo la Via Emilia”. La “Sala Regium Lepidi 3D”, è stata infatti inaugurata l’8 aprile 2017 per dar vita a un museo virtuale permanente all’insegna della Cyber Archeologia. Oggi come allora, immersi nell’architettura dell’antica Regium Lepidi, quando i romani ne percorrevano le strade in toga e calzari, si può vivere un’esperienza unica, che consente una full immersion nella città antica grazie a sofisticate apparecchiature all’avanguardia come i caschi immersivi Oculus Rift, le postazioni olografiche di Z-space, le proiezioni 3D di Dreamoc, i QR code in realtà aumentata e la visualizzazione stereo-immersiva del paesaggio archeologico.

Il soprintendente Luigi Malnati illustra la stele etrusca trovata in via Saffi a Bologna (foto Graziano Tavan)

Indicazione della Statale 9 Emilia alla mostra “On the road”

Un’indicazione stradale, SS 9, la moderna via Emilia, ci distoglie dalla Regium Lepidi virtuale e ci invita a salire al primo piano dove comincia il percorso vero e proprio della mostra con la prima sezione “La Via Emilia prima della Via Aemilia”. Sulla parete l’attualità della via Emilia è sottolineata dal testo di “Canzone per un’amica” di Francesco Guccini: “Lunga e diritta correva la strada, l’auto veloce correva, la dolce estate era già cominciata, vicino a lui sorrideva”; mentre la presenza della grande balena fossile rinvenuta nel Reggiano pone il tema delle grandi trasformazioni del territorio della regione. E poi c’è la grande stele etrusca in arenaria (475 – 450 a.C.) con la raffigurazione di un carro, scoperta recentemente durante gli scavi della soprintendenza in via Saffi a Bologna. Insieme con altri reperti provenienti dal Reggiano documenta il tracciato stradale in età preromana, con particolare riferimento al primo Millennio a.C., quando si manifesta una primo utilizzo del percorso che attraversa il territorio da Est a Ovest nella fascia di media pianura, vettore di una cultura scritta che fa del territorio reggiano uno dei più precocemente interessati dalla diffusione della scrittura di tutta l’Italia settentrionale.

Il cippo miliario della via Emilia con nome di Marco Emilio Lepido e distanza da Roma, Castel San Pietro Terme, conservato al museo Archeologico di Bologna (foto Graziano Tavan)

La via consolare romana la incontriamo al secondo e al terzo piano dove, nel cubo vetrato dello scalone monumentale del Palazzo dei Musei, alcuni importanti reperti introducono il tema della Via Emilia, a cominciare dal grande cippo miliare proveniente dal museo Archeologico di Bologna, che riporta una esplicita intestazione a Marco Emilio Lepido, ed è quindi una delle rare tangibili testimonianze del console costruttore di strade. Tutto l’ambiente è caratterizzato dalla partizione in misure e numeri riferiti alla lunghezza della strada, alle sue ortogonalità, alle distanze tra le città, ai tempi di percorrenza secondo una grafica ben individuata che accompagnerà tutto il percorso espositivo come imprescindibile riferimento alla geografia della strada e all’ambiente che la circonda. È qui che incontriamo alcuni degli “oggetti” che caratterizzano una strada, come il carro qui riproposto in una ricostruzione in scala 1:1, o i morsi in bronzo dei cavalli, fino ai modellini dei moderni mezzi di locomozione.

Modello di carro romano da trasporto merci e derrate (carrus) in mostra a Reggio Emilia (foto Graziano Tavan)

“Nell’antica Roma esistevano numerose tipologie di carro”, spiegano gli archeologi curatori, “ognuno con caratteristiche differenti in base al loro utilizzo. Una prima distinzione va fatta tra i mezzi utilizzati per il trasporto di persone e quelli adibiti al carico di merci: i carri per il trasporto di persone a loro volta si differenziavano tra mezzi leggeri e veloci, utilizzati da un numero esiguo di passeggeri e per coprire brevi tratte (calessi e carrozze) e carri utilizzati per viaggi lunghi, che potevano trasportare più passeggeri (diligenze)”. Calessi sono il cisium, il covinnus e l’essedum, monoassi a due ruote con telaio senza copertura, trainati da un cavallo, per un passeggero con conducente. Il carpentum era invece una carrozza monoasse, con copertura ad arco, trainata da due animali, per due-tre passeggeri. Tra i carri pesanti c’era il reda, a due assi, trainato da due cavalli, per viaggi di lunga durata: poteva trasportare 4 passeggeri o mille libbre di carico (3,25 quintali). Per lunghi viaggi veniva utilizzata anche la carruca dormitoria, a due assi, trainato da quattro animali, con telaio robusto coperto da un tendone in cuoio con finestrelle. I sei passeggeri potevano contare su vere e proprie cuccette. Tra i carri agricoli, famoso era il plaustrum, con due ruote piene, molto lento. Più agile, ma sempre con due ruote piene, era il sarracum, usato nei campi. Infine c’era il carrus, come quello ricostruito in mostra, destinato al trasporto di merci e derrate, ma anche a trasporti militari: con quattro ruote a otto raggi, e trainato da muli, aveva un pianale chiuso da fiancate lisce o da una piccola ringhiera per trattenere il carico fino a 600 libbre (circa 20 quintali).

Il grande murales sulla Via Emilia nell’allestimento di Italo Rota (foto Carlo Vannini)

La scultura dell’agrimensore proveniente dal museo della Civiltà romana di Roma esposta a Reggio Emilia

Il percorso della mostra ci porta poi a conoscere uno dei quattro vasi in argento iscritti (databili al 330 d.C.), quasi un’imitazione in piccola scala delle pietre miliari, scoperti nel 1852 presso la fonte termale delle Aquae Apollinares a Vicarello (Bracciano), mai uscito prima d’ora dal museo nazionale Romano: riporta inciso un itinerario con le stazioni e le relative distanze dell’intero percorso da Gades, l’odierna Cadice, a Roma, un viaggio di 1835-1842 miglia romane (circa 2700  chilometri). Completano questa sezione, caratterizzata da un lungo murales che mette in dialogo la via Emilia con le altre direttrici di collegamento che in tempi recenti l’hanno affiancata, ma non soppiantata (ferrovia storica, ferrovia Alta velocità, autostrada, perfino rotte aeree), la scultura dell’agrimensore proveniente dal museo della Civiltà romana di Roma e un rarissimo esempio di modello di lituo in bronzo da Sant’Ilario d’Enza (Reggio Emilia), che era l’insegna dell’augure, magistrato/sacerdote addetto alle fondazioni urbane e al tracciamento delle strade. “Presso gli antichi romani”, spiegano i curatori, “l’agrimensore, detto gromaticus, era un tecnico specializzato, una sorta di ingegnere che svolgeva compiti civili e militari, come la misurazione dei terreni pubblici, la suddivisione dell’agro da assegnarsi ai coloni, la definizione della pianta dell’accampamento legionario. L’agrimensore si chiamava gromaticus perché usava la groma, uno strumento utilizzato per tracciare sul terreno allineamenti ortogonali”. Il lituo, invece, era il bastone ritorto e senza nodi impugnato dagli auguri nei riti più sacri, come la definizione del perimetro e delle partizioni del templum, il settore della volta celeste all’interno della quale si potevano trarre gli auspici. Il lituo, come la maggior parte degli strumenti liturgici, fu acquisito dai romani dalle insegne sacerdotali di antica origine etrusca. E proprio da un contesto caratterizzato da strade etrusche, pavimentate e orientate secondo le disposizioni della più antica disciplina religiosa, proviene il frammento di modello di lituo in bronzo del VI-V sec. a.C., esposto in mostra.

 (2 – continua; precedente post il 14 gennaio 2018)