“Il mondo che non c’era” a Palazzo Loredan. Dopo Firenze, Rovereto e Napoli, i capolavori della collezione Ligabue tornano a Venezia: oltre 150 opere raccontano vita, costumi e cosmogonie delle culture Meso e Sudamericane prima di Colombo

Il manifesto della mostra “Il mondo che non c’era. Capolavori della collezione Ligabue” a Venezia dal 12 gennaio al 30 giugno 2018
Prima Firenze, poi Rovereto, quindi Napoli, e ora Venezia: se uniamo con un tratto di penna sembra di seguire lo zigzagare di una nave che cerca di catturare il vento a favore. Un po’ quello che successe più di mezzo millennio fa alle caravelle di Cristoforo Colombo che, sulle vie delle Indie, trovò “il mondo che non c’era”. Quella del 12 ottobre 1492 fu una scoperta epocale, un fatto che scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma – Grecia – Oriente; l’incontro di un nuovo continente che, secondo l’antropologo Claude Lévi-Strauss, è forse l’evento più importante nella storia dell’umanità. La scoperta delle Americhe rappresenta l’incontro di due civiltà che sono parte della medesima umanità. Un’umanità fatta di comunanze e differenze di cui ci si rende ben conto grazie alle opere esposte nella mostra “Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue” che, appunto, dopo il museo Archeologico nazionale di Firenze, Palazzo Alberti Poja a Rovereto, e il museo Archeologico nazionale di Napoli, approda a Venezia, a Palazzo Loredan sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, dal 12 gennaio al 30 giugno 2018, promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue. Oltre 150 opere d’arte che raccontano le tante e diverse civiltà precolombiane che avevano prosperato per migliaia di anni nel continente americano prima dell’incontro con gli Europei: sono le antiche culture della cosiddetta Mesoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador), il territorio di Panama, le Ande (Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fino a Cile e Argentina): dalla cultura Chavin a Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca.

Uno straordinario copricapo e un tessuto della cultura Nazca (200 a.C.) con piume di uccelli amazzonici e corda (collezione Ligabue)
Per i capolavori della collezione Ligabue concludere il tour italiano a Venezia è un ritorno a casa. E non solo perché Ligabue e Venezia rappresentano un binomio indissolubile (Giancarlo Ligabue, scomparso nel 2015, imprenditore ma anche paleontologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore e appassionato collezionista, è sempre stato molto legato alla città Serenissima: e questa mostra è un omaggio alla sua figura da parte del figlio Inti Ligabue, che con la “Fondazione Giancarlo Ligabue” da lui creata continua l’impegno nell’attività culturale, nella ricerca scientifica e nella divulgazione dopo l’esperienza del Centro Studi e Ricerche fondato oltre 40 anni fa dal padre Giancarlo). Ma perché Venezia, pure estranea alla corsa al nuovo Continente, finì in realtà con il “conquistare” quelle terre grazie alla forza del proprio immaginario, al punto che nelle cronache del tempo tante città sull’acqua le furono paragonate o vennero chiamate da esploratori e conquistatori rifacendosi alla città veneta – in particolare la capitale azteca di Tenochtitlan fu spesso definita “un’altra Venezia” e raffigurata accanto ad essa – sarà la Serenissima uno dei principali centri propulsori di quella che potremmo definire come la “scoperta letteraria” delle Americhe. Gli stampatori veneziani furono infatti tra i principali protagonisti della rapida e massiccia diffusione europea delle notizie che giungevano dal Nuovo Mondo (Venezia venne superata solo da Parigi per numero di testi sulle Americhe pubblicati nel Cinquecento) e in alcuni casi i testi veneziani rappresentano le fonti più antiche, essendo andati perduti i relativi manoscritti.

Figura femminile con funzione di sonaglio in ceramica con decorazione policroma. Cultura Maya, 600-800 d.C. (collezione Ligabue)
I capolavori della collezione Ligabue sono il cuore della mostra curata da Jacques Blazy specialista delle arti pre-ispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud. Tra i membri del comitato scientifico anche André Delpuech, Direttore del Musée de l’Homme – Muséum d’Histoire Nationale Naturelle di Parigi e già responsabile delle Collezioni delle Americhe al Musée du quai Branly e l’archeologo peruviano Federico Kauffmann Doig, entrambi anche componenti del comitato scientifico della Fondazione Giancarlo Ligabue. Dalle rarissime maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della Mesoamerica, primo vero centro urbano del Messico Centrale, ai vasi Maya d’epoca classica preziose fonti d’informazione, con le loro decorazioni e iscrizioni, sulla civiltà e la scrittura di questa popolazione; dalle statuette antropomorfe della cultura Olmeca, che tanto affascinarono anche i pittori Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e diversi artisti surrealisti (con la loro evidente deformazione cranica, elaborate acconciature e il corpo appena abbozzato) alle sculture Mezcala tanto enigmatiche nella loro semplicità quanto misteriose nelle origini, al punto che ne restarono profondamente suggestionati divenendone collezionisti anche André Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore. E poi, sempre dal Messico, statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro, il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C. – notevole esemplare in mostra la Grande Venere con la mani congiunte sul ventre – urne cinerarie (dal 200 a.C. al 200 d.C.) della cultura Zapoteca con effige spesso antropomorfa, sculture Azteche, esempi pregevoli delle Veneri ecuadoriane di Valdivia (la prima ceramica prodotta in Sud America nel III millennio a.C.), oggetti Inca, tessuti e vasi della regione di Nazca – manufatti dell’affascinante cultura Moche, straordinari oggetti in oro. Si tratta in realtà di culture che in molta parte devono ancora essere e studiate e comprese: annientate, annichilite e ignorate per lunghi anni dopo la scoperta di quelle terre, da parte dei Conquistatores ammaliati solo dalle ricchezze materiali, autori di stragi e razzie.

Pendente in oro a forma d’aquila con le ali aperte e con collane al collo. Cultura Tairona, 800-1300 d.C. (collezione Ligabue)
L’oro, come quello dei Tairona (puro o in una lega con rame chiamata “tumbaga”) spingerà nelle Ande spagnoli e avventurieri alla ricerca dell’“El Dorado”, uno dei grandi miti che alimentarono la Conquista. In pochi decenni dall’arrivo di Colombo (nessuno degli oggetti da lui riportati si è conservato) le culture degli Aztechi e degli Inca saranno schiacciate con le armi e con la schiavitù e quella dei Taino praticamente annientata: già verso il 1530, secondo gli storici, non esisteva più un solo Taino vivente. Milioni di indio moriranno anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti di queste culture.
A Genova in mostra il meglio dell’archeologia precolombiana dell’Ecuador. Intanto l’Italia restituisce l’intera collezione Pavesi (687 reperti) all’Ecuador
L’Italia riconsegna all’Ecuador 687 reperti archeologici precolombiani, cioè l’intera collezione Pavesi di proprietà del Comune di Genova: dopo la collezione Norero e la collezione Dogana questa è l’ultima operazione di restituzione di antichità allo Stato di provenienza in ottemperanza alla Convenzione Unesco 1970. Il sindaco di Genova Marco Doria e il console dell’Ecuador a Genova Esther Cuesta hanno firmato l’intesa in occasione dell’apertura della mostra “Ecuador al mundo: un viaje por su historia ancestral” che racconta 11mila anni di archeologia nel Paese dell’America Latina: dal periodo pre-ceramico (11000-4000 a.C.) all’impero Inca ( 1470-1534 d.C.). La mostra, aperta fino al 6 luglio al Castello D’Albertis, presenta una selezione di 218 reperti, tra i più rappresentativi tra quelli presenti nelle tre collezioni precolombiane recuperate a Genova: la collezione Norero, 3504 pezzi, la collezione Pavesi, 687 pezzi e la collezione Dogana di Genova, 667 pezzi. “La restituzione – interviene Esther Cuesta Santana – è una opportunità importante per la nostra storia e per la nostra cultura ancestrale e la mostra Ecuador al Mundo contribuisce a portare una maggiore interculturalità in una città che adesso sento anche un po’ mia”. E il sindaco: “Le definizioni “civiltà pre-colombiane” o “pre-ispaniche” pongono al centro il punto di vista occidentale mentre è molto più corretta la definizione “cultura ancestrale”, riportata nella mostra al Castello D’Albertis, che fa riferimento al passato senza riferirsi allo spartiacque della conquista da parte di culture all’epoca più forti militarmente”.
Il Castello D’Albertis è diventato museo delle Culture del mondo nel 2004, due anni dopo che la famiglia del senatore Vicente Norero ha donato a Genova una collezione di reperti precolombiani ecuadoriani. “Da allora – spiega l’assessore alla cultura Carla Sibilla – il museo ha valorizzato questo patrimonio per far conoscere agli italiani la storia dell’archeologia dell’Ecuador, Paese che vanta la prima ceramica del continente americano con le figurine della cultura Valdivia (4000 a.C.), e per farla “riscoprire” ai cittadini ecuadoriani ormai residenti a Genova”.

Due statuine della cultura Valdivia (4000 a.C.) che ha restituito le più antiche ceramiche dell’America Latina
La mostra, come si diceva, approfondisce le diverse culturali della storia antica dell’Ecuador attraverso più di 200 reperti preispanici in ceramica, conchiglia e metallo, appartenenti ai diversi periodi culturali dell’archeologia dell’Ecuador. E, scorrendo le relazioni degli archeologi, si evidenza che c’è un elemento comune a tutti i gruppi che si sono avvicendati nella storia ecuadoriana: lo scambio di conoscenze sull’uso delle materie prime, come l’ossidiana e la conchiglia spondylus, sulle tecniche per la realizzazione di oggetti di uso quotidiano e cerimoniale, e sulle pratiche agricole e commerciali, che permisero alle diverse popolazioni di sostentarsi con prodotti di uso domestico e beni di lusso. “Protagonisti della mostra – spiega la curatrice del museo delle Culture del mondo-Castello d’Albertis, Maria Camilla de Palma -, sono figurine umane declinate nelle diverse tappe della vita, e rappresentazioni di animali riprodotti per la loro valenza mitica e simbolica: in vasi, in stampi per tessuti e pittura corporale, in fischietti o maschere, in utensili per la vita domestica o cerimoniale, come macine per cereali o offerte funerarie. Essi compaiono nelle diverse aree geografiche testimoniando la cosmo-visione delle diverse culture nel tempo”.
La mostra, nell’ultima sezione, evidenzia “il ruolo del patrimonio culturale nella definizione dell’identità interculturale e plurietnica dell’Ecuador, e sottolinea come, nella accezione dinamica della identità, il recupero dei beni, oltre che dei saperi, faccia parte dell’identità ecuadoriana stessa, e come, per ovviare alla dispersione dei reperti archeologici appartenenti al patrimonio nazionale, la repubblica dell’Ecuador abbia recentemente implementato linee di azione internazionali per la restituzione dei suoi beni culturali”.

La curatrice del museo delle Culture del mondo-Castello d’Albertis, Maria Camilla de Palma, in una missione in un sito precolombiano
Maria
Camilla de Palma, insieme al console Esther Cuesta Santana, sta già pensando al “dopo restituzione”: come consentire, dopo la partenza delle collezioni per l’Ecuador, a genovesi ed ecuadoriani la possibilità di ammirare anche la cultura dell’Ecuador nell’ambito del museo delle culture del mondo? “Innanzitutto con una sala che “racconti” la storia della restituzione dei reperti archeologici e, forse, chiedendo allo stato dell’Ecuador una piccola selezione di opere da inserire nell’esposizione permanente. Ovviamente in comodato d’uso. Anzi, d’esposizione”.
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