“Egitto. La straordinaria scoperta del faraone Amenofi II”: al Mudec di Milano una mostra racconta il sovrano della XVIII dinastia con i diari di scavo di Victor Loret “riscoperti” dall’università di Milano a cento anni dal ritrovamento da parte dell’egittologo francese della tomba nella valle dei Re
Egitto, Valle dei Re, marzo 1898: l’archeologo francese Victor Loret, da un anno direttore generale delle Antichità egiziane, scopre la tomba di Amenofi II, figlio del grande Thutmosi III e della sposa minore Merira Hatshepsut (da non confondere con la matrigna dello stesso Thutmosi III), divenuto faraone della XVIII dinastia nel 1427 a.C. a soli 18 anni. Loret nei suoi diari di scavo annota tutto con grande precisione: una volta entrato, racconta Francis Janot in occasione della mostra “I Faraoni” nel 2002 a Palazzo Grassi a Venezia, gli scavi proseguirono giorno e notte in un crescendo di tensione febbrile; l’avanzamento era ostacolato dalla grande quantità di detriti soprattutto calcarei che ostruivano il passaggio. Giunto finalmente in un’immensa sala, alla luce delle candele Loret scorse un feretro aperto. E annotò: “Vuoto? Non oso pensare il contrario, giacché non sono mai stati trovati faraoni nella necropoli (…). Raggiungo il sepolcro con difficoltà, attento a non calpestare nulla. All’esterno leggo ovunque il nome e il prenome di Amenofi II. Mi sporgo sopra il bordo, avvicino una candela. Vittoria! Sul fondo vedo un sarcofago con un mazzo di fiori rivolto verso la testa e una corona di foglie sui piedi”. Loret aveva scoperto la prima tomba mai trovata prima con la mummia del faraone ancora dentro il sarcofago (la seconda e ultima sarà, 25 anni dopo, quella di Tutankhamon). Nonostante la tomba fosse stata selvaggiamente spogliata in antico, gli antichi profanatori – ancora per motivi inspiegabili – non infierirono sulla mummia di Amenofi alla ricerca di amuleti in oro e altri oggetti preziosi lasciati sul corpo del defunto. Così Loret trovò la mummia come era stata deposta 3500 anni prima. E lì rimase fino al 1928, quando fu traslata al museo Egizio del Cairo.

1898: l’egittologo francese Victor Loret nella tomba del faraone Amenofi II (foto archivio Università di Milano)
Nonostante il faraone Amenofi II sia descritto dalle fonti come il sovrano perfetto, perché è bello, è un atleta straordinario, e consolida i confini del regno ereditato dal padre Thutmosi III fino all’Eufrate, in Asia, e alla quarta cataratta, in Africa, la scoperta della sua tomba non accende i riflettori su di lui. Perché? Proprio negli anni in cui Loret scava nella Valle dei Re, l’Egitto diventa protettorato britannico. Così l’archeologo francese, messo da parte e costretto a lasciare l’Egitto, decide di tenere per sé la scoperta. Deve passare più di un secolo perché si torni a parlare di Loret e di Amenofi II. Nel 1999 l’università Statale di Milano compra dagli eredi l’archivio dell’egittologo francese che pubblica nel 2004. È allora che si scopre che all’interno della raccolta sono conservati i diari di scavo di Victor Loret, dati per persi o mai esistiti: con il loro minuzioso corredo di annotazioni, fotografie, piante e disegni aprono dunque a un secolo di distanza praterie e scenari d’approfondimento che la comunità scientifica milanese, e non solo, ha vagliato attraverso approfondite ricerche.
Da questa storia avventurosa nasce la mostra, aperta al museo delle Culture (Mudec) di Milano fino al 7 gennaio, “Egitto. La straordinaria scoperta del faraone Amenofi II”, dove le carte manoscritte di Loret sono mostrate in pubblico per la prima volta in un percorso filologico che li associa ai molti dei reperti rinvenuti dallo stesso Loret e frutto di prestiti eccezionali dal museo del Cairo, e da quelli di Leida, Firenze e Vienna. La mostra quindi racconta al pubblico una doppia “riscoperta”: quella della figura storica del faraone Amenofi II, spesso ingiustamente oscurata dalla fama del padre Thutmosi III; e la “riscoperta” archeologica del grande ritrovamento nella Valle dei Re della tomba di Amenofi II. “Egitto. La straordinaria scoperta del faraone Amenofi II” è promossa dal Comune di Milano-Cultura e da 24ORE Cultura – Gruppo 24ORE, che ne è anche il produttore, in collaborazione con l’università di Milano. Sono entrambi egittologi della Statale infatti i due curatori, Patrizia Piacentini, titolare della cattedra di Egittologia, e Christian Orsenigo, che con il coordinamento dell’egittologa Massimiliana Pozzi Battaglia (SCA-Società Cooperativa Archeologica) hanno ideato un percorso che coniuga approfondimento scientifico ed emozione. Sia la tematica che i reperti esposti, infatti, permettono un approccio che predilige l’attrattiva sul grande pubblico e offrono contemporaneamente spunti di ricerca e possibilità di approfondimento agli studiosi così come ai molti appassionati della materia. Interessante il video con la presentazione della mostra: guardalo.
La mostra espone reperti provenienti dalle più importanti collezioni egizie mondiali: dal museo Egizio del Cairo al Rijksmuseum van Oudheden di Leida, dal Kunsthistorisches Museum di Vienna al museo Archeologico nazionale di Firenze. Da questi musei e da collezioni private provengono statue, stele, armi, oggetti della vita quotidiana, corredi funerari e mummie. Fondamentale la collaborazione con l’università di Milano, che ha prestato i documenti originali di scavo della tomba del faraone custoditi nei suoi preziosi Archivi di Egittologia, e la collaborazione con la rete dei musei civici milanesi, sempre molto attiva: in particolare il museo del Castello Sforzesco nel periodo autunno-inverno 2017 presta a questa mostra alcuni reperti della collezione egizia, in occasione della chiusura temporanea delle proprie sale per ristrutturazione. Ha inoltre importanza fondamentale l’apparato multimediale e scenografico presente nelle sale della mostra, con vere e proprie esperienze immersive che evocano le calde e antiche atmosfere nilotiche dei paesaggi egiziani del II millennio a.C., dando all’esposizione un taglio unico, nel segno distintivo delle mostre MUDEC.
Il cuore della mostra è la figura del faraone Amenofi II con la ricostruzione in scala 1:1 della sala a pilastri della sua tomba: guarda il video. Un’esperienza immersiva che accompagna il pubblico invitandolo a entrare, attraverso un focus sulle credenze funerarie e la mummificazione, nella camera funeraria per ammirare i tesori che accompagnavano il faraone nel suo viaggio verso l’Aldilà, come ad esempio la stupenda barca sacra, in legno dipinto, proveniente dalla anticamera della Tomba di Amenofi II e conservata al museo Egizio del Cairo. “La struttura della tomba è complessa e le sue dimensioni imponenti”, spiegano gli egittologi. “Una doppia successione di scala e corridoio conduce alla sala del pozzo che sbocca nel vestibolo a due pilastri. Dal vestibolo una terza scala e un terzo corridoio portano a una grande sala rettangolare sostenuta da sei pilastri (sui quali era raffigurato il re al cospetto di diverse divinità), che si prolunga a Sud, al di là dell’ultima coppia di pilastri, nella camera sepolcrale con il sarcofago. Le pareti della stanza a sei pilastri sono decorate con i testi completi del Libro dell’Amduat e con le illustrazioni corrispondenti, come se si trattasse di un grande papiro murale”. L’archeologo Loret portò alla luce non solo la mummia del faraone, ma anche quelle di alcuni celebri sovrani del Nuovo Regno, tra cui Thutmosi IV, Amenofi III, Sethi II, Ramses IV, Ramses V e Ramses VI, mummie che erano state nascoste all’interno di una delle quattro stanze annesse alla camera funeraria, con lo scopo di sottrarle alle offese dei profanatori di tombe. Tra gli altri corpi ritrovati da Loret nella tomba, anche quelli della madre e della nonna di Tutankhamon.

la Pantera in legno bitumato proveniente dalla tomba di Amenofi II e conservata al museo Egizio del Cairo
L’antica civiltà del Nilo nel II millennio a.C. viene presentata nelle altre sezioni della mostra. La vita quotidiana, con gli usi e i costumi delle classi sociali più vicine alla corte di Amenofi II, è illustrata attraverso gioielli e armi, oggetti legati alla moda e alla cura del corpo, che mostrano il livello tecnologico e sociale raggiunto in questo periodo della storia egizia. Il tema delle credenze funerarie fornisce spunti di riflessione in merito alla lunga e complessa durata di questa straordinaria civiltà antica. Simbolo della mostra è la testa di statua di Thutmosi III, padre di Amenofi II, proveniente dal Khunsthistorisches Museum di Vienna, che, sottolineano gli egittologi, riassume al meglio l’evoluzione stilistica nella ritrattistica regale. Tra i reperti da segnalare la Pantera in legno bitumato proveniente dalla tomba di Amenofi II e conservata al museo Egizio del Cairo. “L’animale accompagnava il sovrano nel suo viaggio ultraterreno con passo tranquillo e aggraziato”, interviene l’egittologa Massimiliana Pozzi Battaglia di Sca. “La scultura rende compiutamente l’idea di quanto gli antichi egizi, pur investendo di tanti significati la rappresentazione di una pantera, osservassero la natura e la capissero. I dettagli anatomici dell’animale non lasciano dubbi, nonostante la colorazione simbolico-mitologica, quanto all’identificazione della Panthera-pardus”. Anche Loret si dedicò al riconoscimento delle specie animali nelle rappresentazioni egizie. Lo confermano i documenti “riscoperti” nel suo Archivio, tra cui appunti – esposti in mostra – con le riproduzioni dello studio sui pesci: una vera e propria tavola delle specie ittiche presenti nei geroglifici e iscrizioni. E poi acquerelli che con buona mano riproducono specie di rettili e uccelli cari agli antichi abitanti dell’Egitto.
La Sfinge è stata restaurata e presto si potrà ammirarla dal basso accedendo alla corte della statua simbolo dell’Antico Egitto e camminando tra le zampe della donna-leone

La Sfinge vista dal cortile all’altezza delle zampe: presto questo spazio sarà accessibile al pubblico
La Sfinge a portata di mano: completati i restauri, presto il pubblico potrà accedere al cortile del monumento più emblematico dell’Antico Egitto e camminare tra le zampe della donna-leone, nota ai primi arabi come Abu el-Hai, Padre del Terrore. Anche se questa non sarà propriamente una data “storica” da ricordare come potrebbe essere l’apertura della necropoli di El Hawawis, vicino ad Akmin nel Medio Egitto, ricca di tombe dipinte, o la cosiddetta tomba di Osiride scoperta da Zahi Hawass a quaranta metri sotto la sabbia, a sinistra della Sfinge, a destra della piramide di Cheope e proprio sotto quella di Chefren (luoghi straordinari ma dove purtroppo sono evidenti le problematiche che dovrebbero essere affrontate per consentirne l’accesso ai visitatori), è certo comunque che l’annuncio fatto qualche giorno fa dal premier egiziano Ibrahim Mahlab – vera operazione di marketing – ha avuto l’effetto di riportare l’attenzione del grande pubblico internazionale sui tesori dell’Antico Egitto, risvegliando quell’interesse che potrebbe tradursi in una salutare boccata di ossigeno per l’industria turistica della terra dei Faraoni, che dalla rivolta al presidente Hosni Mubarack e dai successivi anni di instabilità ha conosciuto un’innegabile penalizzazione. “Abbiamo molte sfide davanti a noi. Il governo, con i ministri del Turismo e dell’Antichità, ha un piano concreto per difendere il patrimonio dell’Egitto. E questo è successo a Giza”, ha detto il premier egiziano Ibrahim Mahlab che, tra strette misure di sicurezza, ha visitato l’area svuotata di turisti e affollata per l’occasione di giornalisti locali e internazionali. Dopo il sopralluogo del capo del governo e dei ministri interessati, Hishaam Zazou e Mamdouh Eldamaty, ora mancano solo il via libera definitivo e la data per l’apertura. “Noi siamo pronti”, ha spiegato il supervisore dell’area della Sfinge, Mohamed el Saidey, che ha seguito tutti i passi del restauro. “I lavori di salvaguardia della Sfinge sono durati quattro anni, e hanno riguardato soprattutto il fianco sinistro della statua, dove l’erosione dovuta al tempo, alle folate di sabbia e al materiale calcareo del monumento, aveva creato dei buchi nei blocchi. Ma in realtà – ha ammesso – il restauro dura dai tempi dei primi scavi, è un lavoro continuo”.
Guardia alla piramide di Chefren, la Sfinge è la più antica scultura monumentale d’Egitto. Gli archeologi la collocano intorno al 2500 a.C. e ne attribuiscono l’ispirazione di Chefren (2605-2580). È alta 20 metri e ha il corpo allungato, le zampe protese e un copricapo reale. Fu scolpita in un affioramento di roccia naturale sulla cui base furono aggiunti alcuni blocchi di pietra in occasione delle numerose ristrutturazioni, a partire dalla XVIII dinastia. Il volto è privo del naso: si racconta che la sua distruzione sarebbe dovuta a un colpo sparato da un mamelucco, un ottomano o un francese. In realtà sarebbe andato perso prima del XV secolo. In origine la Sfinge aveva anche una finta barba stilizzata, simbolo di regalità, ma anch’essa scomparve. Un pezzo di roccia prelevato dal luogo in cui essa sorgeva sulla sabbia oggi è conservato nel British Museum di Londra.
La Sfinge sarebbe una raffigurazione emblematica del re, il cui corpo leonino costituirebbe l’archetipo della regalità e la testa, cinta dal nemes (copricapo portato dai soli faraoni), il potere. Intagliata in un unico sperone roccioso, tranne le zampe realizzate con blocchi di riporto, la gigantesca statua subì interventi già in antichità a partire da quelli di Thutmosi IV (come si può leggere dalla “Stele del Sogno” posta tra le due zampe) e di Ramses II. Nel 1980, il riempimento delle fessure con il cemento (un intervento definito “scellerato” da molti tecnici) provocò il crollo di una spalla e i danni furono recuperati solo nel 1998. Infine, l’ultimo restauro risale al 2010, mentre, un anno dopo, tecnici locali hanno abbassato di 7 metri il livello delle acque sotterranee che minacciavano la piana. La Sfinge – si diceva – è dunque uno dei monumenti più antichi ed emblematici che la storia ci abbia tramandato il cui significato è ancora parecchio controverso. Così se alcuni sostengono che la Sfinge sia stata costruita per dare a tutti l’idea della magnificenza regale, altri sono sicuri che ogni parte del corpo della donna-leone simboleggi qualcosa. Quale sia stato l’esatto messaggio che si è voluto veicolare con la costruzione dell’imponente monumento, la Sfinge resta comunque un simbolo dell’Egitto che andava salvaguardato. La preziosa statua è stata così sottoposta a una lunghissima sessione di restauro.
La sabbia del deserto, l’erosione e la consunzione naturale stavano infatti mettendo a repentaglio la salute della Sfinge. Ci sono voluti ben quattro anni d lavori di manutenzione e restauro perché la statua potesse tornare a troneggiare sulla piana di Giza che è stata essa stessa oggetto di un più ampio progetto di rivalutazione, con la pulizia di tutta l’area che negli anni era stata purtroppo invasa dagli escrementi dei cavalli e dei cammelli usati come attrazioni turistiche. Particolarmente massiccio il lavoro svolto dai tecnici in prossimità del collo, del petto e del lato sinistro della Sfinge. Queste zone della statua erano state interessate infatti da fenomeni erosivi talmente potenti da produrre dei buchi nei blocchi usati per la costruzione.
L’area circostante la Sfinge è accessibile dal tempio della Valle di Chefren, uno dei più antichi templi ancora esistenti in Egitto. Il tempio funge ora da piattaforma di osservazione per il pubblico in estasi davanti alla Sfinge, la favolosa creatura con corpo di leone e volto umano. Ma presto la Sfinge non sarà più off-limits per i turisti: la corte della monumentale statua sarà finalmente accessibile col pagamento di un biglietto a parte. I visitatori potranno arrivare letteralmente ai piedi, o, per meglio dire, alle zampe del colosso, toccarlo, guardarlo negli occhi dal basso verso l’alto con un misto di fascinazione e timore reverenziale, mirando da vicino la “Stele del Sogno” di Thutmosi IV e passando anche, altra novità, per il tempio fatto costruire da Amenofi II pochi metri più in là a nord-est.
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