“In viaggio verso le Alpi. Itinerari romani dell’Italia nord-orientale diretti al Norico”: al museo di Zuglio ricostruita l’antica viabilità da Aquileia all’Europa attraverso le ultime scoperte

La locandina della mostra di Zuglio “In viaggio verso le Alpi. Itinerari romani dell’Italia nord-orientale diretti al Norico”
La viabilità degli antichi romani nel Nordest d’Italia è protagonista a Zuglio, la romana Iulium Carnicum, in Friuli. Dopo il grande successo di pubblico della mostra “I bronzi di Iulium Carnicum”, il museo Archeologico di Zuglio, propone fino al 31 agosto una nuova, importante mostra, frutto della forte sinergia tra il Comune di Zuglio e la soprintendenza per i Beni archeologici del Friuli Venezia Giulia e del sostegno della Fondazione Aquileia e di numerosi Enti pubblici e privati. La mostra “In viaggio verso le Alpi. Itinerari romani dell’Italia nord-orientale diretti al Norico” vuole illustrare appunto il lungo e faticoso viaggio che, in epoca romana, occorreva intraprendere per raggiungere le regioni Oltralpe, con partenza dalla porta nord-occidentale di Aquileia: dal mare Adriatico alle Alpi orientali. Un’esposizione interamente dedicata al tema della viabilità nel comparto più orientale dell’Italia romana, con particolare attenzione alle direttrici stradali di collegamento tra i territori di pianura, prossimi alla costa adriatica, e le zone poste Oltralpe. “L’antico reticolo stradale romano, di cui rimane ancora oggi un segno profondo nelle terre dell’Italia nord-orientale”, spiegano i promotori, “ci fa intuire il senso e l’importanza del sistema viario e la profonda trasformazione dei luoghi avviata dai Romani con l’intento di migliorare le condizioni di occupazione”.
La mostra, curata dall’archeologa Flaviana Oriolo, curatore del civico museo Archeologico di Zuglio, con la direzione scientifica di Marta Novello, funzionario della soprintendenza per i Beni archeologici del Friuli Venezia Giulia, costituisce anche l’occasione per illustrare tematiche di carattere generale connesse al sistema viario romano: dalle modalità di costruzione di una strada, ai veicoli impiegati per compiere i tragitti fino alle guide e le carte stradali a disposizione dei viaggiatori. Le strade, inserite in maniera funzionale nel paesaggio agrario, rivestirono, infatti, il ruolo di linee organizzative per l’occupazione dello spazio rurale. Insediamenti minori, luoghi di culto, zone di mercato, ville, fattorie, stazioni di servizio e di sosta: queste e molte altre realtà gravitarono lungo i percorsi della grande viabilità. Per la loro realizzazione i romani misero in atto notevoli innovazioni tecniche, quali ponti per l’attraversamento dei corsi d’acqua, terrapieni, asportazioni e tagli nella roccia.
La scelta del civico museo archeologico di Zuglio per raccontare questa storia si capisce considerando la posizione geografica di Iulium Carnicum: la città più settentrionale d’Italia era infatti ubicata in corrispondenza della strada “Iulia Augusta”, una delle arterie di collegamento tra Aquileia e Aguntum, centro della provincia del Norico, e, pertanto, svolse da sempre un ruolo importante di collegamento con i territori posti al di là dei valichi alpini. Spesso menzionata con il nome di “Iulia Augusta” proposto da Carlo Gregorutti, insigne studioso dell’Ottocento, l’arteria è indicata nelle guide stradali antiche analogamente all’altro percorso che valicava le Alpi orientali risalendo il Canale del Ferro: entrambi i tracciati seguivano nel tratto di pianura un unico itinerario organizzato mediante lunghi rettifili. La mostra costituisce anche l’occasione per illustrare tematiche di carattere generale connesse al sistema viario romano, dalle modalità di costruzione di una strada, ai veicoli impiegati per compiere i tragitti fino alle guide e le carte stradali a disposizione dei viaggiatori.

All’ampio apparato illustrativo in mostra a Zuglio è stata affiancata una scelta significativa di reperti archeologici
All’ampio apparato illustrativo è stata affiancata una scelta significativa di reperti archeologici conservati nelle sedi dei due musei archeologici nazionali di Aquileia e di Cividale, nei civici musei di Udine e al museo Carnico delle Arti Popolari “Michele Gortani” di Tolmezzo. Il materiale fa conoscere alcuni significativi rinvenimenti avvenuti in prossimità del tragitto nella fascia di pianura a partire dalle zone sepolcrali di Aquileia. È poi rappresentata Sevegliano, importante snodo viario, e viene esposta una scoperta straordinaria avvenuta agli inizi del Novecento a Vergnacco, vicino a Reana del Rojale. Il Canale del Ferro è invece documentato da reperti provenienti da Moggio Udinese e da Resiutta, la Statio Plorucensis menzionata su una iscrizione votiva rinvenuta nel paese. Infine uno sguardo sulla vallata del torrente But, dove si sviluppò Iulium Carnicum che svolse da sempre un ruolo importante di collegamento con i territori posti al di là dei valichi alpini; dopo la città la strada si dirigeva alla volta del Passo di Monte Croce Carnico dove correva il confine tra Italia e Norico.
I Veneti snobbarono la ceramica con rappresentati i miti dei Greci, estranei ai propri valori e cultura
I Veneti antichi sapevano bene chi erano i Greci dei quali ebbero modo di apprezzare la produzione artistica. Ma dei Greci snobbarono, se non addirittura rifiutarono, la mitologia, lontana ed estranea alle culture dei popoli delle terre che si affacciavano sull’Alto Adriatico. A queste conclusioni giungono Lorenzo Braccesi, professore emerito già ordinario di Storia antica all’Università di Padova, e Francesca Veronesi , una dei curatori della mostra “Venetkens” (chiude domenica 17 novembre con un successo di pubblico inaspettati: quasi 90mila spettatori), in un saggio scritto proprio per il catalogo dell’esposizione patavina.
Che i Greci conoscessero e fossero in contatto con le terre bagnate dall’Alto Adriatico lo aveva già scritto nel V sec. a.C. il greco Erodoto nelle sue “Storie”, sostenendo che erano stati i Focei a indicare agli altri Greci le particolarità dell’Adriatico, descritto con il termine Adrias, cioè proprio la parte alta dell’Adriatico. Ma quell’attestazione da sempre aveva fatto discutere e dubitare gli studiosi. Infatti, diversamente delle coste meridionali della penisola, lungo le coste delle terre dei Veneti antichi non c’è traccia di colonie greche, quasi che tra Micenei ed età classica, vale a dire tra il X e il VI sec. a.C., ci sia stata una cesura tra due periodi di frequentazioni ampiamente attestate. Invece i rinvenimenti archeologici più recenti sembrano dissipare ogni dubbio: l’Adriatico sarebbe stato abitualmente solcato da traffici commerciali ad ampio raggio senza soluzione di continuità. E i Veneti antichi ebbero modo di conoscere e apprezzare le merci greco-asiatiche . La ceramica greca la troviamo praticamente ovunque: nei centri abitati, nelle necropoli, nei santuari. Ma i Veneti antichi mostrano anche di valutare – prima di scegliere – nella ricca produzione non solo la tipologia, in base all’utilizzo cui quegli oggetti erano destinati, ma anche i soggetti decorativi. Alle rappresentazioni del mito greco si preferiscono le scene di guerra e le decorazioni a motivi vegetali e floreali. “Si può ipotizzare un preciso rifiuto da parte dei Veneti antichi nei confronti del patrimonio mitologico greco”, afferma Francesca Veronese, “forse sentito come troppo interferente con i propri valori. Ciò comunque non porta al rifiuto di altri aspetti culturali: ne è un esempio la pratica del simposio, che viene accettato e assimilato dai Veneti nella sue duplice valenza quotidiana e funeraria. Non a caso le forme di ceramica attica attestate in Veneto sono principalmente kylikes, skyphoi, kantharoi e crateri” .
Ma come e dove i Veneti antichi venivano in contatto con le merci greche ed egeo-orientali? A meridione delle lagune venete sorgevano gli empori di Adria, città etrusco-venetica a nord del delta del Po, meta di traffici greci già in epoca arcaica, e di Spina, città etrusca a sud del delta del Po, terminal di traffici attici per tutta l’età classica. Al centro delle lagune c’era l’emporio di Altino preromana. “A settentrione – precisa Braccesi – non conosciamo per ora l’esistenza di empori, ma è presumibile ce ne fosse uno al Caput Adriae, vicino alle risorgive del Timavo”. Questi empori erano raggiungibili attraverso una navigazione interna protetta o endolagunare: una via scavata dall’uomo in età preromana che consentiva, con tagli e canali trasversali (fossae), il collegamento del delta con le lagune venete. “I Romani – ricorda Braccesi – non fecero per buona parte che consolidare e ampliare una rete di tagli artificiali preesistenti”. Così seguendo le descrizioni fatte dagli storici romani, da Plinio a Livio, abbiamo un’idea di cosa fosse stato realizzato prima di loro. “In età augustea scavano la fossa Augusta, per collegare Ravenna a Spina, ma in realtà riattano la fossa Messanica. Nella prima età imperiale, la fossa Flavia per unire il Po di Spina ad Adria, lavorando su un canale etrusco. E poi la fossa Clodia, per immettere il Po di Adria nell’Adige e da Chioggia in laguna, canale che semplicemente amplia la fossa Philistina”. Quindi, sono gli idronimi a confermarlo, non furono solo gli Etruschi a realizzare le canalizzazioni preromane, ma anche i Siracusani, che ricolonizzarono Adria con il tiranno Dionigi: fossa Philistina omaggia il politico e storico siracusano Filisto, la Messanica la sicelota città di Messina.
Secondo Plinio il “sistema delle fossae” conferisce nella laguna veneta dove defluisce in mare il Medoaco (Meduacus Maior, il fiume di Padova) , formando con la sua foce la bocca di porto di Malamocco: qui infatti esisteva un “grande porto” che traeva nome dal fiume e che era invisibile dal mare perché a fronte della laguna, come assicura lo storico greco Strabone. “Dal grande porto – continua Braccesi – le navi antiche potevano raggiungere per via interna gli empori a nord e a sud, costituendo quindi uno svincolo decisivo per le rotte endolagunari che in età preromana attraversavano la laguna di Venezia”.
Non è un caso che proprio da qui parta in epoca storica il generale spartano Cleonimo alla volta di Padova. Percorso seguito anche nella leggenda dell’eroe troiano Antenore che risalendo il fiume andò a fondare Padova. Entrambi vengono dal mare, ricorda Braccesi, entrambi risalgono la via del Medoaco, entrambi sono personaggi immortalati dal medesimo autore antico, quel Tito Livio che ben conosceva la natura dei luoghi per essere nativo di Padova. Ma nell’immaginario locale, si chiede lo studioso, dove approda l’eroe della leggenda, dove sbarca Antenore? “Probabilmente nello stesso luogo dove Livio fa sbarcare Cleonimo. Cioè, spalle al mare, sul fronte simmetricamente opposto al litorale, dove sorgeva il grande porto del Medoaco. E quel luogo a un certo punto è stato chiamato Troia!”. Al sito lagunare dove era sbarcato Antenore probabilmente quel toponimo fu dato in epoca storica sull’onda della veicolazione attica (Sofocle, Strabone) della saga troiana. La leggenda antenorea, col tempo, diviene patrimonio delle stesso mondo veneto. Ma perché allora è assente nel repertorio figurativo della ceramica attica qui destinata all’esportazione? “Perché – conclude Braccesi – le immagini del mito, così diffuso nella ceramica attica, tra i Veneti antichi non paiono proprio trovare udienza”.
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