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Vetulonia. Ultimi giorni per visitare la mostra “A tempo di danza. In armonia, grazia e bellezza” al museo civico Archeologico “Isidoro Falchi”. Qualche riflessione con la direttrice Simona Rafanelli

vetulonia_archeologico_mostra-a-tempo-di-danza_prorogata_locandinaAncora pochi giorni (fino all’8 gennaio 2023: con l’ultima visita guidata alle 16) per visitare la mostra “A tempo di danza. In armonia, grazia e bellezza” al museo civico Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia. Con la direttrice Simona Rafanelli cerchiamo di conoscere meglio la mostra, le sue motivazioni, i tesori che propone.

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Simona Rafanelli, direttrice del museo civico Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia in mostra “A passo di danza” (foto muvet)

“Il tema dell’esposizione, nonché fulcro concettuale e insieme per così dire “materiale” della narrazione archeologico-artistica”, esordisce Rafanelli, “è rappresentato dalla Danza e segnatamente dalla peculiare declinazione al femminile di questa straordinaria Arte performativa capace di attraversare, nella particolare evoluzione armonica del rapporto privilegiato esistente fra le movenze del corpo femminile e i concetti di Armonia, Grazia e Bellezza, uno spazio temporale infinito che, fissato nell’eternità dell’attimo, annulla quella distanza che solo la storia ha saputo porre fra le più alte espressioni dell’arte plastica romana in bronzo e in marmo del primo secolo della nostra era e i capolavori che il genio di Canova ha potuto concepire nel sommo delicato equilibrio fra Nuova Classicità e Romanticismo”. Il focus della mostra è costituito da due eccellenze della plastica scultorea in bronzo e in marmo esposte nel museo Archeologico nazionale di Napoli, rappresentate da una delle cinque danzatrici – ritratta nel gesto iconico della danzatrice, con il braccio sollevato al di sopra del volto e la lunga veste leggermente rialzata con l’altra mano – restituite dalla Villa dei Papiri di Ercolano e dalla Venere accovacciata della Collezione Farnese – splendida traduzione marmorea dell’originale in bronzo dell’artista greco Doidàlsas, cui fanno da magico contrappunto, fra antico e moderno, i due capolavori canoviani in gesso impersonati dalla leggiadra ballerina con il dorso delle mani poggiato sui fianchi e dalla Venere Italica, sublimazione dell’eros pudico, custoditi nell’Accademia di Belle Arti di Carrara. Un percorso intrecciato fra Danza e Bellezza che, arricchito da una selezione di affreschi sul tema dalla medesima area vesuviana e da una scelta di gemme dalla stessa collezione Farnese, prende vita dal dialogo culturale ed artistico instauratosi fra le opere, elette a personificazioni insieme astratte e materiche, giacché concretate nelle forme nell’Arte, dell’assolutizzazione dei due stessi concetti. Ad aprire il racconto espositivo della mostra “A tempo di DANZA. In armonia, grazia e bellezza” è, nelle intenzioni dei curatori del progetto ad un tempo scientifico e di allestimento, al fine di celebrare ulteriormente il bicentenario dalla morte del Maestro, la riproduzione al vero – in marmo di Carrara – della Musa della Danza, la divina Tersicore, plasmata dalle mani e dallo spirito di Antonio Canova, tratta dall’effigie in marmo esposta presso il museo della Fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo.

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La danzatrice dalla villa dei Papiri a Ercolano conservata al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto graziano tavan)

La danzatrice della Villa dei Papiri di Ercolano. “Prezioso ornamento del nuovo abitare in stile greco”, spiega Rafanelli, citando l’archeologo tedesco Paul Zanker, “le sculture in bronzo e marmo che quasi in numero di cento adornavano gli spazi del peristilio rettangolare e di quello quadrato, dell’atrio, del tablino della Villa ercolanense forse appartenuta alla famiglia dei Calpurni Pisoni, dovevano evocare singoli settori e aspetti della civiltà greca, comunicando modelli e valori culturali”. E continua: “Originariamente collocate lungo i bordi dell’euripo, al centro del peristilio quadrato, ma restituite dall’angolo sud-ovest del peristilio rettangolare, le cinque statue in bronzo femminili, di poco inferiori al vero, formano con l’altrettanto celebre coppia di giovani atleti, noti in letteratura come runner, il vertice della produzione artistica raggiunto dalle sessantacinque opere bronzee recuperate negli scavi, rivelando ad un tempo la grande eterogeneità dei modelli di riferimento”. In particolare, nelle danzatrici di Ercolano, “il linguaggio formale si orienta su un classicismo che determina un recupero delle grandi opere greche dell’età classica contaminate e rielaborate a creare nuove immagini rispondenti ai modelli culturali imperanti. Questo nella fase di produzione dei bronzi che si individua, alle soglie dell’età imperiale, nella cosiddetta aurea aetas di rinnovamento morale e religioso dell’ideologia augustea. Serrate nella patina verde scuro inflitta dai restauri d’epoca borbonica – responsabili dell’aver privato le superfici bronzee dell’originario splendore dorato, le cinque “donne in movimento” assurgono alla fisionomia di “pure forme e volumi”, giungendo a rappresentare un viaggio visuale senza tempo alla scoperta dell’origine della bellezza. La severa e ordinata architettura del peplo dorico, scandito in molteplici cannellature profonde nettamente delineate, cui fan da contrappunto le “pieghe ad archi meccanici e poco profondi” che disegnano la parte superiore del peplo, o apoptygma, definisce l’assetto peculiare di questo “panneggio architettonico, che” – al pari del suo modello classico che mi piace individuare nella Peplophoros di Heraklion (470 a.C.) – “si dispone e si sviluppa secondo leggi sue particolari in modo da organizzarsi in masse solenni e armoniose obbedendo a leggi strutturali nuove ed estremamente coerenti”, sfruttando “tutte le risorse e le possibilità del bronzo” nel creare “stoffe laminate che si articolano con una sontuosità e un’armonia senza precedenti”. Quindi si stempera dapprima nell’affiorare della sagoma del ginocchio per la flessione della gamba sinistra, per annullarsi poi nella gestualità improvvisa degli arti superiori che con moto repentino si distaccano dal corpo per andare a comporre, nella geometria del cerchio formatosi intorno alle spalle e alla testa della figura, il gesto iconico e insieme icastico della ballerina”.

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Lo “spazio” teatrale alle spalle della danzatrice dalla Villa dei Papiri di Ercolano nella prima sala della mostra del museo di Vetulonia (foto graziano tavan)

“D’altro canto – riprende Rafanelli -, è il gesto “parlante” della mano destra chiusa “ad occhiello”, con il pollice e l’indice avvicinati, a chiarire definitivamente l’identità della fanciulla bronzea di Ercolano, e con essa dell’intero gruppo delle cinque figure femminili, già definite “danzatrici” da Johann Joachim Winckelmann, quindi variamente interpretate fino ai nostri giorni quali semplici peplophòroi, o hydrophòrai, fino alla lettura in chiave mitologica quali Danaidi proposta da Paul Zanker confermando e restituendo loro la primigenia lettura winckelmanniana di danzatrici. Un rapido sguardo rivolto alle danzatrici ritratte negli affreschi delle domus vesuviane sarà sufficiente a fugare ogni dubbio e ad escludere le precedenti letture, cogliendo subitamente nella posa della mano sollevata al di sopra della testa, in maniera inequivocabile, il gesto evidentemente consueto e ricorrente delle dita chiuse a trattenere una corona, una ghirlanda o l’estremità di un serto fiorito, in alternativa ad un lembo del velo o della veste, con le quali danzare o da far volteggiare sulla testa”.

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La danzatrice di Antonio Canova nella mostra “A passo di danza” al museo civico Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia (foto graziano tavan)

La ballerina con le mani sui fianchi di Antonio Canova. “Ripresa dell’Antico, studio della Natura, atto supremo della Creazione artistica”, sottolinea Rafanelli, ricordando il Winckelmann: “questo l’assunto del Genio di un artista che, proprio nel segno della Grazia, e nella ricerca della “purezza neoattica”, ha saputo coniugare la compostezza della Bellezza ideale con la commozione dell’espressione patetica, raggiungendo un vertice ineguagliabile di rarefazione formale e di pathos, insieme commisti. Mosso dal desiderio “di far rinascere l’Antico in una delle sue manifestazioni più affascinanti, in cui protagonista è la Grazia”, Antonio Canova, “l’ultimo degli antichi e il primo dei moderni” – cui si intende porgere omaggio, nel contesto della mostra vetuloniese, in occasione del bicentenario dalla morte – riesce a realizzare il suo “miracolo”, che consiste, secondo Antonio Paolucci, “nell’essersi saputo mantenere in mirabile equilibrio, allo spartiacque di due secoli, fra “idea” e “natura”, fra il classicismo di Winckelmann e la nascente sensibilità romantica di Foscolo, Byron, Keats”. La grazia che caratterizza le fanciulle danzanti di Ercolano è la medesima che sprigiona la prima e somma traduzione plastica del filone cosiddetto “delicato e grazioso” dell’arte canoviana, la danzatrice con le mani portate sui fianchi realizzata da Canova per Josephine de Beauharnais e acclamata quale simbolo di Bellezza e Perfezione sin dalla sua prima comparsa in pubblico al Salone di Parigi del 1813. E ancor più che al marmo, “assoluto, perfetto, gravido di eternità”, è alla materia fragile e inconsistente del gesso “bianco, luminoso, senza forma”, avvertito come metafora di tutta l’instabilità dell’esistenza umana, che Canova ama sovente affidare l’espressione di quella fragile e commovente bellezza che, palpitando nel gesso come nella viva carne, costituisce la cifra più genuina del genio dell’artista, perennemente teso a evidenziare l’atto stesso del creare che segna la vera nascita dell’opera, quel “momento delicato” ove occorre “raggiungere un equilibrio tra il genio dell’artista e il limite della materia”.

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“Venere Italica”, gesso di Antonio Canova in mostra al museo Archeologico di Vetulonia (foto graziano tavan)

La Venere Italica di Canova. Fu commissionata a Canova sull’apertura del XIX secolo (1803-1804) dal re d’Etruria Ludovico I di Borbone, quale sorta di risarcimento della “perdita” della Venere de’ Medici, sottratta al Museo degli Uffizi. “Prova di straordinario virtuosismo nella resa finissima del panneggio, dei riccioli che sfiorano la nuca e della morbidezza della carne…”, scrive Beatrice Avanzi, “la Venere Italica, emula – ma non copia – la bellezza dei Greci, appare sospesa fra candore e sensualità, rappresentata mentre esce dall’acqua nell’atto di coprirsi il seno con una mano, pel rossore di essere, da chi l’ama, sorpresa, divenendo vertice espressivo della poetica canoviana fondata sulla ricerca di una bellezza ideale, mitigata dal bello di natura”. La Venere Italica, modellata nel suo “erotismo pudico” che segna la distanza dalla Venere de’ Medici, celebrata da Ugo Foscolo come “bellissima dea”, apparve per converso al poeta qual “bellissima donna”. Nel tentativo di Canova, novello Prassitele, lo scultore si cimenta “in una simile tematica anche nel marmo, all’apparenza la più ardua da risolvere in quel materiale”, e le statue di marmo “diventano statue seducenti di carne, concrezioni sensuali di forma e luce”.

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La Venere accoccolata Farnese e, sulla diagonale, la Venere Italica di Antonio Canova nella mostra “A passo di danza” di Vetulonia (foto graziano tavan)

La Venere accovacciata della collezione Farnese. “Una peculiare Venere della seduzione la Venere accovacciata della Collezione Farnese”, riprende Rafanelli, “cui un artista romano del I secolo d.C., ispirandosi al bronzo ellenistico forgiato dal greco Doidàlsas, volle dar vita nel marmo, trasformandola in una dei “corpi del mito” che affollano la sala Farnesina del museo Archeologico nazionale di Napoli. È un piccolo vasetto di profumo, un alàbastron stretto nella mano destra portata al volto, cui fa da pendent l’armilla che stringe e adorna l’omero del medesimo braccio, a tratteggiare, nella sfera peculiare della bellezza segnata dall’hedonè, il piacere “che persuade e seduce”, i lineamenti di questa dea “dalle morbide forme carnose” colta nell’attimo in cui, terminato il suo bagno, al ritmo di una solenne cerimonia rituale, “tutte con questo cosparse le belle sue membra, si pettinò la chioma, le fulgide trecce compose, lucide, belle, tutte fragranti, sul capo immortale” (così nel canto XIV dell’Iliade è descritta la toeletta di Hera, che si appresta a sedurre Zeus). Ritratta al centro di uno spazio colorato dalle tinte tenui di un erotismo di stampo canoviano, sfumato nella pudicitia, ove in un’atmosfera satura di aromi divini alberga una vera e propria “poetica del profumo” di cui la dea appare incontrastata protagonista, Venere sembra intrecciare con il piccolo contenitore, e con la preziosa sostanza in esso contenuta, un dialogo intimo e ad un tempo immortale, così come appare sin dalle origini il muto colloquio fra l’umano e il divino. Sono l’atteggiamento di tutte le parti del corpo, raccolto in se stesso, l’incrocio dei ritmi chiastici tra le singole membra e le rispondenze con il volto, girato e reclinato, appena turbato da un’espressione sospesa di pudica sorpresa, ad imprimere al corpo della dea quel movimento circolare ricercato dall’artista greco, che è, insieme alla costruzione dello spazio, armonia e vita, mentre è lo scultore romano, eternando nelle forme del marmo la “bellezza eterna, algida, incorruttibile” di cui si cinge Venere, sublimazione del concetto della greca kallòs, a porre – conclude – “questo universo della creazione umana…in sintonia perenne con l’universo vero fatto di stelle”.

Nobile e solenne: l’Efebo di via dell’Abbondanza ti accoglie nel tablino della domus ricostruita a Vetulonia per la mostra “L’Arte di Vivere al tempo di Roma” insieme a una quadreria con i pinakes, piccoli affreschi staccati dalle case pompeiane. E poi l’angolo della musica con l’Apollo Citaredo e il giardino arricchito da fontane, erme, oscilla e statue

Rendering dell’allestimento del tablino a cura dell’arch. Luigi Rafanelli per la mostra “L’Arte di Vivere al tempo di Roma” a Vetulonia

Ti affacci all’uscio e lui, l’Efebo di via dell’Abbondanza, è lì che ti accoglie, il suo sguardo pensoso, il suo portamento solenne, “nell’armonica disposizione del corpo e nella nobile compostezza del volto”, come sottolinea Simona Rafanelli, direttore del museo Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia dove, nella mostra “L’Arte di Vivere al tempo di Roma. I luoghi del tempo nelle domus di Pompei” (aperta fino al 5 novembre; catalogo de “L’Erma” di Bretschneider), è stata ricreata una domus pompeiana, con un centinaio di reperti provenienti dalle colonie romane dell’area vesuviana, Pompei, Ercolano, Stabia, e conservati al museo Archeologico nazionale di Napoli. Dopo aver fatto la conoscenza con gli ambienti che davano sull’atrio, il luogo più rappresentativo e privato della domus (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/08/15/nellatrio-di-una-domus-pompeiana-a-vetulonia-nella-mostra-larte-di-vivere-al-tempo-di-roma-si-scoprono-tesori-e-oggetti-comuni-degli-ambienti-del-cuore-di-una-cas/),continuiamo il nostro viaggio nel tempo e nello spazio sempre accompagnati dall’archeologa Luisa Zito entrando nel tablino, “l’ambiente più importante della mostra”, spiega l’architetto Luigi Rafanelli, che ha curato l’allestimento, “perché ospita il famosissimo Efebo in bronzo, che campeggia al centro di esso, ed è decorato alle pareti da affreschi che formano una immaginaria quadreria”. L’Efebo, a Vetulonia, diversamente da quando era esposto al Paul Getty Museum di Los Angeles (ultima tappa straniera prima del suo rientro in Italia), non è circoscritto da uno spazio delimitato e definito, ma è libero da tutte le parti, in modo che può essere visto e goduto (circostanza eccezionale) dai visitatori a 360°, come sospeso nel tempo e nello spazio. “Non c’è altra luce nella stanza – continua Luigi Rafanelli – se non quella speciale che lo illumina, e il chiarore che proviene dalle pareti con gli affreschi è soffuso e non se ne percepisce la provenienza”.

L’archeologa Luisa Zito davanti all’Efebo di via dell’Abbondanza nella mostra di Vetulonia (foto Graziano Tavan)

Era in piedi, nell’atrio della domus di Publius Cornelius Tages, una delle più grandi di Pompei, quando fu trovato da Amedeo Maiuri in quel lontano 25 maggio 1925. “E se oggi possiamo ammirare l’Efebo in tutta la sua bellezza”, ricorda l’archeologa Zito, “è perché quando ci fu l’eruzione la grande casa era in ristrutturazione, e quindi – come si fa ancora oggi – il padrone aveva provveduto a spostare nel grande atrio parte della mobilia, proteggendola con teli. Così è stato anche per l’Efebo che deve proprio la sua sopravvivenza al suo ricovero negli spazi aperti dell’atrio che non conobbero il crollo dei piani superiori della domus”. Alla preservazione eccezionale della patina bronzea – continua Simona Rafanelli -, al di sotto di una superficiale doratura, dovette inoltre contribuire il tessuto abbondante con  il quale l’Efebo, con i due sostegni per le lampade in forma di tralci vegetali, di cui era stato munito, ed unitamente ad altri pregiati arredi bronzei recuperati accanto alla statua, era stato completamente avvolto. In mostra, però, l’Efebo presenta un solo sostegno portalampade: “L’altro”, precisa Zito, “era in uno stato di conservazione precario, che ha consigliato la sua non esposizione”. La statua fu realizzata tra il 20 e il 10 a.C. in una bottega artigiana pompeiana che ha riadattato a uso portalampade un bronzo greco che si rifaceva ai canoni del V sec. a.C. con riferimenti diversi: “La lieve torsione del corpo è di ispirazione policletea”, spiega Zito, “mentre il volto ha analogie con l’Athena Lemnia di Fidia”.

Donna con filo: intonaco dipinto dalla Casa di Giuseppe II di Pompei, oggi al Mann (foto Graziano Tavan)

La direttrice Simona Rafanelli con il maestro Stefano Cocco Cantini

Rapiti da tanta bellezza notiamo solo ora la calda atmosfera che ci ha accolti nel tablino: le dolci note di un flauto riempiono tutta la sala e si diffondono fino al giardino. “È un’antica musica etrusca”, precisa Zito. Proprio Simona Rafanelli con il maestro e compositore Stefano Cocco Cantini da anni sta studiando gli antichi strumenti emersi dagli scavi archeologici e le fonti coeve per recuperare suoni e ritmi della musica etrusca (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2014/03/05/dalle-tombe-dipinte-di-tarquinia-alla-musica-perduta-degli-etruschi-a-firenze-live-coinvolgente-con-letruscologa-simona-rafanelli-e-il-jazzista-stefano-cocco-contini/). Sulle note degli antichi etruschi l’occhio comincia a scorrere sulle pareti decorate del tablino, l’ambiente di rappresentanza della casa, che qui ospita una eccezionale quadreria, composti da sedici bellissimi quadri-affreschi, provenienti da Pompei e dall’area vesuviana. “L’allestimento”, interviene Luigi Rafanelli, “suggerisce l’idea di come erano sistemati, nella “pinacoteca” di una villa romana/pompeiana i piccoli dipinti (pinakes) che rappresentavano soggetti mitologici , domestici, naturalistici, con una tecnica pittorica mutuata dai greci. In questo modo diventava uno spazio fantasioso pieno di immagini, da cui l’abitante e l’ospite si sentivano avvolti, così per il visitatore odierno costituisce una immaginifica messa in scena per ritornare con la mente a quei luoghi e a quei tempi”. Gli affreschi, come fa notare l’archeologa Zito, sono stati staccati da soggetti più grandi e ricomposti senza rispettare la sequenza originale ma rispondendo al gusto estetico dell’epoca borbonica.  “In questa maniera”, stigmatizza Fiorenza Grasso, “gli scavatori borbonici distruggevano i complessi decorativi da cui i singoli soggetti (amorini, scorci di paesaggi, uccelli, …) erano tratti, e solo in rarissimi casi si ordinava un preventivo disegno dell’intera decorazione”. Gli affreschi o, meglio, i quadretti-affresco nel tablino ricreato di Vetulonia, appartengono per la maggior parte al cosiddetto IV stile pompeiano, definito anche “stile fantastico” che si sviluppa negli ultimi decenni di vita di Pompei prima dell’eruzione: “si torna all’illusione spaziale ottenuta con arditi scorci, quinte sceniche, portici e architetture complesse, baroccheggianti nella fase claudio-neroniana e di ispirazione teatrale”.

Statua in bronzo di Apollo con la lira dalla Casa di Apollo di Pompei, oggi al Mann (foto di Giorgio Albano, Mann)

Dal tablino, attraverso una grande apertura, si accede al portico in cui è posto l’angolo della musica, forse la disciplina più importante della paideia (educazione) giovanile. Il tema della musica è sviluppato in una vetrina con reperti eccezionali. Si è subito rapiti dall’Apollo citaredo in bronzo: “Prima della scoperta dell’Efebo di via dell’Abbondanza”, ricorda Zito, “questa era la più importante scultura in bronzo rinvenuta a Pompei”. Nudo, con le gambe incrociate, il capo reclinato, il braccio sinistro disteso lungo il corpo e in mano il plettro, mentre il destro piegato a reggere la lira poggia su un pilastrino; capelli raccolti sopra la nuca, occhi resi con la tecnica dell’ageminazione: lega d’argento per la cornea e rame per l’iride. “La domus dove fu scoperto l’Apollo, che da allora è ricordata come la casa del Citaredo”, continua Zito, “fu scavata tra il 1810 e il 1840, all’estremità dell’insula VII”. Accanto all’Apollo citaredo, un sistro, caratteristico strumento in bronzo molto comune nelle cerimonie in onore di Iside, Cibele e Dioniso; e un prezioso flauto in bronzo, argento e avorio: era usato dai musicisti nei funerali, ai banchetti e nelle rappresentazioni teatrali.

Rendering della vista dal tablino sul giardino chiuso dalla riproduzione del grande affresco della domus pompeiana del Bracciale d’oro

Venere accovacciata: piccola statua in marmo dalal Casa del triclino a Pompei, oggi al Mann (foto Giorgio Albano, Mann)

E siamo nel giardino, che chiude il nostro viaggio nel tempo e nello spazio. “Nelle pareti che delimitano idealmente uno spazio aperto”, precisa Luigi Rafanelli, “è riportata graficamente una scena continua di giardino”. È la riproduzione del grande affresco della Domus pompeiana del Bracciale d’oro. “Nella trasformazione della casa, con la nuova moda ellenistica”, spiega Grasso, “il giardino diventa il luogo più adatto per creare sfarzosi giochi d’acqua, importanti scenografie evocative, del mondo nilotico e bacchino da godere distesi negli adiacenti letti triclinari all’aperto”, Al centro del nostro giardino vediamo una vasca-fontana (labrum) in marmo bianco da Pompei: le fontane erano parte importante della ornamentazione del giardino, immancabilmente abbinate a erme, oscilla e statuette marmoree e bronzee. Anche nell’ideale giardino ricreato a Vetulonia troviamo alcune erme (pilastrini con sopra un busto di Dioniso), gli oscilla (i caratteristici dischi in marmo a vari soggetti o maschere teatrali che venivano appesi lungo il peristilio e, perciò, oscillavano al vento), alcune statuette: “Bellissima”, indica Zito, “la piccola Venere accovacciata, in marmo, oggi bianco, ma in origine dipinta: all’altezza del seno sono ancora visibili tracce di colore rosso. La Venere al bagno decorava l’impluvio dell’atrio della Domus del Triclinio: questa copia miniaturistica si rifà, come moltissime altre trovate, alla Venere lavantem sese realizzata nel III sec. a.C. da Doidalsas di Bitinia ed esposta nel tempio di Giove, nel portico di Ottavia a Roma”. In primo piano il rigoglioso giardino ricostruito con essenze arboree (finte) presenti all’epoca, chiuso da una staccionata a maglie romboidali, molto comune nella recinzione di orti e giardini. Superiamo anche questo cancelletto, e torniamo alla Vetulonia dei giorni nostri.

(3 – fine; i precedenti post il 7 agosto e il 15 agosto 2017)