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Roma. Il parco archeologico del Colosseo per celebrare il compleanno dell’imperatore Adriano (24 gennaio) ha prodotto un video che “restituisce” il meraviglioso tempio di Venere e Roma, il più grande edificio sacro dell’impero, progettato da Adriano

Il cantiere di restauro del Tempio di Venere e Roma al Foro Romano visto dal Colosseo (foto PArCo)

Il 24 gennaio del 76 d.C. nasceva a Italica, in Hispania Baetica, Publius Aelius Traianus Hadrianus, l’imperatore Adriano. Il parco archeologico del Colosseo ha deciso di celebrare questo giorno con un video (creative director Flaviano Pizzardi, immagini e droni Invidio srl) che racconta e restituisce alla comprensione di tutti il meraviglioso tempio che proprio Adriano progettò, dedicato alla dea Roma Aeterna e alla dea Venus Felix. La pianta del Tempio di Venere e Roma è caratterizzata da due celle orientate in senso opposto e precedute da un vestibolo. Della cella rivolta verso il Colosseo, dedicata a Venere, rimane solo l’abside, mentre nella cella opposta, dedicata a Roma, venne costruito già nel secolo VIII un oratorio in onore dei Santi Pietro e Paolo, poi trasformato nella chiesa di Santa Maria Nova, e dal XV secolo in Santa Francesca Romana. Tra settembre 2020 e luglio 2021 il Tempio è stato interessato da importanti interventi di restauro conservativo, realizzati dal Parco archeologico del Colosseo con una sponsorizzazione tecnica della Maison Fendi, in virtù dei quali l’iconico monumento è tornato interamente accessibile al pubblico.

Su un alto basamento che affaccia sulla Valle del Colosseo si erge il tempio che Adriano volle dedicare alla dea Roma Aeterna e alla dea Venus Felix. Si tratta del più grande edificio sacro costruito dai romani, uno dei più grandi dell’antichità. Il tempio fu costruito a partire dal 121 d.C. su progetto dello stesso imperatore che, come racconta l’Historia Augusta (Hist. Aug. Hadr., 19.12), dovette per prima cosa rimuovere dall’area il celebre Colosso neroniano, operazione per cui impiegò ben 24 elefanti, traslando la statua nella posizione in cui è ancora oggi ricordata nei pressi dell’Anfiteatro Flavio. L’imperatore inaugurò l’edificio nel 136 o 137 d.C. al rientro dalla Giudea, ma a completarlo fu Antonino Pio nel 141 d.C. Oltre alle dimensioni straordinarie (oltre 100 m x 50 in pianta e circa 30 metri in altezza) il monumento era caratterizzato da un disegno del tutto originale, secondo quello stile eclettico tipico delle architetture adrianee che combinavano le proporzioni e la spazialità ellenistica con l’urbanistica e la tecnica costruttiva romana. Le colonne del tempio, tra quelle in marmo proconnesio dei portici e quelle in granito grigio del peristilio, dovevano essere oltre duecento.

Le imponenti vestigia del Tempio di Venere e Roma nel Foro romano (foto Electa / Stefano Castellani)

Ciò che resta oggi del tempio è il frutto di restauri eseguiti da Massenzio a seguito del disastroso incendio del 307 d.C. Egli apportò alcune modifiche alla struttura, come l’inserimento delle colonne in porfido e la creazione di due absidi con copertura a volta e decorazione a cassettoni. I lacunari erano decorati con stucchi che, come i recenti restauri hanno dimostrato, erano almeno in parte rivestiti a foglia d’oro, mentre sulle pareti rifulgevano incrostazioni variopinte realizzate in alabastro, cipollino e serpentino. Sia l’anastilosi delle colonne in porfido, sia il restauro del pavimento marmoreo sono frutto di interventi realizzati tra il 1932 e il 1935 sotto la direzione di Alfonso Bartoli. La pavimentazione della cella di Roma costituisce uno dei maggiori esempi di opus sectile a grande modulo che ornavano gli edifici pubblici e di culto dell’Urbe e i restauri di epoca fascista ne hanno ricomposto, secondo il gusto e le conoscenze dell’epoca, la pregiata decorazione in marmo pavonazzetto e porfido rosso. Le parti mancanti vennero integrate con pezzame degli stessi litotipi antichi e le lacune vennero ricostruite per ripristinare la visione d’insieme della pavimentazione.

Roma, Percorsi fuori dal PArCo. Nel nono appuntamento, il viaggio parte dall’Arco di Tito, alle pendici del Palatino, per giungere alla Sinagoga del parco archeologico di Ostia Antica, sulle tracce della Menorah, alla scoperta della presenza ebraica in antico nell’area di Roma

L’Arco di Tito, costruito sul punto più alto della Via sacra, domina il Foro Romano (foto PArCo)

Nono appuntamento col progetto “Percorsi fuori dal PArCo – Distanti ma uniti dalla storia” che vuole portare i cittadini romani e tutti i visitatori a scoprire i legami profondi e ricchi di interesse, ma non sempre valorizzati, tra i monumenti del Parco e quelli del territorio circostante, raccontando, con testi e immagini, il nesso antico che unisce la storia di un monumento o di un reperto del parco archeologico del Colosseo con un suo “gemello”, situato nel Lazio. Dopo aver raggiunto il Comune di Cori (tempio dei Dioscuri), il parco archeologico di Ostia Antica (tempio della Magna Mater), Prima Porta (villa di Livia Drusilla), il parco archeologico dell’Appia Antica (tenuta di Santa Maria Nova), piazza Navona (stadio di Domiziano), villa di Tiberio a Sperlonga (Lt), Palazzo Barberini al Quirinale, il parco archeologico di Priverno (residenze private), il viaggio virtuale – ma ricco di spunti per organizzare visite reali – promosso dal parco archeologico del Colosseo riparte dalle pendici del Palatino, precisamente dall’Arco di Tito, e si arriva al parco archeologico di Ostia Antica, alla Sinagoga, sulle tracce della Menorah, alla scoperta della presenza ebraica in antico nell’area di Roma.

L’Arco di Tito incorporato nella fortezza Frangipane come si vede nella “Veduta dell’Arco di Tito” di Bernardo Bellotto, olio su tela (1742-44), conservata all’Accademia Carrara di Bergamo (foto accademia carrara)

Costruito sul punto più alto della Via Sacra, l’Arco di Tito domina il paesaggio del Foro Romano: “Fu forse proprio la sua posizione – raccontano gli archeologi del PArCo – a far sì che nel Medioevo fosse incorporato nella fortezza costruita dalla famiglia Frangipane; fu poi parte del vicino convento di Santa Maria Nova, e solo tra il 1812 ed il 1824, grazie ai restauri di Raffaele Stern e Giuseppe Valadier, fu “liberato” assumendo l’aspetto attuale”.

L’Arco di Tito visto da Est, con l’iscrizione dedicatoria del Senato e del popolo romano all’Imperatore divinizzato (foto PArCo)

“L’arco, ad un solo fornice – spiegano gli archeologi del PArCo -, fu dedicato all’imperatore Tito dopo la sua morte (unico tra gli archi trionfali superstiti ad essere dedicato ad un imperatore divinizzato), per commemorare la vittoria nella Guerra giudaica conclusasi drammaticamente nel 70 d.C. con il saccheggio di Gerusalemme e con la distruzione del Tempio da parte dell’esercito romano. Sono proprio questi avvenimenti ad essere illustrati sui rilievi all’interno dell’arco, che per struttura e decorazione costituisce una dei capolavori dell’arte romana: nella sua decorazione, infatti, sono per la prima volta vengono introdotti in un monumento ufficiale gli elementi stilistici dell’arte popolare”.

Il soffitto cassettonato del fornice dell’Arco di Tito; nel riquadro al centro è raffigurata l’apoteosi dell’imperatore Tito, morto nell’anno 81 d.C. (foto PArCo)
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Copia del rilievo del fornice meridionale dell’arco di Tito con la rappresentazione della menorah e degli altri oggetti sacri portati via del tempio di Gerusalemme (foto PArCo)

“Nella volta, riccamente decorata a cassettoni, è raffigurata l’apoteosi dell’imperatore, portato in cielo da un’aquila. I due grandi rilievi sui lati interni del fornice rappresentano invece il trionfo di Tito: a Nord, Tito è sulla quadriga trionfale, incoronato dalla Vittoria; sul lato Sud, si vede invece il corteo che avanza verso la Porta Triumphalis: si distinguono gli oggetti saccheggiati al tempio di Gerusalemme, i vasi sacri, le trombe di argento e la menorah (il candelabro a sette braccia) che saranno poi esposti come “bottino di guerra” nel vicino Tempio della Pace. La fine della guerra giudaica, con l’imposizione del “Fiscus iudaicus”, la tassa da pagare al tempio di Giove Capitolino, segnò forse il momento di crisi più profonda tra la gerarchia imperiale e la numerosa ed influente comunità ebraica romana, considerata la più antica del mondo, stanziata a Roma probabilmente già dalla metà del II secolo a.C.”.

Veduta dall’alto della sinagoga a Ostia (foto parco archeologico ostia antica)

Ma una comunità ebraica numerosa doveva essere presente anche nella vicina Ostia Antica, come dimostra la scoperta della sinagoga, avvenuta nel 1961 durante i lavori di realizzazione della viabilità verso Fiumicino. L’edificio si impose subito all’attenzione degli archeologi per la sua monumentalità e per la sua lunga vita.

Veduta della sinagoga a Ostia: sorgeva lungo la via Severiana quasi in riva al mare (foto parco ostia antica)

La sinagoga di Ostia Antica sorgeva lungo la via Severiana quasi in riva al mare, fuori dalla porta cittadina (in età romana la linea di costa era molto arretrata rispetto all’attuale): “Una posizione decentrata”, sottolineano gli archeologi del PArCo, “che si spiega con il voler mantenere la propria identità religiosa ben distinta dalla serie di culti che si svolgevano in città e ai quali erano dedicati tantissimi luoghi, sacelli, templi e aree sacre, in funzione delle specificità delle singole divinità. Inoltre, per gli Ebrei le spiagge del Mediterraneo erano considerate luoghi puri per fare abluzioni rituali. L’edificio di culto era orientato in direzione Est/Sud-Est: ovvero in direzione di Gerusalemme”.

Particolare della sinagoga di Ostia con l’edicola all’interno dell’aula di culto (foto parco ostia antica)
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La menorah raffigurata nell’edicola della sinagoga di Ostia (foto parco ostia antica)

“Considerata per lungo tempo la più antica sinagoga dell’Occidente mediterraneo, secondo le ultime interpretazioni essa si imposta su un edificio privato del I secolo d.C. che solo all’inizio del III secolo fu destinato a sinagoga. Gli interventi strutturali più importanti risalgono però al IV secolo d.C. quando il complesso fu ampliato anche con funzioni di ospitalità per viaggiatori ebrei e con la realizzazione all’interno dell’aula di culto di un’edicola nella quale erano conservati i rotoli della Legge, la Torah. L’edicola – concludono – era un piccolo spazio absidato e monumentalizzato con colonnine con mensole decorate con la rappresentazione della menorah (il calendario a 7 bracci) a bassorilievo a lato dell’ingresso”.

Roma, Percorsi fuori dal PArCo. Nel quarto appuntamento, il viaggio parte ancora una volta dal Palatino per arrivare al parco archeologico dell’Appia Antica alla scoperta delle proprietà dei monaci benedettini: da Santa Maria Nova al Foro (nota come basilica di S. Francesca Romana) alla tenuta lungo la via Appia

La chiesa di Santa Maria Nova al Foro Romano: campanile romanico, abside e chiostro del XII-XIII sec., facciata di inizio Seicento (foto PArCo)

Quarto appuntamento col progetto “Percorsi fuori dal PArCo – Distanti ma uniti dalla storia” che vuole portare i cittadini romani e tutti i visitatori a scoprire i legami profondi e ricchi di interesse, ma non sempre valorizzati, tra i monumenti del Parco e quelli del territorio circostante, raccontando, con testi e immagini, il nesso antico che unisce la storia di un monumento o di un reperto del parco archeologico del Colosseo con un suo “gemello”, situato nel Lazio. Dopo aver raggiunto il Comune di Cori (tempio dei Dioscuri), il parco archeologico di Ostia Antica (tempio della Magna Mater), Prima Porta (villa di Livia Drusilla), il viaggio virtuale – ma ricco di spunti per organizzare visite reali – promosso dal parco archeologico del Colosseo riparte ancora dal Palatino, precisamente dal monastero di Santa Maria Nova al Foro romano, conosciuto anche come Basilica di Santa Francesca Romana, per giungere alla tenuta di Santa Maria Nova lungo la via Appia.

Santa Maria Nova al Foro romano e, a destra, l’arco di Tito (foto PArCo)

Siamo a ridosso della Via Sacra, sul Palatino e più precisamente nel monastero di Santa Maria Nova costruito a partire dall’847 nel luogo dell’antico oratorio dei Santi Pietro e Paolo. “L’appellativo fu preso dalla chiesa – già esistente – di Santa Maria nel Foro che, da questo momento, diventerà Santa Maria Antiqua perché distrutta a causa di un terremoto”, spiegano gli archeologi del PArCo.

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Basilica di Santa Francesca Romana, particolare della facciata vista dalla via Sacra (foto PArCo)

“Oggi il complesso, stratificato e ricco di storie, è conosciuto anche come Basilica di Santa Francesca Romana, poiché dal 1440 ospita la tomba della santa che proprio in questa chiesa si era offerta come oblata. Santa Francesca, da sempre ben voluta dai romani, assunse presto l’appellativo di Romana ed è particolarmente importante in questo periodo storico che stiamo attraversando perché considerata protettrice delle pestilenze. Non a caso, il restauro condotto sul soffitto ligneo seicentesco disegnato da C. Lambardi (vedi 9 marzo 2021: a un anno dall’inizio del lockdown e nel giorno di Santa Francesca Romana, protettrice dalle pestilenze, riaperta al culto la basilica di Santa Francesca Romana al Foro romano, dopo un delicato intervento di restauro al soffitto ligneo seicentesco promosso dal parco archeologico del Colosseo e dal Fondo Edifici per il Culto. Presentato il volume “Il restauro della Speranza” | archeologiavocidalpassato) si è concluso il 9 marzo 2021, giorno in cui si festeggia la Santa, come segno di buon auspicio”.

La collina della Velia col Tempio di Venere e Roma, e, dietro, la chiesa di Santa Maria Nova col campanile medioevale (foto PArCo)

“La chiesa oggi presenta l’aspetto conferitole dai lavori seicenteschi”, continuano gli esperti del PArCo: “l’intervento di maggior pregio è la struttura sepolcrale che accoglie le spoglie della Santa, affidata a Gian Lorenzo Bernini tra il 1638 e 1649. Il pavimento invece risale al 1952 ma, in alcuni punti, conserva frammenti cosmateschi. Il complesso sorge sulle scale del tempio di Venere e Roma, tempio romano fatto costruire per volontà di Adriano a partire dal 121 d.C. e completato nel 140 d.C., sotto Antonino Pio”.

Il Casale di Santa Maria Nova sull’Appia antica visto dall’alto. In primo piano sono visibili gli edifici riportati alla luce durante gli scavi archeologici effettuati negli ultimi anni, che occupavano l’area in età imperiale, nel II secolo d.C. Sono stati identificati: ambienti residenziali, di servizio e un settore termale finemente decorato, che conserva anche mosaici con scene di spettacoli gladiatori e circensi (foto parco appia antica)

Ma cosa lega un monastero costruito sul Palatino ed un casale della campagna romana, sulla via Appia? I proprietari: i monaci olivetani benedettini di Santa Maria Nova. “Già officianti della chiesa collocata sul Palatino, che gestiscono ancora oggi, possedevano infatti, già dal XIV secolo, un vasto terreno sulla Via Appia”, ricordano gli archeologi del PArCo, “che da questo momento prenderà il nome di Santa Maria Nova. Il terreno, che era adibito a seminativo e pascolo, si trovava nell’area dell’antica Villa romana appartenuta ai fratelli Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Valerio Massimo, membri di una famiglia senatoria e consoli nel 151 d.C. Nel 182-183 d.C. l’imperatore Commodo li aveva accusati di aver ordito una congiura contro di lui, facendoli uccidere ed impadronendosi della loro residenza”.

Via Appia Antica, nucleo del Casale di Santa Maria Nova: ben visibile la torre difensiva costruita su un edificio più antico, probabilmente una cisterna a due piani (foto parco appia antica)

“Il nucleo del Casale, fulcro della tenuta, venne costruito tra la fine del medioevo e l’età moderna, riutilizzando i resti di un edificio romano del II secolo d.C., forse una cisterna a due piani, su cui era stata realizzata, in età tardoantica, una torre difensiva. Tra il XV secolo e il XVI secolo l’edificio prende le forme attuali: a questa fase risale l’elegante abside aggettante al primo piano, forse una garitta difensiva, oppure una piccola cappella edificata dai monaci della Congregazione Benedettina di Santa Maria del Monte Oliveto”.

Via Appia Antica, Casale di Santa Maria Nova; particolare dei mosaici venuti alla luce nel settore termale grazie agli scavi archeologici condotti negli ultimi anni (foto parco appia antica)

“I monaci olivetani – continuano – manterranno la proprietà fino al 1873 quando fu messa all’asta e poi aggiudicata a Isidoro Marfori. Su due gradini della scala di accesso al primo piano, realizzati con elementi di recupero, si vede ancora il loro stemma. Nel 1876 fu realizzato un piccolo casaletto a uso stalla, su resti di strutture romane. In seguito la tenuta appartenne ai conti Marcello e al produttore cinematografico Evan Ewan Kimble, fu trasformata in dimora di lusso e usata come set cinematografico. Acquisita nel 2006 dallo Stato Italiano è stata oggetto di interventi di restauro e recupero funzionale che hanno consentito di aprirla al pubblico dal giugno del 2018”.

Villa dei Quinitli, una delle più belle ville edificate lungo la via Appia (foto parco appia antica)

“L’area di Santa Maria Nova”, informano gli archeologi del PArCo, “fa parte del percorso di visita della Villa dei Quintili all’interno del parco archeologico dell’Appia Antica con accesso da via Appia Antica 251 oppure da via Appia Nuova. Il Casale attualmente ospita la mostra fotografica, documentaria e multimediale “L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi” di Paolo Rumiz e compagni. Aperto dal martedì alla domenica dalle 9 alle 19 con ultimo ingresso un’ora prima della chiusura”.

9 marzo 2021: a un anno dall’inizio del lockdown e nel giorno di Santa Francesca Romana, protettrice dalle pestilenze, riaperta al culto la basilica di Santa Francesca Romana al Foro romano, dopo un delicato intervento di restauro al soffitto ligneo seicentesco promosso dal parco archeologico del Colosseo e dal Fondo Edifici per il Culto. Presentato il volume “Il restauro della Speranza”

In primo piano, nel Foro romano, la basilica di Santa Francesca Romana, a un passo dall’arco di Tito (foto PArCo)

9 marzo: una data importante, soprattutto per i romani. Il calendario festeggia Santa Francesca Romana, co-patrona di Roma, protettrice dalle epidemie. Proprio il 9 marzo 2020 l’Italia si fermò per il lockdown. Il 9 marzo 2021, a un anno di distanza da quel giorno in cui si bloccò ogni attività, chiudendo anche e soprattutto i luoghi della cultura, il Parco archeologico del Colosseo  con il Fondo Edifici per il Culto e la Comunità Benedettina Olivetana hanno annunciato la riapertura al culto della Basilica di Santa Francesca Romana, dopo un delicato intervento di restauro al soffitto ligneo seicentesco. Un’occasione “storica” accompagnata da una preziosa pubblicazione di studi “Santa Francesca Romana. Cronache di un restauro nel segno della Speranza“, curato da Alfonsina Russo, Cristina Collettini e Alessandro Lugari (Gangemi editore), che raccoglie l’esperienza vissuta negli ultimi mesi a contatto con lo straordinario patrimonio storico artistico della basilica dedicata alla Santa, co-patrona di Roma​, protettrice delle automobili, morta il 9 marzo 1440. “Francesca – va ricordato – mise a rischio la sua stessa vita per soccorrere e curare i malati dalla peste che all’epoca ammorbava Roma e che le aveva ucciso anche i figli Evangelista e Agnese, ed è considerata per tale ragione protettrice dalle pestilenze e carestie”.

Il timpano che corona la facciata della basilica di Santa Francesca Romana nel Foro romano (foto PArCo)

La basilica di Santa Francesca Romana come la vediamo oggi – spiegano al parco archeologico del Colosseo – è la trasformazione barocca della chiesa paleocristiana di Santa Maria Nova fatta erigere da Leone IV nell’847 per assegnarle il titolo cardinalizio che era della chiesa di Santa Maria Antiqua distrutta da un terremoto. La chiesa e l’annesso monastero si innestano sul podio del tempio romano di Venere e Roma nel foro romano, il più grande dell’antichità fatto erigere da Adriano nel 135. Il soffitto seicentesco a cassettoni lignei della chiesa è uno dei più complessi e affascinanti tra quelli del centro storico di Roma. Realizzato su progetto di Carlo Lambardi secondo l’iconografia proposta dal Cardinale Emilio Sfrondati, presenta una ripartizione in lacunari fortemente decorata nella cui fascia centrale spiccano tre gruppi scultorei lignei: quello verso l’altare rappresenta Santa Francesca Romana con l’angelo, quello centrale la Vergine con le Sante Agnese e Cecilia, quello in prossimità dell’altare San Benedetto. All’ordine dei Benedettini infatti appartengono i monaci della congregazione di Monte Oliveto Maggiore che dal XIV secolo risiedono in questo complesso passato in proprietà al Ministero dell’Interno-Fondo Edifici di Culto.

Il cantiere di restauro del controsoffitto ligneo della basilica di Santa Francesca Romana (foto PArCo)

L’intervento di messa in sicurezza e restauro del sottotetto e del controsoffitto a lacunari è stato avviato nell’estate 2020 dopo la segnalazione di alcuni frammenti pittorici caduti a terra. Le infiltrazioni d’acqua degli anni passati avevano imbibito le strutture lignee compromettendo gli apparati decorativi e il sistema di tenuta. Solo dopo aver assicurato la tenuta della struttura e ripristinato la coesione delle orditure, i restauratori hanno eseguito il restauro delle superfici decorate e dei gruppi scultorei provvedendo alla riadesione della pellicola pittorica e delle dorature in foglia d’oro, colmando le mancanze, riallineando cromaticamente le lacune, nel pieno rispetto dei principi del restauro modernamente inteso: riconoscibilità, reversibilità, minimo intervento, autenticità. In occasione di questa ricorrenza tanto simbolica quanto drammatica (9 marzo 2020-9 marzo 2021), il parco archeologico del Colosseo ha proposto il video-racconto del restauro, realizzato da Mario Cristofaro, nella speranza di una ripartenza e rinascita per tutti.

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Alfonsina Russo, direttore del Parco archeologico del Colosseo, nella basilica di Santa Francesca Romana (foto PArCo)

“Si sta concludendo l’intervento di restauro sul soffitto cassettonato della chiesa di Santa Francesca Romana”, spiega Alfonsina Russo, direttore del parco archeologico del Colosseo. “Questo intervento è frutto di una felice collaborazione del PArCo e del Fondo Edifici di Culto che prontamente non appena è stata rappresentata la criticità del soffitto è intervenuto con un finanziamento. Si può dire che è un intervento che ha visto la sinergia di tante persone: devo ringraziare tutta l’équipe intervenuta nel restauro, magistralmente condotta dall’architetto Cristina Collettini e anche dal nostro restauratore Alessandro Lugari. L’impegno da parte di tutti è stato proprio quello di concludere i lavori per riaprire finalmente la chiesa il 9 marzo 2021, il giorno di Santa Francesca Romana. E devo ringraziare anche i Padri Olivetani che hanno in tutti i modi agevolato questo intervento finalizzato a riaprire la chiesa il 9 marzo 2021: riaprire la basilica di Santa Francesca Romana il 9 marzo 2021 a distanza di un anno dal lockdown rappresenta un segno di speranza per una ripresa di tutte le attività in Italia e soprattutto per i luoghi della cultura. Tutto il lavoro è racchiuso nel libro “Santa Francesca Romana. Cronache di un restauro nel segno della Speranza”. Tutto l’impegno, la passione e la disponibilità di tecnici, del nostro personale del parco archeologico del Colosseo, del personale del Fondo Edifici di Culto, dei monaci Olivetani è racchiuso in queste pagine. Spero che sia l’occasione per conoscere la passione di quanti lavorano nel mondo della conservazione dei beni culturali e del restauro, ma è anche un modo per conoscere questo luogo straordinario che è la basilica di Santa Francesca Romana”.

Santa Francesca Romana e l’angelo: marmo ottocentesco di Giosuè Meli (foto PArCo)
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Dom Benedetto Maria Toglia, priore di Santa Maria Nova (foto PArCo)

Benvenuto virtuale a tutti da parte della comunità dei monaci benedettini di Monte Oliveto Maggiore che custodiscono questo luogo, la basilica di Santa Francesca Romana, oramai da più di sette secoli. “Siamo qui in questo luogo dove la tradizione cristiana vuole che Simon Mago abbia sfidato il principe degli apostoli”, spiega il priore dom Benedetto Maria Toglia. “E vi rinnoviamo il nostro benvenuto perché nella nostra regola San Benedetto dice che quando l’ospite bussa alle porte del monastero è Cristo stesso che si presenta. E voi oggi nostri ospiti in questo immenso cantiere siete i benvenuti perché giungete qui nel nome di Gesù Cristo. Il 9 marzo 2020 veniva chiusa tutta l’Italia e sappiamo tutti bene il perché. Oltre all’evento della pandemia ci sono stati eventi fisici che hanno contribuito alla chiusura di questo sacro tempio. Finalmente “Nel segno della Speranza”, come è intitolata la pubblicazione diffusa il 9 marzo 2021 quale segno grandioso di speranza, questo luogo che è casa di Dio sarà restituito al culto. E lo faremo proprio nella solennità di Santa Francesca Romana, co-patrona di Roma, patrona delle vedove, protettrice degli automobilisti. Quella celebrazione sarà non soltanto una celebrazione di ringraziamento, ma sarà soprattutto una celebrazione di intercessione per chiedere alla più romana delle Sante la fine della pandemia. La sua casa ritornerà a essere casa di tutti, e questo solo grazie a tante persone che si sono spese per dare splendore ma soprattutto sicurezza a questa casa di Dio. Grazie alla direzione del parco archeologico del Colosseo, grazie al Fondo edifici di Culto, grazie a ogni singola persona che ci ha sostenuto e attinto alla preghiera dei monaci perché intercedessero per loro presso la loro Santa. L’augurio più bello che io possa fare anche in nome di Santa Francesca Romana è che nella speranza sorga un’alba nuova. Grazie”.

Il prezioso mosaico absidale della basilica di Santa Francesca Romana (foto PArCo)
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Cristina Collettini, architetto del PArCo, direttore dei lavori alla basilica di Santa Francesca Romana (foto PArCo)

“Siamo nella chiesa di Santa Francesca Romana, la santa che protegge dalle pestilenze, una delle sante più amate dal popolo romano”, interviene Cristina Collettini, architetto del PArCo, direttore dei lavori. “È una delle chiese con uno dei più bei soffitti del Seicento. Quest’estate dei frammenti a terra di pittura ci hanno fatto capire che c’era qualche problema al soffitto a cassettoni e quindi abbiamo iniziato la verifica e ci siamo resi conto che in realtà c’erano problemi strutturali ben più gravi di quelli che avevamo inizialmente immaginato. E abbiamo quindi iniziato dei lavori di messa in sicurezza del soffitto e poi di restauro di tutti gli apparati scultorei e delle superfici decorate. Il cantiere ancora in corso è stato uno dei più affascinanti e anche più difficili da dirigere. Abbiamo dovuto lavorare in simbiosi, restauratori e maestranze edili. Le maestranze che lavoravano al sottotetto, i restauratori al di sotto del soffitto a cassettoni. Dovevamo cercare di ancorare alla struttura portante del tetto tutti i gruppi scultorei e tutte le fasce di definizione dei lacunari, e dovevamo farlo con dei metodi meno invasivi possibili. Abbiamo utilizzato dei materiali di uso comune, tipo il teflon, abbiamo utilizzato delle bandelle di acciaio, oltre che ai classici elementi di chiodatura e alle colle. E c’è stata una forte collaborazione tra i restauratori che dal basso ancoravano gli elementi scultorei e dall’alto le maestranze edili che riuscivano ad ancorarle sulla struttura lignea, sulle capriate lignee del soffitto. In questo cantiere c’è stato il continuo confronto tra la direzione lavori e le maestranze e i restauratori. Infatti la scelta iniziale di utilizzare i fili in teflon poi non si è rivelata utile, e quindi abbiamo dovuto modificare le nostre scelte. Ma lo facevamo quotidianamente. Ogni volta cerchiamo di individuare una soluzione migliore. Alla fine per ancorare i gruppi scultorei, abbiamo scoperto che la soluzione migliore era quella di utilizzare i classici fili da pesca utilizzati per la pesca ai tonni. Tutti i principi cardine del restauro critico, del restauro modernamente inteso, sono stati rispettati in questo cantiere. Abbiamo cercato di rendere distinguibili tutti gli interventi nuovi, appunto con l’utilizzo di materiali moderni, materiali anche di uso comune. Abbiamo cercato però di non dare un impatto eccessivo a livello estetico, cercando di riallineare a livello cromatico gli inserimenti nuovi rispetto agli sfondi. Abbiamo cercato sempre di utilizzare materiali compatibili: quindi il legno, l’acciaio, tutti materiali che non arrecano danni, che hanno caratteristiche fisiche e meccaniche compatibili con i materiali originali e prettamente il legno. Ho chiesto un grande sforzo sia alle maestranze edili sia ai restauratori. Era importante chiudere i lavori entro la fine di febbraio 2021, perché il nostro obiettivo era quello di ridare al pubblico la chiesa il 9 marzo 2021, non solo perché il 9 marzo è il giorno dedicato alla Santa che, ripeto, è la santa protettrice dalle pestilenze, ma anche perché è anche un anno dal primo lockdown, quindi dalla chiusura che abbiamo avuto a causa di un virus”.

Restauri al controsoffitto ligneo della basilica di Santa Francesca Romana (foto PArCo)
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Alessandro Lugari, restauratore del PArCo, responsabile degli interventi a Santa Francesca Romana (foto PArCo)

“Ci troviamo sul ponteggio della navata della chiesa di Santa Francesca Romana a contatto col controsoffitto del Seicento”, spiega Alessandro Lugari, restauratore del PArCo. “Stiamo facendo questo restauro a seguito di un intervento di somma urgenza, allertati dopo che il parroco aveva trovato a terra dei frammenti di vernice e di legno. Quindi abbiamo fatto subito un controllo del sottotetto e poi con un ponteggio mobile abbiamo visto che era il caso di fare un intervento di somma urgenza, di bloccaggio insomma del sistema tetto che è abbastanza complesso: tutta la struttura a capriate coperta dai tavolati delle tegole-coppi su cui è ancorato il controsoffitto ligneo. Su questo poi c’è tutta la decorazione con le statue applicate, e le varie decorazioni sia pittoriche che metalliche: in questo caso solo foglia d’oro. Il lavoro è stato articolato in due fasi: la prima fase, appunto, è stata quella della messa in sicurezza di tutto il sistema. Sono intervenute due ditte, una di restauro che lavorava sulla parte decorata e una ditta edile che lavorava nel sottotetto. Operando insieme abbiamo visto quali erano i problemi nei riquadri grandi, tenuti da queste grandi travature. Si vedono bene le deformazioni che hanno subito queste grandi travature per l’inizio del cedimento della struttura portante sopra. Questo si nota dalle curvature delle travi portanti. Siamo intervenuti sull’apparato decorativo che comunque si sostiene all’apparato portante superiore. E questo lo abbiamo fatto attraverso bandelle, fili d’acciaio, filini in kevlar, a seconda della situazione. Per esempio, sui travi abbiamo messo delle bandelle in acciaio che si collegano ai travetti superiori. Le sculture sono state rinforzate invece che con chiodature, come erano in originale, con dei cavi che sono sempre ancorati sulla struttura portante sopra, e sono cavi in kevlar, quindi materiale molto resistente e molto sottile, che poi è stato accordato cromaticamente col colore della statua in modo che da basso è abbastanza invisibile. Una volta finita la parte strutturale è stata fatta una prima pulitura generale, una depolveratura soft per evitare di danneggiare tutte le parti delle pellicole pittoriche distaccate. E un consolidamento quasi in contemporanea cercando di bloccare tutta la pellicola pittorica o le foglie d’oro e tutte le parti timbrate in oro. Su queste parti superficiali, generalmente sul legno, su cui è difficile ancorare sia lo strato pittorico che le pellicole metalliche, si interviene con un fondo. I fondi sono generalmente con un aggregato fine e una sostanza proteica. In antico si facevano con albume d’uovo o con la colofonia (pece greca), insomma comunque leganti organici. La parte più problematica era l’angolo Nord-Est, perché in questa parte c’erano state delle infiltrazioni d’acqua, risolte nel 2018: alcune infiltrazioni d’acqua hanno creato deformazioni sia alla struttura portante sia al cassettonato. Il legno era particolarmente ammalorato: abbiamo sostituito la parte interna portante rimettendo a vista le parti antiche, consolidate, restaurate e accordate cromaticamente con l’originale. Quindi una volta finito il consolidamento della parte pittorica, siamo intervenuti anche sul consolidamento di tutte le parti aggettanti: le cornici, i dentelli, anche con delle piccole sostituzioni. Alcuni dentelli sono stati sostituiti. Ovviamente dove le lacune erano molto grandi non siamo intervenuti. Una volta fatte le sostituzioni è stato accordato tutto cromaticamente con l’originale. Le parti in oro sono state chiaramente pulite. L’oro ha questo vantaggio che una volta pulito ritorna come in origine. E dove c’erano le lacune dell’oro è stata rimessa la foglia d’oro. Chiaramente tutto questo è stato dettagliatamente documentato con delle tavole tematiche sia tutte le morfologie di degrado sia tutti gli interventi di consolidamento, di dipintura, di stuccatura, di sostituzione degli elementi”.

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Fausto Toscani, restauratore edile, e Paola Picco, restauratrice specializzata in superfici decorate (foto PArCo)

“Stiamo ultimando l’intervento di restauro conservativo del soffitto a cassettoni”, conclude la restauratrice Paola Picco. “Ci siamo occupati sin da questa estate, insieme all’impresa Ettore Palmucci, della messa in sicurezza in prima battuta, perché il soffitto era molto dissestato, con l’inserimento di angolari e di strutture di bandelle che vanno ad ancorare le assi portanti alle travature di cui naturalmente si è occupata l’impresa di edilizia nel sottotetto. Una collaborazione che è riuscita particolarmente felice. Appunto noi restauratori siamo stati sul soffitto ad ancorare statue e tavolati, e naturalmente a occuparci anche del consolidamento di tutta la pellicola pittorica e di tutta la foglia d’oro che è una gran parte della decorazione”.